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domenica 1 gennaio 2017

LA CASA DEL MAGO


C'era una volta un mago che si chiamava Lon e viveva in una casa che si chiamava Nead. Dove fosse questa casa non è facile a dirsi, perché la casa era protetta da una fitta rete di incantesimi che la rendeva per lo più invisibile o la faceva apparire sotto false sembianze. Di sicuro la casa si trovava vicino o forse proprio dentro un bosco di abeti al cui margine c'era un'ampia radura, raggiungibile per mezzo di una comoda strada e dotata di una piacevole area pic nic.
Un giorno di inizio primavera una famigliola si recò lì proprio per un pic nic. Erano da soli, perché, data la stagione, era un po' presto per mangiare all'aperto e le previsioni meteo non erano incoraggianti, ma in realtà era uscita una giornata proprio gradevole così si accomodarono su un tavolo ai margini del prato e mangiarono di gusto le buone cose che avevano preparato la sera prima e quelle che avevano cotto sulla griglia il giorno stesso. Parecchi uccellini cinguettavano tra i rami degli alberi e dei cespugli, ma uno in particolare li stava osservando attentamente.
Poi, dopo mangiato, mamma e papà furono presi, improvvisamente e alquanto insolitamente, da un grande torpore e si stesero su una coperta per fare un sonnellino ristoratore.
I due bambini per non disturbare i genitori, decisero di allontanarsi un po' andando ad esplorare la radura. La sorella maggiore Lilli aveva con sé il suo orsetto di peluche Giangiovanni e se lo teneva ben stretto per evitare i soliti scherzi del fratellino Mofi, che era un anno più giovane, ma non aveva mai amato i peluches e detestava in particolare Giangiovanni forse solo per gelosia, dato che la sorella gli dedicava molte attenzioni e molto tempo.
Arrivati al margine della radura un uccello nero con il becco giallo volò loro intorno alcune volte poi si fermò davanti a loro e saltellò verso il bosco. Si fermò tornò verso i bambini e poi saltellò di nuovo verso il bosco. I bambini incuriositi cominciarono a seguirlo ed imboccarono dietro di lui un sentiero che entrava nel bosco.
Man mano che si allontanavano dalla radura, il bosco si infittiva, ma i bimbi presi dal gioco di seguire l'uccellino non se ne avvidero. Ad un certo punto Mofi pestò una grossa vescia da cui uscì una strana nuvola di fumo violetto che profumava di cioccolato e avvolse completamente i bimbi.
Dopo qualche istante la nuvola si diradò e Lilli e Mofi si guardarono intorno stupefatti: erano su un ampio sentiero in mezzo ad un giardino con aiuole di fiori e di fronte a loro vi era un laghetto con un ponte che lo superava e dietro una grande casa.
Lilli per lo stupore lasciò cadere Giangiovanni a terra mentre Mofi impaurito le prendeva la mano.
I due si guardarono senza sapere cosa dire, quando sentirono una vocetta che diceva:
Che bello che è qui e che bella casa, andiamo a vedere cosa c'é lì dentro”.
Ed ecco una nuova sorpresa ancora più incredibile: davanti a loro saltellava Giangiovanni
Dai Lilli andiamo” riprese a dire il pupazzo.
Ma tu parli” balbettò Lilli.
Ma certo! Che novità è? Forse di solito però tu non mi badi o nemmeno mi senti, ma io parlo. Ma adesso andiamo alla casa. Dai Mofi”
Lilli non era affatto convinta e Mofi, che già non aveva simpatia per Giangiovanni, trovava la sua vocetta alquanto antipatica e il suo modo di saltellare continuamente gli dava già sui nervi.
I bambini si guardarono indietro, ma non c'era più traccia del posto in cui si trovavano poco prima ne si intravvedeva alcun sentiero per uscire da lì. Così da un lato non potevano tornare indietro, come avrebbero voluto, dall'altro erano anche curiosi di vedere il giardino e la casa e così si avviarono dietro a Giangiovanni che trotterellava svelto svelto.
Il giardino era molto bello, pieno di fiori e piante dai mille colori e dai dolci profumi, ma niente di conosciuto e niente che sembrasse neanche lontanamente commestibile.
Arrivarono così al portone della casa. Un enorme portone intarsiato. Giangiovanni lo spinse come niente fosse ed entrò. Lilli provò a spingere il portone e si accorse che era leggerissimo.
Strano,” pensò “un portone così grosso e così leggero.”
Al centro dell'atrio un'ampia scalinata portava ad un soppalco.
Per di qua” disse Giangiovanni e cominciò con dei ridicoli saltelli a salire. I bimbi lo seguirono in cima e videro che sul muro di fronte alle scale c'era l'entrata di uno scivolo.
Wow” disse Giangiovanni “ sembra proprio bello”
I bambini erano un po' perplessi, perché non si potava assolutamente capire dove portasse lo scivolo.
Vado avanti io” squittì il pupazzo e si infilò nel buco sparendo alla vista dei bimbi.
Yuhu” gridava mentre scendeva e poi dopo una breve pausa è bellissimo qua, ci sono tantissimi giochi, venite”.
Andiamo?” chiese Mofi.
Sì” rispose la sorella, che era curiosa ma sempre piuttosto titubante. Mofi entrò e sparì a sua volta nel tunnel.
Tutto a posto” urlò dentro il tubo la bimba.
Mofi voleva quasi dire “Sì, è bello ed è pieno di giochi”, ma gli seccava dare ragione a Giangiovanni. Così si limitò a dire
Sì, Vieni anche tu”.
Lilli entrò nello scivolo che attraversava la parete e poi proseguiva su un tubo sospeso per aria che si interrompeva bruscamente facendola cadere in una specie di grossa cesta che penzolava appesa attraverso quattro catene al soffitto. Il pavimento di sotto sembrava parecchio lontano come anche il soffitto, mentre lo scivolo era poco più sopra di loro, ma comunque fuori portata.
Mofi stava già giocando, Lilli invece non era affatto contenta di essere appesa là in alto e che Giangivanni si muovesse e parlasse continuava a renderla molto inquieta.
Giangivanni intanto si era messo buono in un angolo e Lilli decise di rilassarsi un po' giocando con il fratellino. Ben presto però si stufò e si sentiva pure stanca.
A me questo posto non piace per niente. Voglio andarmene disse Lilli.
Neanche a me piace per niente voglio andarmene “ripeté subito Mofi, che si sentiva anche lui molto stanco e che, come sempre al primo accenno di sonno, cominciava ad avere nostalgia della mamma.
Giangiovanni propose di riposarsi, fare un pisolino e insisteva nel dire che lì si stava benissimo, ma poiché i bimbi non gli davano più retta concluse:
Comunque è impossibile andarsene senza una scala per scendere”. Mofi prese il primo giocattolo che gli capitò tra le mani e lo gettò con rabbia giù di sotto.
Subito si sentì il rumore del giocattolo che si fracassava al suolo. Lilli si accorse che il suono era arrivato praticamente subito, troppo presto rispetto alla distanza che sembrava avere il pavimento. Guardò giù: il salto sembrava enorme. Prese allora un telefono di quelli con le ruote e gettò giù la cornetta. Subito questa arrivò a terra. Ma il telefono era ancora in mano a Lilli e il cavo era corto. “Sembra alto, ma non lo è” ridacchiò soddisfatta Lilli, quindi si arrampicò sul bordo del cestone e aiutò anche Mofi a salire.
No, no, non saltate è altissimo vi sfracellerete!” strillava Giangiovanni, ma i bimbi fecero un balzo e in un attimo furono a terra senza farsi assolutamente nulla. Il nido sembrava altissimo lassù, ma allungando le mani essi potevano toccarlo, mentre le loro braccia sembravano diventare lunghe decine di metri.
Che ridere” disse Mofi continuando a tirare su e giù il braccio a toccare il nido. Ma Lilli, che aveva deciso definitivamente che la situazione era davvero troppo assurda, che nulla quadrava in quel posto e che dunque ogni sorpresa era possibile, anche le più brutte, lo prese per mano e lo tirò dicendo:
Vieni dobbiamo andarcene subito di qua”.
Mofi, che voleva tornare da mamma e papà, non poteva essere più d'accordo e capiva anche che la sorella era preoccupata e sapeva che in queste cose lei finiva per avere sempre ragione.
In quel momento rispuntò fuori Giangiovanni
aspettatemi, aspettatemi. Fermiamoci un po’ qui a riposare”.
No” disse Lilli, che ormai detestava Giangiovanni più di quanto non lo odiasse Mofi
come hai fatto a scendere senza scala?” gli domandò ironica.
Potevi anche restare su” soggiunse Mofi.
Va beh allora andiamo” disse Giangiovanni conciliante e lì seguì.
Usciti dalla stanza si trovarono in un corridoio che a prima vista sembrava interminabile e incominciarono a percorrerlo. Ad un certo punto al posto del pavimento c'era solo acqua.
Di qui non si passa” sentenziò subito il pupazzo “torniamo indietro”
No, noi sappiamo nuotare perfettamente” ribattè Lilli, al che Mofi urlando “Evviva” si gettò a piedi pari nell'acqua. Invece che un tuffo in una piscina però risultò un salto in una pozzanghera profonda appena qualche millimetro, un velo d'acqua che arrivava a stento a bagnare le suole.
Uffa” sbottò Mofi “Addio bagno”.
Così avanzarono ancora, ma da lì a poco la luce cominciò ad affievolirsi e davanti a loro il corridoio diveniva del tutto tenebroso. Dietro di loro invece si vedeva la luce.
Torniamo indietro” ripetè speranzoso Giangiovanni, ma Mofi lo brandì come fosse un bastone da ciechi e disse alla sorella: “Andiamo”
Ottima idea” ridacchiò lei “Bravo!”
Giangiovanni emetteva dei piccoli rantoli, ma in breve avanzando a passo spedito e senza trovare ostacoli il corridoio tornò luminoso e Mofi lo mollò per terra. Dopo un altro po' di cammino iniziarono a sentire dei rumori strani come di belve ringhianti, ruggenti e soffianti con urla acute di uccelli e videro delle grosse belve stranissime e confuse che avanzavano verso di loro. I bambini rimasero impietriti, mentre Giangiovanni gridava
Scappiamo, scappiamo”.
Ma i bambini sul principio non riuscivano a muoversi per lo spavento poi incominciarono ad infastidirsi perché Giangiovanni oltre a ripetere in modo petulante di andare li tirava per le maglie.
Zitto tu” gli intimarono e fissarono coraggiosamente le assurde e spaventose creature che avevano di fronte.
Avanzano, avanzano, ma non arrivano mai” osservò Lilli.
E' un altro trucco?” buttò lì Mofi.
Di sicuro” rispose Lilli “Attacchiamo”.
Ancora una volta a Mofi non parse vero di accogliere la proposta della sorella e si slanciò in avanti urlando: “All'attacco!”
Ma appena raggiunsero le belve queste svanirono dissolvendosi nell'aria insieme ai loro versi.
I bambini proseguivano sempre più sicuri di sé, ma a quel punto il corridoio iniziò a girare, poi trovarono un bivio ed un altro ed un altro.
Il pupazzo li seguiva in silenzio, Ad un certo punto Lilli si fermò. Guardò Giangiovanni e disse:
Va avanti tu”
Va bene” il pupazzo obbedì e si incamminò prendendo il passaggio a sinisitra. Lilli lasciò cadere a terra una forcina per capelli e lo seguì. Poco dopo ritrovarono la forcina. Ripresero il cammino e Lilli intimò a Giangiovanni di prendere il passaggio a destra, ma dopo poco Lilli rivide la sua forcina.
Lo sapevo” sbottò, “siamo in un labirinto”.
Mofi sferrò un calcio al muro e lo sfondò aprendo un piccolo buco.
Qui è tutto finto”. Esclamò Lilli “Anche i muri” e incominciò a demolire le pareti a calci e pugni subito spalleggiata da Mofi. In breve le pareti del labirinto furono frantumate si ritrovarono nel solito corridoio.
Continuando ad avanzare trovarono una porta su un lato. La aprirono e videro cinque vecchietti che si muovevano lentissimamente, troppo lentamente. Lilli pensò che anche se erano vecchi non potevano muoversi così lentamente, dunque probabilmente era la stanza che li rendeva lenti, forse solo in apparenza, ma era meglio non rischiare entrando denltro.
Andiamo” disse Lilli.
L'avanzata lungo il corridoio era molto strana, perché con alcuni passi sembrava di fare decine di metri con altri pochi millimetri, a volte sembrava addirittura di tornare indietro.
Trovarono un'altra porta e sbirciando dentro videro cinque vecchietti che si muovevano freneticamente. “Troppo veloci” pensò Lilli, di nuovo la stanza era stregata meglio stare alla larga.
Avanti” disse Mofi. Lilli annuì e si incamminarono.
Dopo un po' dentro un'altra stanza cinque vecchietti erano come congelati. “Sono sempre gli stessi” sussurò Lilli. Li guardò sempre restando sulla soglia poi proseguirono fino ad incontrare un'altra porta di un'altra stanza dove i soliti vecchietti si muovevano finalmente normalmente, ma avevano un'espressione così triste che veniva voglia di scappare. “Andiamo” disse Giangiovanni. “Restiamo” ribatte Lilli e soggiunse rivolta a Mofi “Non ti muovere”. “Che facciamo fermi qui, entriamo” sibilò il pupazzo. “no” disse Lilli. “Volete restare fermi qui per sempre” quasi strillava Giangiovanni che stava evidentemente perdendo la pazienza. “Basta” intimò Lilli. “Mofi, pensaci tu a lui, come quella volta sul tavolo del giardino”. Mofi capì al volo, estrasse la fionda di tasca e veloce come un lampo colpì Giangiovanni in piena fronte. Il pupazzo cadde e Mofi gli saltò sopra con un piede e con la mano gli tirò la testa fino a staccarla. Si sentì un urlo tremendo e un lampo di luce li abbagliò per un attimo. Poi videro un uomo con la faccia torva che sibilò “Maledetti”. Intanto tutto intorno a loro ogni cosa era cambiata. Si trovavano dentro una specie di ampia capanna con dei paraventi sparsi qua e là e al posto dei cinque vecchietti c'erano cinque ragazzi che si stropicciavano gli occhi e si sgranchivano le articolazioni delle gambe e delle braccia sorridendo e dandosi pacche di gioia l'uno con l'altro.
Mentre ragazzi esultavano, il mago nel frattempo sembrava invecchiare ad ogni istante finché, prese le sembianze di un uccello grigio, si diede alla fuga. I ragazzi spiegarono che il mago si nutriva dell'energia dei giovani facendoli invecchiare per rimanere lui giovane per sempre.
Uscirono dalla capanna, i ragazzi montarono sulle loro biciclette che erano parcheggiate lì dietro e dopo aver ringraziato infinitamente Lilli e Mofi se ne andarono lungo il sentiero nel bosco.
Lilli e Mofi invece nella direzione opposta seguendo con lo sguardo il sentiero intravidero la radura, che subito raggiunsero. Riattraversarono di corsa il prato e tornarono al tavolo del pic nic accanto a cui i genitori proprio in quell'istante iniziavano a ridestarsi.
Era già sera e mamma e papà si stupirono molto nel vedere come fosse ormai l'imbrunire e chiesero ai figli cosa avessero fatto tutto quel tempo.
Abbiamo esplorato il bosco” risposero.
Ma non era pericoloso” chiese la mamma.
No c'era solo un uccello buffo, nero con il becco giallo, che ci svolazzava intorno, ma lo abbiamo scacciato via” risposero allegramente i bimbi.
Rqccolsero le loro cose per prepararsi a tornare a casa e appena prima di partire la madre si accorse della mancanza di Giangiovanni e chiese a Lilli dove fosse.
L’ho buttato”.
Buttato?” la madre era allibita
Sì Mofi l’aveva rotto, ma ha fatto bene, tanto non mi piaceva più, mi ero proprio stufata di lui, ormai sono grande”.
Mofi ridacchiava “Anch'io sono un po' grande adesso”.
I genitori erano sbalorditi, ma in fondo compiaciuti e divertiti delle dichiarazioni dei bimbi.
Poi salirono tutti in macchina e tornarono a casa.
E il mago? Lilli e Mofi non lo rividero mai più e neppure noi ne sappiamo nulla, ma probabilmente starà costruendo un'altra casa da qualche parte.

domenica 16 dicembre 2012

CINQUE PAIA DI SCARPE DI FERRO


Un giorno in un villaggio ai confini del regno in casa del fabbro nacque un bambino bello e vispo. Qualche anno dopo nello stesso villaggio in casa del calzolaio nacque una bimba bella e vispa. Entrambi crebbero ed il ragazzo divenne un giovane prestante e di rara intelligenza e furbizia, mente la bimba fiorì in una ragazza intelligente, ma soprattutto incredibilmente bella. Lei stessa guardando la sua immagine riflessa nel bacile, nel lavatoio, nelle fontane, nel lago e in ogni altro specchio naturale non poteva che constatare di essere splendidamente affascinante. Ascoltando i discorsi delle comari finì col persuadersi che, data la sua bellezza, solo un principe era degno di averla in sposa. Andò dunque dal capo villaggio ad informarsi se e come la cosa fosse possibile.
“Oh la cosa è ben regolamentata dalla legge” le rispose e consultando il grosso libro delle leggi del regno le spiegò che le ragazze che volevano ambire alla mano del principe dovevano procurarsi 5 paia di scarpe di ferro e mettersi in cammino con il primo paio ai piedi verso la prima sede ducale e lì seguire le istruzioni per il lungo viaggio attraverso il quale, consumando le 5 paia di scarpe di ferro e superando 5 prove, sarebbe giunta al cospetto del principe che avrebbe deciso se prenderla in moglie.
La ragazza non si spaventò, ma corse subito dal padre chiedendogli di confezionarle le scarpe. Ma il padre rispose: “Figlia mia, sarei ben lieto che tu potessi diventare una principessa, ma io lavoro il cuoio, non il ferro, devi andare dal fabbro e chiedere a lui di prepararti simile scarpe”. La ragazza corse dal fabbro, che acconsentì di prepararle le scarpe e le chiese solo in cambio di ricordarsi del suo villaggio natale quando sarebbe stata alla reggia, perché il terreno era generoso e la gente era laboriosa, ma le tasse reali erano così esose che portavano via quasi tutto lasciando gli abitanti sulla soglia dell'indigenza. Del resto i guerrieri del regno vicino spesso sconfinavano e senza l'aiuto delle truppe reali non c'era modo di difendersi. Il fabbro quindi istruì il figlio su come costruire le scarpe e lasciò a lui il lavoro. Il ragazzo mise moltissimo tempo a misurare i piedi della ragazza e a provare vari stampi. La ragazza si rese conto che il giovane fabbro la stava tirando un po' per le lunghe, ma pensando a quanta strada doveva fare giudicò che non sarebbe stato male avere delle scarpe che le calzavano bene, inoltre il giovane era simpatico ed era piacevole chiacchierare con lui e nemmeno le dispiaceva fermarsi ancora un po' a casa prima di abbandonarla per sempre. Infine dopo qualche mese le scarpe furono pronte. Nel consegnarle il ragazzo le diede anche un minuscolo sacchettino di sabbia rossa pregandola di portarlo con sé come porta fortuna. Ora bisogna sapere che il giovane per aiutare la ragazza di cui si era segretamente innamorato, come del resto tutti i giovani del paese, le aveva messo nel quinto paio di scarpe della sabbia rossa perché le suole si consumassero più velocemente.
Con una veste lunga ed un cappuccio che le copriva i capelli e le nascondeva il volto ed una bisaccia in spalla con il primo paio di scarpe ai piedi, salutò i genitori e partì.
La ragazza si incamminò, uscì dal villaggio, dalla marca e sempre camminando e facendo vari lavori nei villaggi che attraversava per guadagnarsi un po' di vitto e di alloggio si avviò in direzione del capoluogo del primo ducato.
Lì si presentò ai funzionari, che, dopo aver apprezzato la sua bellezza, consultarono i loro regolamenti, controllarono i 5 paia di scarpe, le raccomandarono di tenere con sé i resti di ogni paio di cui avesse consumato le suole e poi le diedero una mappa con il tracciato del suo viaggio fino alla capitale del regno.
La ragazza partì e attraversò il ducato, poi una contea e un'altra ancora. Giunse ai piedi del monte Santo sulla cui cime si ergeva un santuario che la ragazza doveva raggiungere. Una lunghissima scalinata si inerpicava a perdita d'occhio sulla ripida montagna. La ragazza era ormai allenata a camminare, ma quella scalinata era veramente ripida e sembrava senza fine. Quando però si accorse che il primo paio di scarpe si era ormai consumato scoprì nuove energie che la fecero giungere in cima quasi senza fatica. Lì ebbe dai sacerdoti la reliquia che nelle carte avute dai funzionari le veniva richiesto di portare nella capitale.
Scesa dal monte camminò ancora per tantissimo tempo fino a giungere sulle sponde di un grande lago. Il secondo paio di scarpe era ormai consumato. Si presentò all'ufficio dei funzionari che le indicarono un'isolotto, Doveva raggiungerlo a nuoto, raccogliere un raro fiore che solo lì fioriva e ritornare a prendere il suo sacco e le sue scarpe prima di proseguire il viaggio. L'acqua era molto fredda e la corrente era forte, ma la ragazza riuscì a portare a termine anche questa prova.
Camminò,camminò e camminò ancora. Il terzo paio di scarpe si consumò e giunse nel capoluogo indicato dalla mappa. Lì i funzionari reali la condussero sul bordo di una palude e le dissero di attraversarla. Dall'altra parte avrebbe trovato degli altri funzionari ad attenderla.
La ragazza non era affatto contenta perché per camminare nella palude dovette togliersi le scarpe, così quel cammino non risultava utile per consumarle. Nella palude incontrò serpenti e sanguisughe, zanzare e pantegane, tratti in cui affondava nel fango fino alle ginocchia e tratti di vegetazione così fitta che dovette farsi largo menando fendenti con le scarpe di ferro.
Dormiva tra i rovi per non essere attaccata dalle fiere notturne e con bastoni appuntiti catturava i pesci che mangiava crudi, perché in quell'ambiente non c'era nessuna possibilità di accendere un fuoco, giacché tutto era intriso d'acqua, Alla fine arrivò al cospetto dei funzionari sull'altro lato dell'immensa palude.
Quelli le consegnarono un pesantissimo zaino e la invitarono a proseguire dopo averle spiegato come ricavare acqua dai cactus. Infatti dopo non molti giorni la steppa si tramutò in un vero e proprio deserto sassoso. Per fortuna non era un deserto caldo, ma attraversarlo con quell'enorme peso sulla schiena e avendo come cibo e come bevanda solo il cuore dei cactus fu un'impresa veramente spossante.
Ma alla fine anche quella prova giunse alla fine. Il lato positivo era che le scarpe si erano consumate più velocemente del solito.
Giunta alla città segnata sulla sua mappa si presentò ai funzionari locali.
Questi la portarono dal duca che l'ospitò nel suo palazzo offrendole sontuosi banchetti e facendola dormire in un letto morbidissimo. Fece bagni profumati e passeggiò in giardini incantevoli. Tutta la servitù del duca la seguiva e non le faceva mancare nulla. Si riposò così per 5 giorni. Poi dovette posare per un dipinto che fu subito inviato alla corte.
Infine fu sottoposta ad un'accurata visita medica e fu invitata a proseguire il viaggio.
Dopo 7 giorni di cammino il 4 paio di scarpe finì di consumarsi rimanendo come i precedenti senza suole. Tutta allegra la ragazza calzò il 5 paio di scarpe e ripartì. La strada era ancora lunga e attraversava 7 contee e 2 ducati prima di giungere nella capitale. Ma dopo 3 giorni di cammino, la sera nel togliersi le scarpe la ragazza si accorse che la suola era già quasi completamente consumata. Come era possibile? La mattina dopo con il favore della luce del sole, era uno splendido giorno di primavera, esaminò con attenzione le suole. Si accorse allora che il metallo aveva uno strano riflesso rossiccio. Guardò ancora e vide dei minuscoli puntini rossi. Dopo un attimo, prese il sacchettino portafortuna e lo aprì. La sabbia rossa era sottilissima e aveva l'identico colore dei granelli nella scarpa. Capì allora che il giovane fabbro aveva escogitato quel trucco per risparmiarle la fatica dell'ultimo tratto di strada. Grata si rimise in cammino. Dopo altri tre giorni le suole erano completamente consumate e la ragazza mise nella saccoccia il resto delle scarpe insieme agli altri 4 paia e si avviò a piedi nudi. Dopo tutto quel camminare nelle scarpe di ferro i suoi piedi erano divenuti più duri del cuoio. Passati altre 3 giorni vide passare sulla strada una strana pattuglia di cavalieri. Dei 4 cavalieri infatti 2 portavano le divise del regno, ma 2 quelle del regno nemico che ben conosceva perché stava oltre il suo villaggio natale. Dopo un po' vide arrivare molti soldati, davanti c'erano alcuni soldati del regno, ma dietro solo soldati nemici. Poi passò una grande e ricchissima carrozza con le insegne del nemico e poi ancora soldati. Poi arrivarono diversi carri. Sul fondo dell'ultimo carro 2 paggi dondolavano le gambe dal bordo. “Vuoi un passaggio?” gridò uno dei 2. In un lampo la ragazza comprese che un simile corteo poteva andare solo alla capitale e questo le avrebbe risparmiato molti giorni di cammino e dato che le scarpe erano già consumate poteva fare almeno una giornata di viaggio comodamente seduta . Così allungò la mano e si fece issare sul carro. Quando la videro da vicino i paggi restarono estasiati per la bellezza del suo volto.
Erano dei servi del re del regno nemico che andava in visita al re del regno.
Strinsero presto amicizia e le fecero indossare dei vesti da paggio, ma le fasciaronola testa perché non si vedesse il volto e dissero che il loro amico si era scottato con l'acqua bollente. Così la ragazza potè continuare tutto il viaggio con la comitiva reale, aveva infatti pensato che una volta nella capitale avrebbe aspettato fingendosi un paggio per tutto il tempo necessario ad arrivare a piedi e sarebbe così comparsa al momento giusto a corte.
Ma i suoi nuovi amici quando conobbero la sua storia la misero in guardia dalla cattiveria dei nobili e dei regnanti e si domandavano sospettosi perché fosse necessaria tutta quella fatica per poter sposare un principe ad una ragazza così bella che anche per l'imperatore dell'universo, se mai fosse esistito, sarebbe stato una gioia averla in sposa.
Così una volta a corte la ragazza si intrufolò di nascosto nella residenza del principe per poterlo vedere. Se l'avessero scoperta avrebbe detto di essersi persa e con un calcio l'avrebbero rispedita tra i paggi del re straniero.
Ma tutto andò bene. Vide il principe e ne restò molto delusa: era piccolo grasso e antipatico. Lo seguì senza farsi notare fino alla stanza del trono dove ascoltò un dialogo tra lui e i suoi genitori, il re e la regina che gli fece passare completamente la voglia di divenire principessa.
I sovrani spiegarono infatti al figlio, riluttante a sposare una popolana, ma soprattutto una donna, che compiendo quell'incredibile viaggio e superando le prove aveva dimostrato di essere molto forte, che non aveva nulla da temere. La ragazza era bellissima, oltre ogni normale speranza, ed era assolutamente fortissima e sana e di questo sangue buono aveva bisogno la loro casata, infiacchita da matrimonio tra nobili per ritemprarsi e generare una progenie in grado di mantenere il potere.
Per questo esisteva la legge delle 5 paia di scarpe di ferro. Ad ogni modo la popolana non sapeva nulla dell'etichetta e della vita di corte e sarebbe stata facile sottometterla educandola alle buone maniere e all'obbedienza al suo sposo. Infine una volta generati i discendenti il suo ruolo si sarebbe esaurito e se al principe fosse piaciuto avrebbe potuto farla recludere in una torre e prendersi come compagne tutte le cortigiane che voleva.
Il principe se ne andò soddisfatto, mentre la ragazza impietrita restò nel suo nascondiglio.
Ebbe così modo di assistere anche all'incontro tra i 2 sovrani. I 2 re erano chiaramente amici e il re nemico raccontò che il suo popolo era sempre più irrequieto e per non dover diminuire le tasse l'unica soluzione era combattere una bella guerra. Il re della ragazza promise di radunare subito il suo esercito e di attaccarlo, avrebbe distrutto un po' di villaggi e poi si sarebbe ritirato come al solito.
La ragazza era furiosa, andò dai suoi amici paggi e si fece dare un'armatura leggera ed un cavallo veloce e insieme ai 2 amici anch'essi armati e a cavallo, precedette l'esercito del re parlando a tutti i capi dei villaggi sulla strada fino alla frontiera.
Così lungo tutta la lunghissima strada da ogni villaggio squadre di uomini e di giovani si univano come volontari all'esercito. I generali erano perplessi, ma se i villici volevano morire al posto dei loro soldati andava benissimo. Quando arrivarono nel territorio nemico l'esercito era immenso. La ragazza e i suoi amici parlarono ancora ai capi dei villaggi e il popolo si sollevò a appoggiò l'esercito nemico. I generali confusi dagli eventi cedettero alle insistenze delle truppe e marcarono fino alla capitale ribaltando il regno. Poi tornarono in patria e con un esercito composto da molti cittadini dei 2 regni deposero anche i propri regnanti.
La ragazza tornò al suo villaggio sposò il giovane fabbro e insieme andarono nella capitale dove lei fu eletta presidente della nuova repubblica unita mentre il marito e i 2 amici ex paggi divennero ministri del governo. E vissero felici e contenti insieme a tutto il popolo.

domenica 9 dicembre 2012

OMBRAVELOCE


Melcheb il terremoto. Melcheb il ciclone. Melcheb l’inesauribile. Così fin da piccolo avevano chiamato Melcheb, un bimbo dalla rara vivacià ed energia.
Poi un giorno, il nonno, vedendolo giocare a rincorrere la sua ombra aveva esclamato: “Persino la sua ombra fatica a stargli dietro”. E da lì era nato il soprannome che aveva rapidamente sbaragliato tutti gli altri: Ombraveloce.
In realtà l’ombra di Melcheb, come tutte le ombre era molto solidale con il suo padrone e non se ne separava mai. Per quanto Obraveloce tenesse fede al nome, la sua ombra era sempre lì pronta a saltare, tuffarsi, correre e ruzzolare dietro o davanti o magari in fianco a lui.
Melcheb Ombraveloce, sempre con l’argento vivo addosso, crebbe e divenne un ragazzetto forte e sano e pieno di idee.
Allegro, vivace e sempre impegnato in mille attività, Ombraveloce divenne presto molto popolare e di fatto era il capo di tutta la folta schiera di ragazzetti del quartiere. Combinavano certo qualche marachella, ma erano ben voluti da tutti.
Un giorno però Ombraveloce conobbe dei ragazzi più grandi che lo convinsero a provare certe pillole colorate. Mangiata la pillola Melcheb si sentì privo di forze, ma immagine strane e buffissime, musiche incredibili, colori iridescenti, sensazioni bizzarre e fantastiche, mai provate prima, si affollarono nella sua mente.
Melcheb Ombraveloce, provata la droga, ne divenne presto avido. Dopo la prima però, nessuno era più disposto a regalargli altre pillole, ma esigeva soldi, soldi, tanti soldi.
Così Melcheb, abbandonò i vecchi amici e con il favore delle tenebre cominciò a rubare nei magazzini per racimolare i soldi per la droga.
Una notte la sua ombra proiettata da un lampione fu vista da un vigilantes ed Ombraveloce dovette ricorrere a tutta la sua velocità e agilità per eclissarsi nei vicoli, sfuggendo alla cattura.
Maledisse allora la sua ombra, per il rischio che gli aveva fatto correre. E questa senza pensarci su due volte prese e se ne andò. Melcheb rimase di sasso, ma non pensò a rincorrerla, come faceva da bambino: “Meglio così – pensò – senza ombra correrò meno rischi”.
Ma quando il giorno dopo passeggiando per la strada la gente si accorse che il suo corpo non proiettava nessuna ombra, fu scambiato per un fantasma. E tutti fuggirono atterriti.
Così Melcheb si ridusse a vivere da solo, muovendosi solo la notte, dove le tenebre erano più fitte.
Dopo un po’ però si sentì triste, incominciò a stufarsi delle visioni della droga e a rimpiangere le mille attività e i giochi che era solito fare di giorno con i suoi vecchi compagni.
Melcheb tornò allora dove l’ombra l’aveva abbandonato e piangendo la supplicò di tornare. E così fu.
Melcheb ritornò ad essere di nuovo l’Ombraveloce che tutti conoscevano e anzi divenne un paladino dei deboli sempre pronto ad aiutare, a fare del bene e a mettere in guardia i ragazzi dal pericolo della droga.

domenica 2 dicembre 2012

IL FORMICAIO

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C’era una volta un brav’uomo che aveva una casetta, una stalla, dei campi e molti amici.
Una sera uno di questi volle fargli uno scherzo e, indossata una maschera, girò quatto quatto dietro la stalla.
L’uomo però lo sentì e gridò: “Chi è là?” L’amico non rispose. Allora l'uomo si acquattò dietro la porta con un bastone in mano e aspettò.
D’improvviso l’amico mascherato entrò urlando nella stalla. L’uomo spaventatissimo sferrò una bastonata e lo colpì in piena testa. L’amico stramazzò a terra. L’uomo lo guardò e vide che l’orribile volto era soltanto una maschera. Tutto preoccupato tolse la maschera e scoprì il suo amico con la testa rotta.
Disperato l’uomo, chiamò aiuto. Purtroppo però l’amico era già morto. Tutti dissero che l’uomo non aveva nessuna colpa per quell’incidente e cercavano di consolarlo. Ma l’uomo non sapeva rassegnarsi.
Abbandonò tutto e fuggì sul monte. Trovò una grotta in cui rifugiarsi e decise di mangiare solo frutta, bacche, erbe e funghi. Giurò a sé stesso che mai più avrebbe ucciso neppure un animale.
Così cominciò a condurre una dura vita da eremita, senza più uccidere né un’animale né una pianta, perché anche di quelle raccoglieva solo alcune parti, soprattutto i frutti, badando bene di non danneggiare né la pianta né i semi.
Un giorno mentre dormiva delle formiche fecero il nido nel suo cappello. L’uomo per non rovinare il formicaio decise di non togliersi più il cappello. E così fece.
L’uomo conduceva la sua misera vita e intanto il formicaio cresceva sulla sua testa. Le formiche andavano e venivano sul suo corpo in lunghe file. L’uomo poi stava ben attento quando camminava di non schiacciare i piccoli insetti che si muovevano tutt’intorno a lui.
Ad un certo punto il formicaio divenne così grosso e pesante che l’uomo cominciò a far fatica a muoversi. Il suo collo e la sua schiena erano piegate dal peso del formicaio, ma l’uomo per tener fede al suo giuramento, non toccò il formicaio.
Infine l’uomo, visto il peso che aveva sulla testa, rinunciò del tutto a muoversi e resto fermò nella sua grotta schiacciato dal formicaio.
Già malnutrito che era in breve tempo cominciò a indebolirsi e stava per morire. Allora le formiche abbandonarono il nido, lo smantellarono e lo ricostruirono per terra nella grotta, poi andarono a raccogliere dei frutti e imboccarono l’uomo finché si riprese.
L’uomo visto ciò che le formiche avevano fatto per lui si sentì amato e perdonato anche per il suo involontario crimine di molti anni prima.
Ringraziò le formiche e ridiscese al paese. Lì fu accolto come un vecchio amico e presto per la sua saggezza e bontà divenne un punto di riferimento per tutti.

domenica 7 ottobre 2012

LA SOLITA STORIA

“Ecco, anche oggi la solita storia” pensò Ginko mentre la pendola del soggiorno batteva il terzo quarto delle sette e, come di consueto, sua sorella Rosa si attardava in bagno.
I genitori di Ginko e Rosa infatti partivano molto presto per andare al lavoro e così era Rosa ad accompagnare con il suo motorino Ginko a scuola. Le lezioni alla scuola di Rosa però iniziavano mezz’ora dopo rispetto a quelle della scuola di Ginko, così Rosa se la prendeva comoda e finiva per far arrivare Ginko tardi a lezione.
“La solita storia, arriverò in ritardo e le mie maestre, rimprovereranno me, mica Rosa”. Ma in realtà era ormai rassegnato e non sprecò nemmeno il fiato ad implorare sua sorella di sbrigarsi. Finalmente, dopo cinque minuti buoni, Rosa uscì dal bagno e furono pronti a partire. “La solita storia” ripeteva ancora tra sé e sé Ginko sconsolato.
Quando arrivò a scuola si accorse però subito che qualcosa non era proprio come al solito. Per prima cosa, al posto del vecchio olmo c’era un albero più piccolo e molto molto strano, si sarebbe detto “grassottello”: mai visto un albero così! Poi una grossa voliera stava di fianco al portone piena di tantissimi uccelli, per lo più piccoli, ma alcuni anche grossi e tutti diversi tra loro. Gli uccelli sembravano molto agitati e quando Ginko si avvicinò si ammassarono verso di lui schiamazzando. Ginko però andava di corsa e si ripromise di ritornare durante l’intervallo a dare un’occhiata.
Entrò rapidissimo nell’edificio ed ecco un’altra cosa strana: non c’era Pino, il bidello con il suo solito: “Corri, corri Ginko che la campanella è già suonata da due minuti” oppure da tre o quattro o cinque, secondo i comodi di Rosa.
Ginko comunque corse alla porta della sua classe, trasse un profondo respiro, bussò ed entrò. E questa fu la sorpresa più grande. Tre strani bambini lo guardavano imbambolati e due altrettanto strane maestre stavano ferme dietro la cattedra. “Dove sono tutti i miei compagni e le mie maestre, e voi chi siete?” chiese Ginko sbigottito. “Non ci sono più” rispose con voce metallica una delle maestre, ora ci siamo noi, coraggio, siediti al tuo posto”. Ma guarda caso uno di quei tre bambini inebetiti sedeva proprio al suo posto. “Perché non ci sono i miei compagni” insisteva Ginko, ma intanto si avvicinò al suo banco e fece per prendere il bambino che lo occupava per la manica. Nel momento in cui lo toccò però il bambino si sbriciolò. Gli altri bambini e una maestra continuavano a fissarlo con il loro sorriso stupido, mentre la maestra che aveva già parlato ripeteva: “Su coraggio siediti”.
Ginko aprì la cartella e cominciò a lanciare libri e quaderni contro i bambini e le maestre. Tutti si sbriciolarono lasciando per terra solo un po’ di segatura. Ginko corse fuori e provò a entrare nelle altre classi: tutte vuote.
Stava per uscire, quando una brutta caricatura del direttore, più grossa e deforme gli si parò dinanzi. Ginko gli sferrò un calcio, pensando si sbriciolasse invece, l’omone lo afferrò e cominciò a trascinarlo verso la direzione. Ginko allora gli sputò negli occhi e approfittando dell’allentamento della presa, perché con una mano il finto direttore si stava ripulendo gli occhi, sgusciò via e corse fuori, inseguito goffamente dal mostro.
Appena fuori, tutti gli uccelli cominciarono a gridare e Ginko, si fermò, si girò e aprì la gabbia per liberarli: appena fuori gli uccelli si trasformarono, nei suoi compagni, nelle maestre e nei bidelli della scuola.
L’omone, che era ormai sopraggiunto, lanciò un urlo. Ginko scagliò la gabbia a terra rompendola e il mostro incominciò a irrigidirsi, mentre lo strano nuovo albero lentamente riprendeva le sembianze del direttore.
L’olmo ritornò al suo posto e al suo aspetto. Inutile dire che quel giorno Ginko fu festeggiato con grandi onori da tutti e non fu sgridato per il ritardo ma ottenne anzi un permesso permanente di arrivare in ritardo.

venerdì 28 settembre 2012

LE NOCI MAGICHE

Un giovane ebbe in eredità dal padre il mestiere di seggiolaio, una piccola casa, con un piccolo prato e un grande noce, che faceva ogni anno moltissime noci.
Il giovane girava per i paesi e le città vicine e siccome era molto bravo, sia a riparare gambe e schienali sia ad impagliare, gli affari gli andavano a gonfie vele. Tanto che riuscì a comprarsi un asino per aiutarlo a trasportare gli attrezzi e il materiale da lavoro.
Un giorno conobbe una fanciulla, che era sola al mondo, essendo cresciuta in un orfanotrofio. I due si innamorarono e si sposarono. Ebbero presto una bimba e dopo poco anche un bimbo.
Un giorno il giovane fu aggredito dai briganti che per rubargli l’asino e il ricavo della giornata lo colpirono sulla testa con un bastone uccidendolo.
Per la giovane moglie nel frattempo era quasi giunto il momento del terzo parto. Dopo pochi mesi infatti nacquero due gemelli.
La povera donna, non poteva certo lavorare, con due bambini ancora piccoli e due neonati da accudire, né voleva separarsene avendo provato di persona la tristezza di dover crescere senza avere una famiglia.
Decise quindi di vivere dei beni lasciategli dal marito per un po’ di tempo per potersi dedicare interamente ai propri bambini, prima di incominciare a lavorare per mantenerli.
Ma dopo poco neanche un anno dalla morte del marito i soldi erano già finiti e i bambini erano ancora piccoli e impegnavo la madre dalla mattina alla sera.
Per fortuna era la stagione delle noci e la donna con i bimbi più grandi le raccolse, le essiccò e mentre i gemellini ancora allattavano lei e i figli più grandicelli incominciarono a nutrirsi di noci.
Dopo qualche giorno passò un viandante, che chiese di poter mangiare qualcosa. La donna spiegò la loro triste situazione e si scusò con il viandante di potergli offrire solo noci.
Il viandante sorrise e con il suo bastone percosse il tronco dell’albero. Caddero alcune noci. “Provate ad aprirle” disse il viandante. Così fecero e dentro trovarono al posto delle noci dei pezzetti di carne arrostita.
Il viandante era infatti uno stregone che fu festeggiatissimo dalla famigliola e quindi proseguì il suo viaggio.
Da quel giorno in tutte le noci cominciarono a trovare carne, pesce, pasta, verdure, frutta e ogni sorta di cibo.
Ma un giorno giunsero gli esattori del re per raccogliere le tasse e trovando solo una ricca provvista di ne vollero assaggiare. Quando si accorsero che le noci erano magiche riempirono un grosso sacco di noce per portarle al re.
Quando però furono al castello tutte le noci erano piene di muffa. Il re derise il capo degli esattori, che fu molto contrariato della cosa. Tornò dalla povera famigliola e controllò le noci: erano tutte sanissime e piene di cibi prelibati. Provò ad allontanarsi dalla casa, ma appena usciva dall'ombra del noce vide che i cibi si tramutavano in muffa.
Tutto contento della scoperta riuscì a convincere il re ad andare di persona sul posto. L’albero magico piacque molto al re che lo volle per sé e gettando un sacchetto di monete d’oro alla famiglia ne prese possesso e tornò al castello.
Il capo degli esattori, però disse:
Questo sacchetto d’oro serve a pagare le tasse” e cacciò la famiglia senza darle nulla.
La famigliola si allontanò disperata. La bimba però aveva tenuto in tasca alcune noci, che anche quando furono molto lontani dal vecchio noce restarono buone.
Trovarono una capanna abbandonata sul margine del bosco per passarvi la notte e i bimbi nascosero l’ultima noce seppellendola per terra fuori dalla capanna.
Il mattino dopo il re tornò al grande noce e lo trovò rinsecchito e si arrabbiò molto con il suo capo esattore.
Invece la famigliola uscendo dalla capanna vide che nella notte era cresciuto, dalla noce seppellita, un intero albero di noce, da cui già cadevano delle bellissime noci magiche.

domenica 23 settembre 2012

LA VALLE DELL'INVIDIA

Nelle terre al di là del mare, dopo un’ampia pianura e dolci catene di colline sorge una valle amena. Molto tempo fa gli abitanti della valle vivevano serenamente finché un giorno un demone vecchio e stanco che passava di lì non decise di stabilirsi nella valle a godersi la pensione.
Il demone aveva trascorso la vita tormentando gli uomini con mille calamità, così lui stesso aveva sempre vissuto in zone disastrate. Pensò perciò di meritarsi finalmente una casa più comoda.
Cominciò a rendere la valle più confortevole, facendo franare gli speroni di roccia che toglievano il sole d’inverno e facendo crescere alti alberi per ombreggiare d’estate, regolando i corsi dei ruscelli e livellando le strade. Bloccava i venti troppo impetuosi e le nubi temporalesche. Di giorno splendeva sempre il sole, ma spesso la notte pioveva, abbeverando piante e animali.
Sotto le cure del demone, la valle era diventata un paradiso. Il demone però non si accontentava di un bel clima, voleva anche un passatempo.
Così aprì ben bene i suoi pori e lasciò sprizzare fuori tutta la sua invidia per gli uomini, che avevano sempre dimostrato così grande forza e pazienza nel sopportare i suoi malefici.
Gli abitanti della valle furono subito pieni di invidia. Incominciarono a invidiare le valli del nord perché avevano più freddo e più neve d’inverno, quelle dell’est perché avevano più pioggia in autunno, quelle dell’ovest perché avevano più vento in primavera e quelle del sud perché avevano più caldo d’estate. Invidiavano gli abitanti della pianura perché non avevano strade in salita e quelli delle montagne perché avevano delle strade in discesa, gli abitanti della costa perché avevano il mare e quelli del deserto perché non avevano umidità.
Tra di loro poi si invidiavano ogni cosa: campi, case, attrezzi, animali, parenti. L’invidia impregnava tutta la loro vita, le amicizie morivano, le famiglie si sgretolavano, ciascuno si isolava e incattivito, passava il tempo a guardare tutto il bene degli altri augurandosi che venisse meno.
Così la vita nella valle seppure facile perché i campi erano fertili e gli animali pingui e fecondi divenne tristissima.
Finché i lamenti dei viaggiatori che passavano per la valle e venivano maltrattati dagli invidiosi abitanti giunsero in cielo e un angelo scese a controllare la situazione.
Visto come stavano le cose, l’angelo prese le nubi dall’oceano e dalle montagne, dalle colline e dalle pianure e le convogliò sopra la valle.
Inutilmente il demone cercava di scacciarle: si accumulavano sempre più nere e più spesse. Infine si scatenò una tempesta che durò sette giorni e sette notti.
Fiumi d’acqua scesero dal cielo trascinando fango e alberi dalle montagne, distruggendo campi e boschi, disperdendo le mandrie e le greggi e travolgendo le case dei paesi di fondovalle. Gli scampati al disastro fuggirono nei paesi più in alto, anch’essi duramente provati, e là furono ospitati.
La valle era sconvolta la ricchezza perduta, ma gli abitanti si ritrovarono e unirono le loro forze per rimediare ai disastri. I più fortunati, che avevano perso meno, compatirono e aiutarono i più sfortunati che da parte loro riconobbero la fortuna dei primi come un beneficio per loro stessi, grazie all’aiuto che ne ricevettero.
Il demone vedendo che gli uomini avevano riacquistato la loro serenità si rimangiò tutta l’invidia e fuggì via e la valle tornò ad essere una valle normale, imperfetta, ma serena.

sabato 15 settembre 2012

SOPRADIGA E SOTTODIGA

Nel paese di Mittemor c’erano due villaggi vicini, uno tra le colline e uno appena sotto. Tutti e due stavano sulla sponda del fiume Porpor, ma tra i due villaggi vi era una diga.
Il villaggio di Sopradiga era abitato da allevatori che usavano l’acqua del lago artificiale formato dalla diga come riserva d’acqua per il bestiame. Il villaggio di Sottodiga invece era abitato da agricoltore che utilizzavano l’acqua del fiume per irrigare i campi.
La diga stava esattamente a metà strada tra i due villaggi e ne segnava il confine. Spesso tra i due villaggi durante la stagione secca vi erano grosse discussioni per regolare il livello del lago e del fiume, poiché la stessa acqua serviva sia sopra sia sotto la diga.
Un giorno però mentre il lago era già al livello più alto, vennero del tutto fuori stagioni delle pioggie forti e insistenti.
Gli abitanti di Sottodiga corsero alla diga per rinforzarla, mentre gli abitanti di Sopradiga costruivano degli argini perché il lago crescendo non sommergesse il loro villaggio.
Le piogge continuavano senza sosta e gli abitanti dei due villaggi, non sapevano più cosa fare. Gli abitanti di Sottodiga si rifugiarono a Sopradiga, per paura di essere travolti dall’acqua del lago se la diga avesse ceduto e aiutarono a rinforzare gli argini.
Il vecchio della montagna che abitava alle sorgenti del fiume, compiaciuto per l’aiuto che i due villaggi si stavano reciprocamente dando e sapendo che la diga non avrebbe retto andò a svegliare il vecchio drago Molech e lo condusse come un cagnolino fino al lago. Qui usando il drago come un lancia fiamme costruì un canale che prendendo le acque dal lago le riportava nel fiume a valle di Sottodiga. Così i due villaggi furono salvi.
Quando la burrasca cessò, gli abitanti dei due villaggi salirono sulla montagna per ringraziare il vecchio e il drago, ma il vecchio disse loro che il miglior ringraziamento era quello di lasciar dormire in pace lui e il drago. Fu così che gli abitanti dei due villaggi costruirono una casa vicino alla diga per poter discutere sulla regolazione delle acque senza più disturbare con le loro grida il vecchio e il drago.

domenica 9 settembre 2012

JENNY E PENNY


Un uomo di nome Shon, percorrendo la via che va da Sud a Nord e vedendo quanto essa fosse lunga e faticosa decise di costruire una locanda a metà della strada, ai piedi delle montagne.
Così fece e lì si stabilì con la moglie Tara. Un bel giorno la coppia ebbe due bambine, due gemelle davvero identiche. Gli stessi capelli rossi, gli stessi occhi azzurri, le stesse labbra sottile, lo stesso naso all’insù. Le due gemelline però tanto erano uguali nell’aspetto, tanto erano differenti nel carattere. Una era infatti estremamente vivace, l’altra invece molto tranquilla.
Crescendo le due gemelle cominciarono entrambe ad aiutare i genitori alla locanda, ma mentre Jenny non si stancava mai di muoversi avanti e indietro lavorando o chiacchierando con i clienti, la gemella Penny appena poteva si sedeva in riva al fiume a guardare il cielo.
Penny amava soprattutto guardare il volo degli uccelli. Anche Jenny amava vedere volare gli uccelli, ma preferiva correre dietro alle loro ombre sui prati. Questa passione per il volo accomunava le due gemelle, che spesso ne parlavano tra loro.
Un giorno un elfo dei boschi, che ascoltava la loro conversazione, si fece avanti e rivelò loro che in mezzo alle montagne vi era un lago. La fata del lago, per un antico giuramento, realizzava i desideri di chi si fosse bagnato nel lago la sera del giorno del solstizio d’estate a patto che il comportamento di quella persona fosse stato irreprensibile nel corso dell’ultimo anno.
La fata sapeva leggere la vita delle persone dai loro occhi ed era davvero esigente e per questo dopo molte delusioni gli uomini si erano stufati di andare da lei e si erano dimenticati di lei e del lago. Solo gli elfi, che essendo immortali ricordano cose antichissime conservavano ancora questo segreto.
Le due ragazze erano così eccitate alla notizia che il loro desiderio di volare poteva essere esaudito, che non prestarono molto peso alle spiegazioni dell’elfo. Poiché però erano delle buone e brave ragazze continuarono a comportarsi bene secondo la loro natura.
Il giorno del solstizio, con il cuore in gola salirono al lago e al tramonto scesero nelle sue acque. Subito apparve la fata del lago. “Bene, bene” disse “C’è dunque ancora qualcuno che si ricorda di me. Dunque voi vorreste volare?” “Sì, sì” urlarono le ragazze. “In effetti non vi siete comportate male” disse la fata “Però tu Jenny pur avendo fatte tante cose buone, lo hai fatto per te stessa, per la tua smania di attività, più che per gli altri e perciò sei rimasta distante dal cuore delle persone che hai incontrato e tu Penny pur avendo fatte tante cose buone ne hai tralasciate molte altre per la tua indolenza. Perciò, anche se effettivamente io posso darvi il dono del volo non lo farò, ma farò invece volare questi due rospi.” Detto ciò due grossi rospi che stavano in riva al lago si trasformarono in due splendidi cigni e volarono via.
Le ragazze piansero dalla delusione, ma la fata le consolò “L’anno prossimo io sarò ancora qui e se voi tornerete, forse le cose andranno diversamente, comportatevi bene!”
Le ragazze tornarono a casa meditando le parole della fata.
Fu così che Jenny smise di correre sempre indaffarata e cominciò invece a passare molto tempo a pettinarsi e a curarsi le unghie per essere più carina con i viaggiatori di passaggio alla locanda. Penny invece si diede un gran da fare e pensò solo a lavorare.
Così passò un anno e le due ragazze tornarono al lago. La fata quando le vide scosse la testa e due coniglietti si trasformarono in due meravigliose aquile e volarono via. Le due ragazze capirono subito di aver fallito ancora e cominciarono a riflettere sul racconto dell’elfo, forse davvero non era possibile accontentare la fata. “Non scoraggiatevi ancora” disse però la fata “avete toccato i due estremi adesso potete trovare l’equilibrio”.
Le due ragazze sconsolate tornarono a casa e decisero di controllarsi e limitarsi a vicenda. Così lavorando e riposando insieme e occupandosi dei viaggiatori senza foga, ma con compartecipazione acquisirono grande fama presso tutti i viandanti del paese.
Al solstizio successivo la fata le accolse sorridendo “Questa volta sì, avete meritato il premio!” Felicissime le gemelle aspettavano di essere trasformate in qualche uccello, ma dopo un po’ vedendosi sempre uguali, un po’ dubbiose guardarono la fata. Questa rise e le prese per mano e volò con loro: “A voi ho dato il potere delle fate, perciò potrete volare con il vostro corpo e fare molte altre cose”.
Le due gemelle felicissime divennero così due fate, impararono molte magie dalla fata del lago e volarono per tutta la terra per aiutare la gente meritevole che ne aveva bisogno.

domenica 2 settembre 2012

LE BALESTRE MAGICHE


Un pastore di nome Silo pascolava le sue pecore vicino alla Grande Foresta dove nessun altro osava portarle, perché i lupi uscivano talvolta dal bosco mangiandosi pecore e pastori. Ma Silo aveva una balestra che non sbagliava mai un colpo, tanto che tutti la consideravano magica e con questa riusciva a difendersi dalle incursioni dei lupi.
Venne però un inverno molto freddo e i lupi si fecero più numerosi e aggressivi e Silo era in difficoltà. Chiese agli altri pastori di aiutarlo, ma nessuno ne volle sapere niente. Le loro pecore erano al sicuro e non volevano certo rischiare la vita per le pecore di Silo. Allora Silo costruì una seconda balestra identica alla prima e andò al villaggio.
Dopo un po’ trovò un giovane di nome Roan che accettò dietro compenso di andare con la balestra a cacciare i lupi. E così fece, e grazie alle balestre di Silo ben presto i lupi furono tenuti a bada e a primavera tornarono nella foresta, lasciando in pace le pecore di Silo.
Roan il cacciatore però vedendo sfumare il suo guadagno prese a cacciare le pecore di Silo. Questi se ne accorse e lo pregò di smetterla. Ma Roan fece finta di niente. Così Silo decise di affrontarlo. Prese la balestra e andò da lui. Questi si nascose dietro al fratellino e scagliò un dardo contro Silo. Silo fu ferito ma riuscì a lanciare la sua freccia che trapassò i due giovani uccidendoli entrambi.
I genitori di Roan corsero urlando contro Silo per ucciderlo e Silo non volendo fare altre vittime fuggì. Tutto il villaggio ed i pastori si riunirono e sentenziarono la colpa di Silo e lo condannarono all’esilio, pena per la verità leggera per un omicidio, ma nessuno aveva il coraggio di affrontarlo.
Silo amareggiato per la condanna ricevuta prese le sue pecore e si inoltrò nella foresta.
Venne di nuovo l’inverno e fu peggiore del precedente e di nuovo i lupi giunsero in massa. I pastori mandarono i genitori di Roan a fronteggiarli, ma essi furono uccisi.
Tutti si chiusero nelle case e i lupi fecero strage delle pecore e infine irruppero nel villaggio e entrarono nelle case e mangiarono tutti i suoi abitanti diventando i padroni del villaggio.
Silo intanto che vagava tra le radure della foresta, conobbe una tribù di cacciatori che lo aiutò a salvare le sue pecore. Con i cacciatori della foresta tornò al villaggio e lo liberò dai lupi e tornò a vivere tranquillo insieme al nuovo popolo che lo aveva accolto nella foresta e che ora si era stabilito nel villaggio e nessun lupo osò mai più entrarvi.

domenica 26 agosto 2012

LA PRINCIPESSA PALLIDA


Il re del Paese dei Salici aveva una figlia di nome Giada. Tutti i dignitari del regno e tutti i sudditi, consideravano Giada non solo la più bella ragazza del regno, ma di tutta la Terra, non potendo immaginare una bellezza più grande.
Giada aveva un carattere dolce e socievole, tanto che, appena riusciva ad eludere la sorveglianza della guardia reale, usciva dal castello per andare a passeggiare tra la gente e spesso si fermava a giocare con i bambini o a chiacchierare con giovani, adulti e anziani.
Tutti le volevano molto bene e per questo il re, anche se sgridava bonariamente la figlia per le sue frequenti uscite solitarie, non ordinava mai alle sue guardie di sorvegliarla più strettamente per impedirgli davvero di lasciare il castello.
Un giorno però, mentre sostava presso una fontana per rinfrescarsi, la principessa incontrò una donna vestita di nero, che mai prima di allora aveva visto. Era la strega Barbogia, cattiva e invidiosa. Infatti appena vide la bellissima fanciulla fu rosa dalla gelosia e congegnò uno dei suoi perfidi malefici.
Si avvicinò alla principessa e appoggiandole una mano sulla schiena le disse: “O povera fanciulla, stai molto male? Coraggio, coraggio, sono qui per aiutarti!”. Giada rise stupita: “Ma no, vi sbagliate, non sto affatto male”. “Davvero” rispose la strega, fingendosi stupita “eppure sei così pallida, che sembra tu stia per morire”.
La pelle della principessa era in verità molto chiara, ma quel candore si abbinava perfettamente ai suoi capelli, ai suoi occhi e ai suoi lineamenti, conferendole maggiore bellezza. Giada guardò la propria immagine riflessa nella fontana e non vide un colore anormale, ma per la prima volta in vita sua si accorse del candore della propria pelle.
La strega non perse tempo e prima di dare tempo alla fanciulla di riflettere aggiunse: “Devi stare più tempo all’aria aperta, prendere un po’ di sole”. Giada rispose sempre più incerta: “Ma io sto quasi sempre all’aperto”. “Oh ma davvero” disse Barbogia fingendosi affranta “allora è proprio la tua pelle ad essere così, che peccato però, saresti una così bella ragazza, se non fosse per questo pallore spettrale”.
Giada, che era da sempre abituata a ricevere solo complimenti, si turbò moltissimo sentendo le parole della donna e si guardava sconsolata la pelle. Allora la strega mise a frutto il suo astuto piano: “Non essere triste, ho io la soluzione al tua problema” e svelta, svelta estrasse dalla borsa una boccetta: “In questa fiala c’è un unguento che ha il potere di abbronzare anche la pelle più pallida, persino la neve diviene del colore del mogano se bagnata da questo olio, spalmati per bene con quest’olio, subito questa sera e già domani avrai una splendida abbronzatura”.
Giada ringraziò la donna, tornò al castello e la sera si unse con il magico unguento. La mattina dopo appena sveglia corse allo specchio ed effettivamente si vide perfettamente abbronzata.
Tutta contenta andò dalla sua damigella pensando di farsi rimirare, ma essa sembrò non badare al colore della sua pelle, ma tappandosi il naso le disse “Misericordia principessa, che orribile odore”. “Che puzza disgustosa” dissero le guardie, “Che olezzo ributtante” disse la cameriera, “Che tanfo ripugnante” disse la governante, “Che fetore vomitevole” disse il giullare, “Che lezzo raccapricciante” disse il ciambellano. E così via.
Ogni persona che incontrava si turava il naso e si allontanava da lei inorridito e in preda ai conati. In breve Giada capì che la pozione aveva reso la sua pelle non solo scura, ma anche orribilmente puzzolente.
Il tanfo che emanava dalla sua pelle era davvero terribile e solo la povera Giada non l’avvertiva. Provò a lavarsi, a profumarsi a purificarsi con saune, bagni turchi, incensi e fumi aromatici, diete vegetali, ma non c’era niente da fare, il fetore ripugnante non diminuiva per nulla.
La vita della principessa fu sconvolta: così ributtante era il suo odore che nessuna persona o animale riusciva ad avvicinarla e persino le piante deperivano alla puzza che emanava la sua vicinanza.
Giada fu costretta a ritirarsi tutta sola in una torre del castello e a passeggiare in un angolo del giardino reale che ben presto divenne spoglio come un deserto. Guardava da lontano le piante, gli animali e le persone e piangeva.
Finché un giorno, dalle lontane terre del Nord giunse un cavaliere di splendido e nobile aspetto, forte e triste. Era il principe Modrum che cercava moglie, non avendo trovato né nel suo paese né in quelli vicini una donna di cui riuscisse ad innamorarsi, ed era pronto a ricompensare il padre della sposa con cento carri pieni di gemme preziose.
Proprio mentre il principe arrivava nel paese, i salici cominciarono a fiorire e la lanugine copriva come neve il paese. Il principe, che non conosceva i salici restò meravigliato, ma cominciò anche a starnutire e a tossire, gli occhi gli lacrimavano, la testa gli girava e si sentiva le febbre alta. Era allergico al polline dei salici!
Decise perciò in cuor suo di attraversare più velocemente possibile quel paese e continuare più oltre la sua ricerca.
Quando però il re seppe dell’arrivo del principe nel Paese dei Salici e della sua ricerca, ordinò che il cavaliere del Nord fosse portato subito alla sua presenza. Le guardie del re lo raggiunsero e gli ordinarono di presentarsi al re del paese.
Il principe, che rispettava le leggi, seppur di malavoglia seguì le guardie e si presentò al castello. Starnutendo e soffiandosi il naso, il cavaliere chiese al re di lasciarlo proseguire velocemente, perché il polline dei salici lo tormentava. Ma il re gli disse: “Prima di proseguire vorrei presentarti mia figlia”.
Dopo aver dato ordini severi a tutti i cortigiani e aver costretto anche la figlia a promettere il silenzio, introdusse il principe nella stanza di Giada.
Modrum fu subito colpito dalla principessa e a causa del fortissimo raffreddore non né sentì la puzza. Giada, fu contenta di poter parlare finalmente con qualcuno, che non scappasse via dopo pochi secondi in preda ai conati di vomito.
A sera i due giovani stavano ancora chiacchierando, ma già si erano innamorati. Modrum propose subito a Giada di sposarlo e Giada, lo mise in guardia, dicendogli, che non poteva rompere il giuramento del silenzio, ma una stregoneria era su di lei e lui non avrebbe dovuto sposarla, anche se lei stessa ne sarebbe stata molto felice.
Modrum restò perplesso, ma scrollò le spalle, troppo innamorato per vedere problemi anche in quella pur strana situazione e andò dal re a chiedere la mano della principessa.
Il re acconsentì, ma pose la condizione che le nozze dovevano svolgersi il giorno seguente al castello. Modrum acconsentì e la mattina seguente, alla presenza di pochi testimoni, con il naso turato dalla cera e i visi coperti dai veli sposò la principessa.
Poiché grande era la gioia per avere trovato la sposa che sempre aveva sognato si meravigliò solo un poco dello strano abbigliamento dei presenti alle nozze: “Questa è l’usanza del nostro paese” gli spiegò astutamente il re.
La mattina seguente si mise in viaggio per tornare nel regno di suo padre, con la sua bellisima sposa. Quando però uscirono dal Paese dei Salici, e la lanugine sparì anche il raffreddore allergico cessò e Modrum incomincio e sentire come tutti la puzza della pelle di Giada.
La poverina, che aveva pensato che almeno Modrum non avrebbe mai sentito il suo odore, piangeva disperata e propose a Modrum di abbandonarla nel deserto, dove desiderava morire. Modrum però, che ormai amava Giada, si riempì il naso di fango e portò Giada al suo paese.
Il padre di Modrum si indignò per il raggiro che il re del Paese dei Salici aveva ordito ai danni di suo figlio, ma per non contrariarlo accettò Giada e le diede la torre più alta del castello per rifugiarsi lontana dalle narici delle gente.
Tutti i medici, i guaritori e i maghi del paese furono convocati, ma nessuna soluzione fu trovata. Finché una ragazza di nome Sheena, che passava tutto il suo tempo libero a prendere il sole, convinse Giada ad andare con lei sul ghiacciaio che scendeva al mare in cima al grande fiordo in cui sorgeva la capitale del regno del Nord.
Qui fece sdraiare Giada su una coperta in una giornata di sole. Il riflesso dei ghiacci e il sole di montagna, presto scottarono la pelle della principessa, che si seccò e cadde. Sotto riapparve la vecchia pelle candida e profumata.
Il principe allora prese Giada, Sheena, cento carri di gemme preziose e mille guerrieri e tornò nel Paese dei Salici. Il padre di Giada fu contentissimo di riabbracciare la figlia liberata dal sortilegio e lodò le lealtà del principe, che nonostante il raggiro gli consegnava le gemme pattuite.
Così i guerrieri del Nord non dovettero sguainare le spade perché il re accettasse il pegno impostogli da Modrum per farsi perdonare e donò a Sheena un lungo tratto di spiaggia, dove la ragazza fondò una bellissima stazione balneare che divenne famosa per i suoi bagni di sole.
Modrum e Giada tornarono nel paese del Nord dove divennero gli amatissimi regnanti e vissero felici e contenti per lunghissimi anni ed ebbero molti figli e figlie belli, buoni, forti e profumati come i loro genitori.