domenica 22 luglio 2012

LA MACCHINA DELLA NEVE


Tra i monti Legnosi nella valle di Golasecca vi è un grande ghiacciaio e sotto il ghiacciaio vi è un piccolo paese che si chiama Nevogeno.
Un tempo il paese si chiamava Sfighello e non vi era nessun ghiacciaio.
Golasecca è una valle molto alta, ma, come dice anche il suo nome, è una valle dove piove e nevica molto poco.
Perciò a Sfighello, gli inverni erano sempre molto tristi; freddi freddi e senza neve. Gli abitanti erano molto scontenti di questa situazione, anche perché nelle valli vicine, dove d’inverno cadeva la neve, con la neve arrivavano gli sciatori e portavano soldi e allegria.
Un giorno a Sfighello giunse un tipo strano di nome Pop Crom, che, sentite le lamentale degli abitanti, si mise a fare strani calcoli su pacchi di fogli e alla fine costruì una strana macchina.
“Questa macchina” disse tutto contento e orgoglioso “è una mia invenzione, che trasforma la roccia in acqua e grazie a quest’acqua trasforma l’aria secca in aria umida e fredda pronta a far cadere la neve. Basta inserire un quintale di patate e la macchina può funzionare per dieci anni”.
Gli abitanti di Sfighello si guardarono perplessi. “Su coraggio, portate qua le patate” disse Pop Crom, ma vide che nessuno credeva in lui. “Fate come volete, la macchina è qui, questo è il pulsante per accenderla, io adesso devo andare, ma tornerò l’anno prossimo”.
Pop Crom partì e gli abitanti di Sfighello guardavano la macchina e discutevano tra loro, ma non si decidevano ad avviare la macchina temendo potesse succedere chissà che cosa.
Molti però, soprattutto i bambini cominciarono piano piano, una patata alla volta, a riempire il serbatoio. Quando fu pieno alcuni ragazzi più coraggiosi degli altri, azionarono di nascosto la macchina.
Dopo neanche mezzora cominciò a nevicare. Nevicò tutto il giorno e il giorno dopo e quello seguente e quello dopo ancora. Dopo una settimana c’erano 30 centimetri di neve, dopo due settimane 60, dopo tre settimane i centimetri di neve erano 90. Gli abitanti di Sfighello, che dapprima erano contentissimi, incominciarono a preoccuparsi. Cercarono di spegnere la macchina in tutti i modi, ma non ci riuscirono. Non riuscivano nemmeno più ad aprire il serbatoio per svuotarlo.
Così nevicò e nevicò per mesi e Sfighello lentamente scomparì sotto la neve e si ritrovò in una grande caverna con dei lunghi camini che portavano all’esterno. Pop Crom non tornò dopo un anno come aveva promesso e nemmeno dopo due né dopo tre. Nevicò per dieci anni sopra Golasecca, poi le patate finirono e tornò il classico sereno della valle.
Ormai però la valle si era trasformata in un enorme ghiacciaio e sotto il ghiacciaio, illuminato da grandi camini di ghiaccio che riflettevano la luce del sole, il piccolo paese che fu ribattezzato Nevogeno.
Sul ghiacciaio e sui fianchi delle montagne, le cui cime contornavano il ghiacciaio, costruirono grandi piste di sci da fondo e da discesa e, grazie al tempo sempre bello, alla neve sempre abbondante e a quel paese così particolare, tutto sotto il ghiaccio, Nevogeno diventò una ricchissima stazione sciistica. Gli abitanti di Nevogeno impararono anche a caricare la macchina di Pop Crom, il cui serbatoio a macchina spenta si apriva regolarmente, con poche patate per volta in modo da avere qualche nevicatina per rinfrescare la pista e fare un po’ di allegria sull’immenso ghiacciaio.
Gli abitanti di Nevogeno ancora aspettano Pop Crom per ringraziarlo e pagargli la sua meravigliosa macchina, ma fino ad oggi dello strano inventore non s’è saputo più nulla.

domenica 15 luglio 2012

INTIMITA'

Sto aggrappato
a questa donna
come al conforto
di Dio
mentre lei piange
sul mio petto.

domenica 8 luglio 2012

VERSO CASA (parte II)

 [segue]
Esco dalla galleria e inizio subito a sbirciare verso destra.
Ecco lì sopra il paese, sullo sperone di roccia, in mezzo agli alberi, la baita di Soccher.
E’ un luogo magico per la mia memoria. Mi ci portava Roberto alle feste dei suoi strani amici.
Ed è stato lì, mentre noi due da soli in una meravigliosa giornata estiva saltellevamo tra i ruderi del castello, che ci siamo baciati per la prima volta.
Roberto è stato il mio primo grande amore e con lui ho vissuto davvero tantissime nuove esperienze. Qualcuna anche negativa, come la prima e ultima canna della mia vita. Mai stata così male in vita mia!
Ci siamo conosciuti al pattinaggio. Io a quel tempo abitavo a Feltre e frequentavo il secondo anno delle superiori, al liceo linguistico. Roberto era di Belluno, ma veniva con i suoi amici a fare qualche incursione a Feltre.
Fone che stasera? ‘ndon a higa a Heltre”.
Quella sera Aldo, un suo amico, aveva puntato su Magda e Roberto si era assunto il compito di togliere l’amica di torno. L’amica ero io. Naturalmente tra Magda e Aldo la cosa non ha assolutamente funzionato e credo non si siano nemmeno mai più rivisti.
Roberto era dolce e timido, ma al contempo sicuro di sé, disinibito e spesso abbastanza spericolato.
Aveva diciassette anni e una Vespa Px azzurra sulla quale credo di aver percorso decine di migliaia di chilometri nei due anni che sono stata con lui.
Il tratto di strada che non scorderò mai però è un tratto molto banale, vicino a casa e percorso già un’infinità di volte prima di quella sera. Eravamo in ritardo per andare al cinema e Roberto ha iniziato una serie di spavaldi sorpassi sulla Culliada, finchè da una macchina non è spuntata fuori una paletta rossa che ci ha costretti ad accostare e a fermarci.
Dall’auto sono scesi due carabinieri in borghese uno dei quali, per colmo di sventura, era mio padre.
- Buongiorno, scendete, toglietevi i caschi e favorite i documenti.
Mi sono tolta il caso guardando per terra e poi ho detto:
- ciao papà
e l’ho fissato negli occhi.
C’è stato un lunghissimo istante di gelo generale.
Poi Roberto si è presentato e con cortesia, in modo simpatico, ma senza strafare ha cominciato a chiacchierare amabilmente, riuscendo quasi subito a scardinare le difese di mio padre e a coinvolgerlo in una piacevole conversazione.
Tanto che alla fine se l’è cavata con una lavata di capo e la promessa di passare a casa nostra per presentarsi anche alla mamma. L’autorità di mio padre ai miei occhi è di colpo crollata e da quel giorno siamo andati molto più d’accordo.
Roberto sapeva essere davvero straordinario. Mi chiedo ancora come mai sia finita tra noi.
Sì certo, lui è andato a Milano a studiare, mio padre ha finalmente ottenuto il trasferimento in Cadore, noi ci siamo trasferiti nella casa che era di mia nonna materna e io sono andata al liceo linguistico di Cortina.
Per un po’ ci siamo tenuti in contatto, ma nessuno dei due credeva di poter far funzionare la nostra relazione a distanza e così, senza nemmeno mai dirci: “E’ finita”, ci siamo persi.
Probabilmente ciascuno dei due chiedeva dal nostro rapporto troppe cose per sé e subito per poter resistere ad una relazione che sarebbe stata così povera di momenti per vederci e stare insieme, per avere oltre che per dare.
Guarda invece questo deficiente che sorpassa qui all’inizio della corsia di uscita dall’autostrada.
Gli pianto gli abbaglianti nello specchietto, ma quello si immette di prepotenza sull’Alemagna e sparisce.
Vai pure ad ammazzarti, basta che non coinvolgi gli altri.
Per me invece arriva un altro dei miei appuntamenti fissi con il paesaggio del percorso casa-lavoro-casa: la Val Gallina.
E’ da tanto tempo che non vado più a passeggiare sulla diga, come quel primo giorno in cui mio padre dopo averci aiutato a costruire un paio di artigianali aquiloni ci ha portato lassù a farli volare. Cosa che hanno anche fatto. Ma l’emozione più grande è sta quella di camminare su una diga, tra la massa d’acqua del lago e il precipizio sopra il torrente.
Ma il motivo per cui amo guardare la Val Gallina dalla strada non è legata ai ricordi né alla diga in sé, ma alla fantasia.
Vista da qua giù la valle non rivela infatti le sua anguste dimensioni, ma può sembrare la sezione di una valle parallela a quella del Piave e altrettanto lunga se non di più. Le stesse montagne potrebbero essere solo l’inizio di una catena sterminata con fiumi, laghi, boschi, praterie.
E io immagino valli selvaggi e montagne poderose con le cime perennemente coperte di neve. E dietro ancora immense distese. Terra, tanta terra libera, come l’intero Nuovo Mondo. E mi piace pensare a quell’immenso spazio a disposizione per cavalcarci spingendo docili mandrie di bestiame verso ricchi pascoli gorgoglianti di chiare sorgenti.
Un’enorme territorio ancora vergine e libero. Ben diverso da queste nostre piccole montagne congestionate.
La gente qui è ovunque, non c’è valle o colle, che non sia o non sia stato abitato. Ovunque i nostri progenitori hanno costruito le loro case ammassandosi gli uni sugli altri, contendendosi le scarse risorse naturali.
Così chi non è emigrato ha dovuto imparare a lottare giorno e notte per strappare alla terra, ai campi, al bestiame, alle miniere, alle mani dei padroni il necessario per vivere.
Il lavoro continuo e instancabile era l’unica forma possibile di sopravvivenza, era una necessità che toccava a uomini, donne, vecchi e bambini. Tutti dovevano lavorare e duramente se volevano sfamarsi.
Alzarsi alle tre di notte per accudire la vacca, riportare su con le gerle la terra buona che scivolava inesorabilmente a valle, scavare in miniera durante il giorno e risalire chilometri e chilometri di erto sentiero per ritornare a casa la sera a lavorare il legno.
La scarsità delle risorse per la rigidità del clima e la densità della popolazione hanno selezionato persone votate al lavoro. Allora quest’ossessione lavorativa era un’esigenza ora è divenuta inutile e dannosa.
Come la tendenza a ingrassare, che salvava nei periodi di carestia i nostri antenati cavernicoli e che oggi con l’abbondanza e la ricchezza degli alimenti a disposizione crea obesi che vivono male e muoiono presto, così la cultura del lavoro spasmodico, valore sopra ogni altro valore, porta a sprecare la vita con una foga insensata, dietro quello che è invece solo il mezzo che dovrebbe consentirci di vivere pienamente.
E ci si ritrova a domandarsi se abbiamo perso il senso della vita, i valori etici, e quant’altro. Semplicemente non siamo stati capaci di adattarci al nuovo ambiente.
Dopo c’è anche chi non si muove senza la macchina e non usa che l’ascensore per andare poi in palestra a fare steps e pedalare sulla cyclette. Quello sì che è adattamento ad un ambiente artificiale.
Del resto abbiamo fatto troppi salti: dalla guerra alla pace, dall’educazione oppressiva a quella permissiva, dalla società contadina e rurale a quella industriale e cittadina, come si possono ricalibrare così velocemente degli atteggiamenti mentali che sono poi in gran parte legati a comportamenti specie-specifici atavici?
Ma le cose possono anche tornare indietro. Tutto l’occidente sta infatti vivendo da decenni al di sopra delle proprie possibilità, un po’ come ha fatto l’est europeo sotto il comunismo, con il risultato di fare alla fine crollare il sistema. Noi stiamo scaricando i lussi che non potremmo permetterci sulle spalle delle generazione future attraverso il debito pubblico e non per colpa dei governi di centro di destra o di sinistra, ma grazie agli economisti e alla loro teoria dell’acelleratore, che sembrava dover funzionare illimitatamente, perché, come spesso accade, le condizioni di contorno - il contesto - non erano state definite correttamente.
Certo poi anche i politici ci hanno del messo del loro, sfruttando la teoria per beneficiare se stessi e i propri clienti senza badare all’utilità e alla produttività della spesa pubblica.
Ad ogni modo il risultato finale è che esiste la fondata possibilità che la compulsione lavorativa torni ad essere presto essenziale per la sopravvivenza di molti, a meno che non si arrivi ad una diversa distribuzione delle ricchezze, ma chi ci crede? Ben magra consolazione per rivalutare la “cultura del lavoro”.
Ma ecco il Vajont: uno dei frutti più avvelenati di quella mentalità. Non voglio nemmeno pensarci.
Il traffico qui a Longarone poi richiede un po’ di più della mia attenzione.
Le macchine che scendono dal Cadore sono coperte di neve. A guardare bene anche qui sta nevischiando.
Sono tranquilla, ho le lamellari in ottimo stato e conosco bene la strada, speriamo solo che non ci siano i soliti incoscienti con le gomme lisce a intralciare e i turisti imbranati con le catene che procedono a cinque chilometri orari sull’asfalto pulito. Anch’io, come tutti, ho un rapporto difficile e ambivalente con i turisti, sono pur sempre dei foresti!
All’uscita della galleria c’è una vera e propria tempesta di neve. E’ affascinante. Inoltre c’è il vantaggio che non si vede l’orribile fonderia. Perché mettere una fonderia tra i monti? Per inquinare anche con il trasporto dei materiali e del combustibile oltre che con la produzione?
Non so rispondere a queste domande, come a tante altre, che mi toccano anche più profondamente. Forse non so neppure pormi le domande giuste. Quali sono le priorità della mia vita? E quali dovrebbero essere?
Non so decidere se Luca sia l’uomo della mia vita o se io debba aspettare a impegnarmi e fino a quando. Non so decidermi a cambiare lavoro, ad andare a vivere da sola o con lui. E dove?
Non riesco nemmeno a decidere di comprare una nuova macchina fotografica!
Le risposte a tutte queste domande turbinano nella mia mente come questi fiocchi di neve, sbatacchiano e cadono una sull’altra formando uno strato spesso e amorfo di pura confusione che poi si scioglierà senza lasciare nulla.
A Rivalgo la nevicata è tornata nella norma, ma la strada è anche qui bianca. Che orribili sono queste case sul ciglio della strada. Da bambina pensavo che Rivalgo fosse il paese più brutto del mondo, poi un giorno invece di passare oltre schifata, mi sono fermata e mi sono inoltrata dentro il paese. Ho conosciuto solo allora Rivalgo e il suo meraviglioso circondario. E’ per me come un emblema della fallacità delle apparenze.
Ma quanto spesse sono a volte le apparenze! Per quanto scavi in profondità non arrivi mai a scoprire la vera sostanza.
Soprattutto quando la materia di indagine è l’uomo. Arriverò mai a capire Luca? E a capire me stessa?
E’ poi davvero così importante capire? Non sarebbe meglio vivere istintivamente, senza cercare di inquadrare ogni cosa in una casella di un mosaico che deve per forza avere un senso, che però noi non possiamo vedere, perché stiamo dentro le tessere stesse?
Vengo di novo strappata bruscamente ai miei pensieri. Un enorme fuoristrada sbuca fuori dalla curva, sembra piuttosto veloce, sbanda, si mette di traverso sulla strada proprio davanti a me e scivolando mi viene incontro.
Io inchiodo e per evitare l’impatto butto la macchina nel mucchio di neve a bordo strada.
Il fuoristrada si ferma a meno di 30 centimetri da me. Poi riparte e riaccosta qualche metro più avanti sull’altro lato della strada. Faccio retromarcia e mi rimetto in strada.
La fila di macchine che già si era formata dietro di me si rimette lentamente in moto.
Il guidatore mi viene incontro.
- tutto bene?
Io sto controllando il muso, e la fiancata, sembra tutto a posto.
- Sì tutto bene, ma lei è un disgraziato poteva ammazzarmi!
Lui alza le spalle e tutto tranquillo dice:
- beh ammazzarla no, comunque mi scusi ho sbagliato la curva, capita.
- sì, capita. Capita a chi corre come un deficiente. Se potessi le ritirerei la patente.
Lui ridacchia sfacciatamente.
- per fortuna non può, buon viaggio.
Si volta e se ne va.
Io resto lì, praticamente a bocca aperta. Che gran bastardo!
Risalgo in auto, ancora un po’ tremante. Respiro profondamente, rimetto in moto e riparto.
Per fortuna è andata bene. Sono ancora molto agitata. E’ stata una bella scarica di adrenalina. Devo calmarmi o rischio di fare io qualche stupidaggine.
Che razza di gente c’è in giro! Ma non devo prendermela con lui. Il risentimento verso gli altri è sempre in fondo un risentimento verso sé stessi. Una disavventura quando è terminata ha esaurito la sua negatività, il dolore passato non fa più male, l’offesa scivola via se è falsa.
E’ l’aver messo in luce la mia debolezza il mio errore ciò che mi tormenta nei torti ricevuti. E’ quando viene scoperto il mio limite che volevo tener nascosto che sento il turbamento. E la rabbia che provo verso chi ne è la causa è in realtà la proiezione dell’insoddisfazione che ho verso me stessa.
Imbocco la galleria. Rivedo ancora la scena con la mente e sospiro. Entro in un tratto buio della galleria, si sono rotte le luci. E proprio qui, improvvisamente la macchina sbanda e si piega di lato. Sono di nuova ferma.
La gomma! Maledizione la gomma. Sotto il cumulo di neve deve aver toccato qualcosa, magari solo un cordolo o lo spigolo di un marciapiede o chissà che cosa e si è tagliata. Ma non del tutto. No troppo facile. Si è quasi rotta, ma un lembo di tela ha resistito per un po’ di tempo, per questi pochi chilometri, per cedere, proprio qui, in galleria e per giunta al buio.
Accendo le luci lampeggianti di emergenza.
Scendo. La gomma è completamente distrutta. E chi si ferma qui in galleria per cambiarmela? Sicuramente nessuno.
Per fortuna almeno sono vicina a casa.
Prendo il triangolo e cerco di sistemarlo una trentina di metri prima della macchina, ma non sta in piedi. C’è un pezzo del mio copertone che riesco ad usare come appoggio. Torno alla macchina.
Le auto mi superano, il traffico è intenso solo verso nord.
Risalgo in macchina e prendo il cellulare dalla borsetta. Ovviamente non c’è rete. A che punto della galleria sono?
Decido di risalire e uscire verso il ponte. Perché capitano tutte a me? Tutta colpa di quel bastardo. Bastardo, bastardo!
E io, scema, non ho preso nemmeno il suo numero di targa.
L’aria nella galleria è quasi irrespirabile e il rumore delle auto è assordante. Sembra di stare all’inferno.
Arrivo fuori e il cellulare non prende nemmeno qui.
Mi incammino di nuovo e intanto cerco di fermare qualche auto.
Si ferma un furgone. Dentro c’è una squadra di operai che mi guarda avidamente. Almeno si sono fermati. Mi prestano un cellulare che funziona. Così riesco a parlare con mio fratello. Promette di arrivare subito. Rassicurata, ringrazio e torno nel fondo dell’incubo.
Ecco le luci che si spengono. Devo essere vicina. Ma dov’è finita la mia macchina?
Mi gira la testa, mi sento quasi svenire. La mia auto non c’è più! Accellero il passo sul fondo scivoloso.
Eccola là, morta, illuminata solo dai fari delle macchine che passano strombazzando, creando un'eco infernale per tutta la galleria.
Tutte le luci si sono spente. Cerco di mettere in moto. Si sarà bagnata la calotta o forse si è proprio scaricata la batteria.
Mi viene da piangere. Mio fratello avrà preso il cavo di traino?
Un’auto mi supera e si ferma una decina di metri più avanti. Io esco, corro verso il soccorritore, ma urto contro un catarifrangente appeso al muro della galleria. Mi colpisce in pieno petto e mi stende. Cado piroettando e mi rialzo dolorante e graffiata alle mani e al viso e completamente coperta da una poltiglia nera: un cocktail di neve, fango, e gas di scarico.
Mi presento al finestrino della macchina, un po’ titubante: devo essere un mostro conciata così, potrebbe anche spaventarsi. Già di mio, con i capelli neri e dritti che ho, sembro un po’ Mortisia.
Dentro c’è un uomo con il viso largo e gli occhi pietosi che non sembra spaventarsi, ma mi dice subito:
- non può lasciare la macchina lì, è troppo pericoloso.
- non parte più, mi aiuta a spingerla?
- volentieri,ma non posso, sono paraplegico!
- ah mi dispiace, comunque mio fratello sta venendo qui.
Non so più cosa pensare, tutto è ciò è persino irreale. L’unico che si ferma per aiutarmi è un disabile e non può aiutarmi.
- beh non si preoccupi, lei torni in macchina, io intanto vado a mettermi dietro alla sua macchina con le luci di pericolo accese.
Che brava persona. Rientro in macchina. Ho freddo.
Lui riesce a mettersi dietro di me con le luci lampeggianti accese.
Mi pulisco un po’ il viso. I graffi mi bruciano e mi accorgo di essere piena di botte.
Che situazione surreale e orribile!
Quando arriva mio fratello con mio padre scoppio a piangere.
Loro hanno pensato a tutto. Hanno anche i cavetti per ricaricare la batteria. Cambiano la ruota e io monto con mio padre. Si torna a casa: l’incubo è davvero finito.

Il giorno dopo il mio capo, quel simpaticone, proclamò tutta la sua invidia per noi montanari, che avevamo la neve per poi preannunciare la sua settimana bianca a Cortina.
Mentre lo ascoltavo guardai distrattamente dalla finestra. Giù nel parcheggio c’era un orribile fuoristrada uguale a quello sciagurato che la sera prima aveva cagionato tutte le mie tribolazioni.
- Di chi è quella Jeap?
- Il Pajero? E’ mio, è arrivato ieri. Bello è?
- Bellissimo
Ero ancora troppo scossa per parlare della mia disavventura e in seguito non feci tempo a parlargliene perché quattro mesi dopo cambiai lavoro.
Oggi quando racconto questo episodio riesco a riderne di gusto insieme al mio pubblico, ma allora fu un vero trauma.
Attualmente vivo da sola e vado al lavoro a piedi. Luca vorrebbe che ci sposassimo. Ho cambiato gestore per il telefonino e ora la rete è attiva anche in galleria. La mia vecchia Tipo è ancora un gioiellino, calotta a parte, ma prima o poi mio padre mi convincerà, per esaurimento, a cambiarla.

domenica 1 luglio 2012

VERSO CASA (parte I)


Dopo un incidente in cui si batte la testa spesso si verifica un’amnesia retroattiva, ossia ci si dimentica non solo dell’incidente e di ciò che succede subito dopo, mentre si è privi di sensi, ma anche di ciò che è accaduto per un certo periodo prima del momento dell’impatto.
Così è successo a mio fratello, caduto con la moto vicino a Trichiana e risvegliatosi mentre lo caricavano in ambulanza. Il suo ultimo ricordo, precedente all’incidente, è rimasto in un ben preciso punto lungo la strada tra Lentiai e Mel.
A me è capitato il fenomeno inverso, ma non so se anche questo sia comune o se comunque abbia dei precedenti e magari una sua presenza nella letteratura delle scienze mediche.
Ad ogni modo ciò che posso descrivere con certezza è la mia esperienza. Un piccolo dramma psicologico ha impresso indelebilmente nella mia memoria non solo tutti gli eventi che mi hanno traumatizzato, ma anche le ore precedenti.
Ancor oggi a distanza di due anni ricordo esattamente ogni fatto, ogni immagine, persino ogni mio pensiero.
E riandare con la memoria a quell’episodio resta un po’ nel mezzo tra il rivivere pienamente quella piccola avventura con il suo angosciante crescendo di sfortuna e il guardare un film con il distacco dello spettatore comodamente seduto in poltrona.

Nella prima scena di questo film, nella mia testa, ci sono l’ora e la data: le diciotto e quindici del venti dicembre dell’anno duemila.

Sto uscendo dall’ufficio, anche se il mio orario contrattuale di otto ore dice che entrando alle otto in punto e con un’ora di pausa pranzo, che poi spesso salto, dovrei uscire alle diciasette.
Il gioco però è ben congegnato, ed è un gioco truccato nel quale io perdo sempre.
Non riesco assolutamente a far fronte a tutte le cose che dovrei fare e, un po’ per senso di responsabilità un po’ per non trovarmi ancor più alle strette il giorno dopo, finisco regolarmente per fare gli straordinari. E il mio capo, che oggi avrei volentieri preso a calci sulle gengive, alle cinque meno cinque mi blandisce con frasi tipo:
  • finisca questo per favore, ma poi vada a casa, si riposi un po’, si goda la vita!
Così, quello stronzo, già mi trattiene per almeno una mezz’ora per finire quell’ultima cosa e almeno un’altra mezz’ora scelgo di restare io per non impazzire il giorno seguente quando, come suo solito, mi chiederà in rapida successione di eseguire immediatamente tre o quattro lavoretti che richiedono un’ora ciascuno.

Alla fine però è colpa mia che accetto questo modo di lavorare e soprattutto accetto lo stipendio, non certo esaltante, che ne ricavo. Finché la corda non si spezza! Ma per oggi è finita, meglio non pensarci più.
Tanto per cambiare piove. Già questo mi mette un po’ di patema. La mia vecchia Tipo di seconda mano ha la calotta sensibile all’umidità e già più di una volta mi ha lasciato a piedi. Dice bene mio padre di comprarne una nuova, con quello che costano le macchine! E poi la mia, a parte il problema della calotta, funziona ancora a meraviglia
L’importante è evitare le pozzanghere più grosse e tenere su di giri il motore quando si è costretti a fermarsi, come adesso al casello. Prendo il biglietto e mi lancio lungo l’autostrada.
La macchina vibra tutta e devo alzare il volume dell’autoradio per sentire la musica sopra il rumore dell’aria e del motore, ma schiaccio per bene l’acelleratore. Voglio essere a casa quanto prima.
Perché non lo so nemmeno io. Non è che abbia niente di particolare da fare. I miei poi non cenano mai prima delle nove.
Forse amo soltanto la velocità. Non tanto per l’ebrezza di provare il rischio che la velocità porta con sé, che, seppur inconsciamente è certo lo stimolo più diffuso tra gli utenti più spericolati della strada, quelli che hanno bisogno di intravedere la morte per sentirsi vivi, quanto piuttosto perché correndo con la macchina entro in un particolare e interessante stato alterato di coscienza.
Credo che, all’aumentare della velocità fisica del mezzo, rallenti proporzionalmente la velocità dei miei pensieri. Probabilmente perché una parte del mio cervello è impegnata nella guida e nell’analisi attenta e continua di tutti i potenziali pericoli che si nascondono nelle pieghe del paesaggio che sfugge velocemente di lato.
La leggera indefinitezza che assumono i pensieri conferisce loro una acutezza particolare. In un certo senso si semplificano e diventano più chiari, magari perché hanno la possibilità di svilupparsi per conto loro, senza che la mia volontà, già impegnata nella guida, li costringa lungo binari prestabiliti.
Inizia però già la salita e la mia povera vecchia auto è costretta ad arrancare perdendo velocità.
Arrivo in cima. La galleria è in discesa, ma trattengo il piede per liberarlo all’uscita. Il quotidiano piccolo momento di gloria della mia Tipo. Sfreccia giù come un missile verso il casello di Vittorio Nord e nessuno ci supera.
Poi inizia la salita del Fadalto. Inesorabilmente perdiamo velocità e io guardo con invidia le auto più potenti allontanarsi con fastidiosa facilità, come se fossero dieci volte più leggere, mentre in realtà sono ben più grosse e pesanti.
Sul viadotto come al solito c’è molto vento. E’ logico: se metti una strada sospesa per aria nel mezzo di una valle ci sarà sempre vento forte. Strano caso, il primo progetto dell’autostrada, quella che avrebbe pagato il Land Baviera lasciando la concessione a noi italiani per 99 anni, prevedeva che restasse bassa, salendo sul fianco della valle. Inutile domandarsi perché il tracciato è stato modificato.
La Val Lapisina era già una valle triste, adesso l’unica cosa che risalta è la mostruosa mole di cemento dell’A27.
Ora è buio e piove, ma da questo punto, se fosse ancora giorno e il cielo fosse sereno comincerebbe a spuntare il Teverone. “Er Tevere? Ma che stai a dì? Quello sta a Roma!”
Non è una montagna molto conosciuta, ma il suo sorgere quando si sale dalla pianura veneta, soprattutto quando in primavera o in autunno, ben innevato contrasta con le spoglie cime delle Prealpi, mi commuove ogni volta. Proprio per questo sono andata a cercarmi il suo nome sulla carta geografica.
E’ per me come l’apparire della terra promessa, è il segno che sto tornando a casa. Ai miei amatissimi monti.
Il traffico è già piuttosto intenso. Le piste da sci saranno affollate. Su sta di certo nevicando.
Qui in Alpago invece, anche se il cielo è ben coperto non nevica, né piove.
Il Lago di Santa Croce è una macchia scura alla mia destra, mi fa un po’ di paura. La cosa è del tutto irrazionale, ma è così. Ho paura delle acque scure. Cioè delle distese d’acqua nell’oscurità. Ciascuno dei due elementi preso separatamente non mi dà alcun problema, ma alla loro congiunzione scatta la fobia. Peraltro sono una buona nuotatrice ed ho una visione notturna e crespuscolare nettamente migliore della media.
La cosa buffa è che da bambina, insieme ai miei cugini, mi facevo beffe della paura dell’acqua di mia zia, che soffre di una fortissima ansia ogniqualvolta si avvicini ad uno specchio d’acqua più esteso di una pozzanghera o di una fontana. Inoltre insieme al più vecchio dei cugini, ridevo della paura del buio delle cuginette piccole e di mio fratello.
Ma non voglio leggere tutto ciò come un contrappasso anticipato, non credo nemmeno a quello escatologico, né voglio leggerlo come una predisposizione genetica, che è sempre una forma di predestinazione, e neppure di imprinting.
E’ solo un caso, anche se un qualche motivo specifico la mia paura deve pur averlo. E’ normale aver paura delle proprie paure e non volerle analizzare?
Eccomi arrivata alla barriera di Belluno-Cadola. Come al solito vado verso una delle porte con operatore.
E’ un po’ assurdo, lo so. Usando l’autostrada tutti i giorni dovrei installare il telepass o perlomeno utilizzare le Viacard o il Bancomat. Guadagnerei tutti i giorni qualche minuto, per non parlare di quando, come adesso, la fila è lunga.
Ma io scelgo il casellante perché è un uomo. Probabilmente scortese e discretamente alienato a causa del lavoro, ma cosa farebbe senza questo lavoro? Come manterrebbe la sua famiglia?
Dicono che dalle nostre parti non esista la disoccupazione, il che magari è quasi vero se vuoi fare l’operaio. Se sei diplomato già e dura, per i laureati poi le chances non sono molte. E comunque anche un operaio non trova posto dall’oggi al domani e con il costo della vita di questi tempi non ci si può permettere di restare senza stipendio a lungo.
A parte il problema soggettivo del casellante una cosa che mi fa pensare è lo scopo dell’automazione: ridurre i costi e aumentare gli utili della società. Già ecco dove finiscono gli introiti delle porte automatizzate: alla “Autostrade Concessioni e Costruzioni Autostrade spa”.
Società per azioni. Le azioni saranno poi in possesso di altre società, a loro volta partecipate da altre società e così via. Alla fine però ci sono sempre delle persone e quando una società è quotata in borsa è di tutti, o meglio, può essere, in parte, di chiunque.
Sì, ma chi ci guadagna veramente? L’azionariato popolare, i piccoli risparmiatori?
Qualcuno può avere la fortuna di investire in borsa, di norma attraverso i fondi di investimento, quando i corsi sono in aumento e di uscire dall’investimento, magari per comprarsi una casa, prima che inizino gli inevitabili anni delle vacche magre.
Ma i più per un po’ di anni si fregano le mani vedendo il loro gruzzoletto aumentare senza fatica, poi all’improvviso cominciano a perdere e tra fluttuazioni, previsioni macro-economiche e geo-politiche, speranza di riprese e inviti a mantenere la calma puntando sul lungo periodo si trovano in breve più poveri che all’inizio.
Gli unici a guadagnarci sempre sono i grandi speculatori, quelli che non subiscono il mercato, ma lo fanno. Le banche, le Assicurazioni, le multinazionali. E di chi sono queste? Sono dei ricchi che sapranno vendere le loro azioni al momento giusto, ma anche se ci perdono, pazienza, di soldi ne hanno in sovrabbondanza o sono, di nuovo, in mano all’azionariato popolare e allora quando arriva il crollo chi perde, si ritrova in mutande. Se poi la società fallisce, chi ha incassato alla fine dell’avventura finanziaria sono solo gli agenti di borsa e i top managers, proprio quelli che hanno portato la società al fallimento.
I top managers non li sopporto. Il loro ruolo è certo importante: mantenere relazioni per la ditta in cui lavorano con i potenti ed elaborare grandi strategie. Le loro strategie, sono spesso costruite sul nulla, sono delle semplice scommesse degli azzardi, che a volte vengono premiati dalla sorte, ma che se funzionano, nonostante siano palesemente mal strutturate, è solo grazie agli sforzi di tutti i sottoposti, dai quadri agli impiegati fino, e in primo luogo, agli operai.
Sono tutti costoro che con il loro pragmatismo risolvono i problemi creati dalle idee strampalate dei managers. I managers si guardano bene dall’interessarsi dei problemi reali e pratici, sono dettagli che lasciano agli altri, i lavoratori, quelli che raccolgono le briciole, mentre i managers arricchiscono smoderatamente.
Se gli industriali sono individui poco raccomandabili i managers sono ancora peggio. L’industriale, almeno quello nostro, del Nord Est, nasce come artigiano, un artigiano che a un certo punto diviene avido e egoista.
Incomincia a sfruttare il lavoro altrui e muovendosi al limite della legalità fiscale, grazie a intrallazzi vari con le banche e qualche spintarella dalle istituzioni in virtù delle amicizie politiche riesce, se ha anche una una buona dose di fortuna, a crescere, cioè a far cresce la sua azienda.
A suo merito va ascritto che, almeno all’inizio, rischia del proprio e mette in moto una attività che senza di lui non esisterebbe affatto e porta vantaggi, anche se minori e non senza esternalità negative per la società, a molti.
Il manager invece lavora senza rischiare nulla, se non il posto di lavoro, ma dato quello che guadagna può permettersi di restare disoccupato anche a lungo e comunque questo raramente succede, perché per quanto disastroso sia stato il suo operato precedentemente, poiché la sua più grande abilità è quella di vendere se stesso, saprà abbindolare qualche altra impresa e riproporsi come un genio e un vincente.
I managers che sono anche proprietari, perché eredi dei fondatori, almeno fanno molto più fatica a riciclarsi e in più portano il peso psicologico di aver rovinato l’azienda di famiglia.
Io non potrei mai fare il manager. Non ho le doti necessarie: cinismo, mancanza di scrupoli, ruffianeria, conoscenze altolocate, capacità di millantare che è forse la più importante. Soprattutto mi manca la volontà di ridurre la vita a solo lavoro. Questo infatti è il rovescio della medaglia della vita dei managers: essi consacrano il loro tempo al servizio della ditta, passando da un viaggio all’altro, da un pranzo a una cena di lavoro e poi di riunione in riunione fino a tarda notte.
E’ un po’ quello che succede ai brookers, gli agenti di borsa, che giocano con i soldi degli altri creando e annientando in pochi minuti capitali ingenti, trattenendo in ogni caso per sé ottime percentuali, ma per far questo vivono la loro vita in una sorta di realtà virtuale, in cui tutto ciò che accade nel mondo istante per istante va letto in funzione delle reazioni della borsa per cui finiscono per lavorare perennemente.
In mano a questi tristi personaggi sono le redini dell’economia, volendo trascurare i politici per non toccare il fondo della depressione. Ma tutto il mondo gira sull’egoismo e la millanteria. Ovunque e a ogni livello se ne fa larghissimo uso.
Io stessa, proprio ora, sto millantando una rettitudine morale che non ho, perché anch’io in fondo come tutti aspiro al benessere materiale e ancor meglio se potessi arrivarci facendo faticare gli altri.
Del resto senza imprenditori e managers non ci sarebbe il progresso economico che è necessario per il progresso scientifico e tecnologico, che a sua volta, anzi ancor prima, è lo stimolo di quello economico in un perfetto seppur discontinuo circolo virtuoso.
E il progresso tecnologico ha portato molti benefici. Oggi si vive senz’altro meglio che nei secoli passati e se non più felici per lo meno si vive più a lungo. In futuro poi potremo vivere ancor meglio se riusciremo a coniugare progresso ed ecologia e impareremo a considerare anche i bisogni dello spirito.
Alternative a questo modello di sviluppo la storia al momento non ne propone. Il grande tentativo di creare una società giusta operata dal comunismo è fallito miseramente e tragicamente.
L’unica rivoluzione che potrebbe cambiare veramente e rapidamente la società è quella delle coscienze e dei cuori iniziata 2000 anni fa da Gesù di Nazareth. Ma anche il suo messaggio è stato subito travisato.
Egli voleva liberare l’uomo dalla religione e i nuovi sacerdoti, che egli voleva abolire, hanno posto nuovi e pesanti gioghi sugli uomini e hanno utilizzato il suo messaggio come strumento di potere. Così mentre Gesù ci mostra il vero volto di Dio, quello dell’amore e ci chiede solamente di imitare Dio nell’amore, per rendere piena la vita di tutti, noi invece per secoli abbiamo creduto a un Dio che impone le sue leggi e giudica severamente. E ancor oggi fatichiamo a liberarci di quest’idea distorta, ma funzionale agli scopi terreni di molti.
Intanto è arrivato il mio turno. Il casellante non mi guarda neppure ma almeno mi saluta. Buona serata anche a te.
E via di nuovo verso casa.
[continua]