domenica 1 luglio 2012

VERSO CASA (parte I)


Dopo un incidente in cui si batte la testa spesso si verifica un’amnesia retroattiva, ossia ci si dimentica non solo dell’incidente e di ciò che succede subito dopo, mentre si è privi di sensi, ma anche di ciò che è accaduto per un certo periodo prima del momento dell’impatto.
Così è successo a mio fratello, caduto con la moto vicino a Trichiana e risvegliatosi mentre lo caricavano in ambulanza. Il suo ultimo ricordo, precedente all’incidente, è rimasto in un ben preciso punto lungo la strada tra Lentiai e Mel.
A me è capitato il fenomeno inverso, ma non so se anche questo sia comune o se comunque abbia dei precedenti e magari una sua presenza nella letteratura delle scienze mediche.
Ad ogni modo ciò che posso descrivere con certezza è la mia esperienza. Un piccolo dramma psicologico ha impresso indelebilmente nella mia memoria non solo tutti gli eventi che mi hanno traumatizzato, ma anche le ore precedenti.
Ancor oggi a distanza di due anni ricordo esattamente ogni fatto, ogni immagine, persino ogni mio pensiero.
E riandare con la memoria a quell’episodio resta un po’ nel mezzo tra il rivivere pienamente quella piccola avventura con il suo angosciante crescendo di sfortuna e il guardare un film con il distacco dello spettatore comodamente seduto in poltrona.

Nella prima scena di questo film, nella mia testa, ci sono l’ora e la data: le diciotto e quindici del venti dicembre dell’anno duemila.

Sto uscendo dall’ufficio, anche se il mio orario contrattuale di otto ore dice che entrando alle otto in punto e con un’ora di pausa pranzo, che poi spesso salto, dovrei uscire alle diciasette.
Il gioco però è ben congegnato, ed è un gioco truccato nel quale io perdo sempre.
Non riesco assolutamente a far fronte a tutte le cose che dovrei fare e, un po’ per senso di responsabilità un po’ per non trovarmi ancor più alle strette il giorno dopo, finisco regolarmente per fare gli straordinari. E il mio capo, che oggi avrei volentieri preso a calci sulle gengive, alle cinque meno cinque mi blandisce con frasi tipo:
  • finisca questo per favore, ma poi vada a casa, si riposi un po’, si goda la vita!
Così, quello stronzo, già mi trattiene per almeno una mezz’ora per finire quell’ultima cosa e almeno un’altra mezz’ora scelgo di restare io per non impazzire il giorno seguente quando, come suo solito, mi chiederà in rapida successione di eseguire immediatamente tre o quattro lavoretti che richiedono un’ora ciascuno.

Alla fine però è colpa mia che accetto questo modo di lavorare e soprattutto accetto lo stipendio, non certo esaltante, che ne ricavo. Finché la corda non si spezza! Ma per oggi è finita, meglio non pensarci più.
Tanto per cambiare piove. Già questo mi mette un po’ di patema. La mia vecchia Tipo di seconda mano ha la calotta sensibile all’umidità e già più di una volta mi ha lasciato a piedi. Dice bene mio padre di comprarne una nuova, con quello che costano le macchine! E poi la mia, a parte il problema della calotta, funziona ancora a meraviglia
L’importante è evitare le pozzanghere più grosse e tenere su di giri il motore quando si è costretti a fermarsi, come adesso al casello. Prendo il biglietto e mi lancio lungo l’autostrada.
La macchina vibra tutta e devo alzare il volume dell’autoradio per sentire la musica sopra il rumore dell’aria e del motore, ma schiaccio per bene l’acelleratore. Voglio essere a casa quanto prima.
Perché non lo so nemmeno io. Non è che abbia niente di particolare da fare. I miei poi non cenano mai prima delle nove.
Forse amo soltanto la velocità. Non tanto per l’ebrezza di provare il rischio che la velocità porta con sé, che, seppur inconsciamente è certo lo stimolo più diffuso tra gli utenti più spericolati della strada, quelli che hanno bisogno di intravedere la morte per sentirsi vivi, quanto piuttosto perché correndo con la macchina entro in un particolare e interessante stato alterato di coscienza.
Credo che, all’aumentare della velocità fisica del mezzo, rallenti proporzionalmente la velocità dei miei pensieri. Probabilmente perché una parte del mio cervello è impegnata nella guida e nell’analisi attenta e continua di tutti i potenziali pericoli che si nascondono nelle pieghe del paesaggio che sfugge velocemente di lato.
La leggera indefinitezza che assumono i pensieri conferisce loro una acutezza particolare. In un certo senso si semplificano e diventano più chiari, magari perché hanno la possibilità di svilupparsi per conto loro, senza che la mia volontà, già impegnata nella guida, li costringa lungo binari prestabiliti.
Inizia però già la salita e la mia povera vecchia auto è costretta ad arrancare perdendo velocità.
Arrivo in cima. La galleria è in discesa, ma trattengo il piede per liberarlo all’uscita. Il quotidiano piccolo momento di gloria della mia Tipo. Sfreccia giù come un missile verso il casello di Vittorio Nord e nessuno ci supera.
Poi inizia la salita del Fadalto. Inesorabilmente perdiamo velocità e io guardo con invidia le auto più potenti allontanarsi con fastidiosa facilità, come se fossero dieci volte più leggere, mentre in realtà sono ben più grosse e pesanti.
Sul viadotto come al solito c’è molto vento. E’ logico: se metti una strada sospesa per aria nel mezzo di una valle ci sarà sempre vento forte. Strano caso, il primo progetto dell’autostrada, quella che avrebbe pagato il Land Baviera lasciando la concessione a noi italiani per 99 anni, prevedeva che restasse bassa, salendo sul fianco della valle. Inutile domandarsi perché il tracciato è stato modificato.
La Val Lapisina era già una valle triste, adesso l’unica cosa che risalta è la mostruosa mole di cemento dell’A27.
Ora è buio e piove, ma da questo punto, se fosse ancora giorno e il cielo fosse sereno comincerebbe a spuntare il Teverone. “Er Tevere? Ma che stai a dì? Quello sta a Roma!”
Non è una montagna molto conosciuta, ma il suo sorgere quando si sale dalla pianura veneta, soprattutto quando in primavera o in autunno, ben innevato contrasta con le spoglie cime delle Prealpi, mi commuove ogni volta. Proprio per questo sono andata a cercarmi il suo nome sulla carta geografica.
E’ per me come l’apparire della terra promessa, è il segno che sto tornando a casa. Ai miei amatissimi monti.
Il traffico è già piuttosto intenso. Le piste da sci saranno affollate. Su sta di certo nevicando.
Qui in Alpago invece, anche se il cielo è ben coperto non nevica, né piove.
Il Lago di Santa Croce è una macchia scura alla mia destra, mi fa un po’ di paura. La cosa è del tutto irrazionale, ma è così. Ho paura delle acque scure. Cioè delle distese d’acqua nell’oscurità. Ciascuno dei due elementi preso separatamente non mi dà alcun problema, ma alla loro congiunzione scatta la fobia. Peraltro sono una buona nuotatrice ed ho una visione notturna e crespuscolare nettamente migliore della media.
La cosa buffa è che da bambina, insieme ai miei cugini, mi facevo beffe della paura dell’acqua di mia zia, che soffre di una fortissima ansia ogniqualvolta si avvicini ad uno specchio d’acqua più esteso di una pozzanghera o di una fontana. Inoltre insieme al più vecchio dei cugini, ridevo della paura del buio delle cuginette piccole e di mio fratello.
Ma non voglio leggere tutto ciò come un contrappasso anticipato, non credo nemmeno a quello escatologico, né voglio leggerlo come una predisposizione genetica, che è sempre una forma di predestinazione, e neppure di imprinting.
E’ solo un caso, anche se un qualche motivo specifico la mia paura deve pur averlo. E’ normale aver paura delle proprie paure e non volerle analizzare?
Eccomi arrivata alla barriera di Belluno-Cadola. Come al solito vado verso una delle porte con operatore.
E’ un po’ assurdo, lo so. Usando l’autostrada tutti i giorni dovrei installare il telepass o perlomeno utilizzare le Viacard o il Bancomat. Guadagnerei tutti i giorni qualche minuto, per non parlare di quando, come adesso, la fila è lunga.
Ma io scelgo il casellante perché è un uomo. Probabilmente scortese e discretamente alienato a causa del lavoro, ma cosa farebbe senza questo lavoro? Come manterrebbe la sua famiglia?
Dicono che dalle nostre parti non esista la disoccupazione, il che magari è quasi vero se vuoi fare l’operaio. Se sei diplomato già e dura, per i laureati poi le chances non sono molte. E comunque anche un operaio non trova posto dall’oggi al domani e con il costo della vita di questi tempi non ci si può permettere di restare senza stipendio a lungo.
A parte il problema soggettivo del casellante una cosa che mi fa pensare è lo scopo dell’automazione: ridurre i costi e aumentare gli utili della società. Già ecco dove finiscono gli introiti delle porte automatizzate: alla “Autostrade Concessioni e Costruzioni Autostrade spa”.
Società per azioni. Le azioni saranno poi in possesso di altre società, a loro volta partecipate da altre società e così via. Alla fine però ci sono sempre delle persone e quando una società è quotata in borsa è di tutti, o meglio, può essere, in parte, di chiunque.
Sì, ma chi ci guadagna veramente? L’azionariato popolare, i piccoli risparmiatori?
Qualcuno può avere la fortuna di investire in borsa, di norma attraverso i fondi di investimento, quando i corsi sono in aumento e di uscire dall’investimento, magari per comprarsi una casa, prima che inizino gli inevitabili anni delle vacche magre.
Ma i più per un po’ di anni si fregano le mani vedendo il loro gruzzoletto aumentare senza fatica, poi all’improvviso cominciano a perdere e tra fluttuazioni, previsioni macro-economiche e geo-politiche, speranza di riprese e inviti a mantenere la calma puntando sul lungo periodo si trovano in breve più poveri che all’inizio.
Gli unici a guadagnarci sempre sono i grandi speculatori, quelli che non subiscono il mercato, ma lo fanno. Le banche, le Assicurazioni, le multinazionali. E di chi sono queste? Sono dei ricchi che sapranno vendere le loro azioni al momento giusto, ma anche se ci perdono, pazienza, di soldi ne hanno in sovrabbondanza o sono, di nuovo, in mano all’azionariato popolare e allora quando arriva il crollo chi perde, si ritrova in mutande. Se poi la società fallisce, chi ha incassato alla fine dell’avventura finanziaria sono solo gli agenti di borsa e i top managers, proprio quelli che hanno portato la società al fallimento.
I top managers non li sopporto. Il loro ruolo è certo importante: mantenere relazioni per la ditta in cui lavorano con i potenti ed elaborare grandi strategie. Le loro strategie, sono spesso costruite sul nulla, sono delle semplice scommesse degli azzardi, che a volte vengono premiati dalla sorte, ma che se funzionano, nonostante siano palesemente mal strutturate, è solo grazie agli sforzi di tutti i sottoposti, dai quadri agli impiegati fino, e in primo luogo, agli operai.
Sono tutti costoro che con il loro pragmatismo risolvono i problemi creati dalle idee strampalate dei managers. I managers si guardano bene dall’interessarsi dei problemi reali e pratici, sono dettagli che lasciano agli altri, i lavoratori, quelli che raccolgono le briciole, mentre i managers arricchiscono smoderatamente.
Se gli industriali sono individui poco raccomandabili i managers sono ancora peggio. L’industriale, almeno quello nostro, del Nord Est, nasce come artigiano, un artigiano che a un certo punto diviene avido e egoista.
Incomincia a sfruttare il lavoro altrui e muovendosi al limite della legalità fiscale, grazie a intrallazzi vari con le banche e qualche spintarella dalle istituzioni in virtù delle amicizie politiche riesce, se ha anche una una buona dose di fortuna, a crescere, cioè a far cresce la sua azienda.
A suo merito va ascritto che, almeno all’inizio, rischia del proprio e mette in moto una attività che senza di lui non esisterebbe affatto e porta vantaggi, anche se minori e non senza esternalità negative per la società, a molti.
Il manager invece lavora senza rischiare nulla, se non il posto di lavoro, ma dato quello che guadagna può permettersi di restare disoccupato anche a lungo e comunque questo raramente succede, perché per quanto disastroso sia stato il suo operato precedentemente, poiché la sua più grande abilità è quella di vendere se stesso, saprà abbindolare qualche altra impresa e riproporsi come un genio e un vincente.
I managers che sono anche proprietari, perché eredi dei fondatori, almeno fanno molto più fatica a riciclarsi e in più portano il peso psicologico di aver rovinato l’azienda di famiglia.
Io non potrei mai fare il manager. Non ho le doti necessarie: cinismo, mancanza di scrupoli, ruffianeria, conoscenze altolocate, capacità di millantare che è forse la più importante. Soprattutto mi manca la volontà di ridurre la vita a solo lavoro. Questo infatti è il rovescio della medaglia della vita dei managers: essi consacrano il loro tempo al servizio della ditta, passando da un viaggio all’altro, da un pranzo a una cena di lavoro e poi di riunione in riunione fino a tarda notte.
E’ un po’ quello che succede ai brookers, gli agenti di borsa, che giocano con i soldi degli altri creando e annientando in pochi minuti capitali ingenti, trattenendo in ogni caso per sé ottime percentuali, ma per far questo vivono la loro vita in una sorta di realtà virtuale, in cui tutto ciò che accade nel mondo istante per istante va letto in funzione delle reazioni della borsa per cui finiscono per lavorare perennemente.
In mano a questi tristi personaggi sono le redini dell’economia, volendo trascurare i politici per non toccare il fondo della depressione. Ma tutto il mondo gira sull’egoismo e la millanteria. Ovunque e a ogni livello se ne fa larghissimo uso.
Io stessa, proprio ora, sto millantando una rettitudine morale che non ho, perché anch’io in fondo come tutti aspiro al benessere materiale e ancor meglio se potessi arrivarci facendo faticare gli altri.
Del resto senza imprenditori e managers non ci sarebbe il progresso economico che è necessario per il progresso scientifico e tecnologico, che a sua volta, anzi ancor prima, è lo stimolo di quello economico in un perfetto seppur discontinuo circolo virtuoso.
E il progresso tecnologico ha portato molti benefici. Oggi si vive senz’altro meglio che nei secoli passati e se non più felici per lo meno si vive più a lungo. In futuro poi potremo vivere ancor meglio se riusciremo a coniugare progresso ed ecologia e impareremo a considerare anche i bisogni dello spirito.
Alternative a questo modello di sviluppo la storia al momento non ne propone. Il grande tentativo di creare una società giusta operata dal comunismo è fallito miseramente e tragicamente.
L’unica rivoluzione che potrebbe cambiare veramente e rapidamente la società è quella delle coscienze e dei cuori iniziata 2000 anni fa da Gesù di Nazareth. Ma anche il suo messaggio è stato subito travisato.
Egli voleva liberare l’uomo dalla religione e i nuovi sacerdoti, che egli voleva abolire, hanno posto nuovi e pesanti gioghi sugli uomini e hanno utilizzato il suo messaggio come strumento di potere. Così mentre Gesù ci mostra il vero volto di Dio, quello dell’amore e ci chiede solamente di imitare Dio nell’amore, per rendere piena la vita di tutti, noi invece per secoli abbiamo creduto a un Dio che impone le sue leggi e giudica severamente. E ancor oggi fatichiamo a liberarci di quest’idea distorta, ma funzionale agli scopi terreni di molti.
Intanto è arrivato il mio turno. Il casellante non mi guarda neppure ma almeno mi saluta. Buona serata anche a te.
E via di nuovo verso casa.
[continua]

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