domenica 27 novembre 2011

LA BARBA DEL RE


C’era una volta un paese felice, governato da un re saggio. Tutti lodavano la sua saggezza e il figlioletto di questi sentendo ciò chiese a suo padre come dovesse fare per divenire anche lui, da grande, un re saggio.
Il re, commosso per i nobili propositi del bimbo gli rispose “Non preoccuparti figliolo, a quanto vedo non sarà difficile per te divenire saggio, vedrai, quando ti crescerà la barba anche la saggezza crescerà con essa”.
Il re purtroppo morì presto e il principe divenne re, ancora molto giovane. Aveva già capito che suo padre intendeva dire che la saggezza sarebbe cresciuta in lui con l’età, ma quelle parole gli restarono così care, che decise di non tagliarsi la barba.
Il nuovo re si sforzò in ogni modo, nonostante la giovane età di comportarsi saggiamente e ci riuscì molto bene, tanto che il regno fiorì come non mai e tutti si affezionarono molto a lui.
Passarono gli anni e il re divenne vecchio, molto vecchio, così vecchio che nessuno nel regno era più anziano di lui. La sua barba crebbe lunghissima, divenne bianca e crebbe ancora, fino ad arrivare al terzo gradino del trono.
Un giorno però anche il vecchio re saggio morì e la barba gli cadde al momento del suo ultimo respiro e rotolò giù dal trono circondandolo in un cerchio.
Il re aveva badato solo a curare il suo regno e non aveva moglie né figli, così non vi era nessuno che potesse vantare il diritto a succedergli.
Nacquero grosse liti per ereditare il regno tra i nobili, ma presto nessuno aspirò più al trono. Infatti ogni qualvolta un candidato riusciva ad imporsi e cercava di insediarsi sul trono, appena oltrepassava la barba moriva. Allo stesso modo chi cercava di spostare la barba restava fulminato sul posto.
Il regno senza una guida fu presto in preda al caos. I potenti e i prepotenti oppressero il popolo, ma ben presto la miseria crebbe a tal punto che il popolo si ribellò e scacciò tutti i signori e distrusse le loro proprietà e nel paese restarono solo disordine e miseria, paura e fame, tanto che nessuno dei regni vicini cercò di impossessarsi del paese.
Un giorno un cantastorie giunse nel paese e vedendo la grande miseria chiese il perché di quello stato di cose. Scoperta la situazione volle andare a visitare la sala del trono, dove molte persone sostavano pensose e guardavano con rabbia la barba del vecchio re.
Il cantastorie ispirato, compose una canzone sulla storia del re, della sua barba e del suo paese. Così bella e struggente era la musica e così intense le parole con cui il cantastorie descriveva la loro situazione, che tutte le persone presenti scoppiarono a piangere e tanto piansero che il pavimento si bagnò e quando le lacrime raggiunsero la barba questa si sciolse.
Ci fu un grande fermento, ma nessuno ancora osava superare la linea immaginaria dove prima stava la barba e così chiesero al cantastorie di provare a sedersi lui sul trono. Questi non ci pensò su due volte, sedette sul trono e fu proclamato re dal popolo festante.
Divenuto re restituì ordine e prosperità al paese, ma non prima di essersi sposato ed avere assicurato una discendenza alla sua corona.

domenica 20 novembre 2011

LA LUCE NEGLI OCCHI


Sparivano subito, tra la polvere e le crepe della terra riarsa, le grosse gocce che cadevano dal corpo infuocato dell’uomo. Quando la Rupe mise fino al supplizio dei raggi affilati del sole a spaccargli la testa era ormai completamente senza forze. Si chiedeva se davvero fosse lui a sollevare e trasportare i grossi sassi o non piuttosto il contrario. L’aria sottile e povera di ossigeno si fece velocemente sempre più gelida. Il sole era tramontato e i suoi compagni più sotto lo chiamavano mentre si mettevano in marcia verso il villaggio. Come al solito, pensò, ora avrebbe finalmente raccolto il fazzoletto che aveva contenuto il suo unico magro pasto, avrebbe iniziato lentamente e faticosamente a scendere giù dai campi alti lungo il ripido pendio insieme ai suoi pochi compagni. Il cervello annebbiato, pietosamente, non avrebbe captato appieno le precise sensazioni di ogni nervo: il suo corpo era dolore. Tutt’intorno pietre.
Poi entrando nel consunto villaggio avrebbe incrociato gli occhi tristi dei bambini affamati e le membra cadenti di corpi precocemente invecchiati che, come lui, si trascinavano verso i miseri tuguri dopo una giornata di lotta sisifica contro la natura crudele di quella terra maledetta.
Giunto davanti alla sua casupola di pietra avrebbe piegato la bocca in una smorfia nel tentativo di rispondere al triste sorrise di lei. Non era mai stata una bella ragazza, anzi, non era mai stata propriamente una ragazza, come nessuna della sua gente. L’uomo stesso, vecchio già quasi prima di essere adulto , non era conscio di ciò, attratto com’era morbosamente da quella ragazza, di cui persino gli occhi, parevano vivi.
Anche quella sera adagiato vicino al fuoco, con la ciotola non meno vuota dello stomaco, ma meno raggrinzita, avrebbe cercato di non respirare nemmeno, per non sollecitare i muscoli ardenti. Ma quando la pressione dei suoi seni lo avesse scosso si sarebbe subito mosso a cercare le sue labbra. Mentre le due bocche si stavano schiudendo nella sua mente un boato e un tremito del suolo lo costrinsero a tornare alla realtà.
Un’enorme massa nera scendeva con rabbia dalla Rupe sui campi alti, percuotendo la valle come un tamburo. Lui restò impietrito a guardare l'enorme frana che si abbassava a ingoiarlo. Spentosi l’eco e le ultime vibrazioni tutto restò immobile e muto per un tempo indefinito. I compagni salirono sulla frana e si guardarono intorno. Poi scesero al villaggio.
Tutto il villaggio immobile fissava il silenzio, mentre la polvere lentamente ricadeva su di loro.
La ragazza li vide arrivare e cercò la sua sagoma. Loro la videro e scossero la testa. Le altre donne le si fecero incontro e l'abbracciarono.
Lei chiuse gli occhi e respirò. Respirò a lungo. Contemplò la Rupe poi rientrò in silenzio nella sua capanna, ma senza più luce negli occhi.

domenica 13 novembre 2011

CONDANNA ETERNA


Mentre guardava il volto del figlio la madre ripensò a quella notte di 18 anni prima in cui l’aveva visto bagnato e urlante affrontare la vita.
La vita a cui lei lo aveva portato, quella stessa vita che ora l’aveva abbandonato.
Ripensò al momento in cui si era resa conto di essere incinta, alla sorpresa e alla gioia profonda. Era giovane appena sposata, non aveva ancora percepito in modo chiaro la sua vocazione di madre, ma in quel momento l’aveva scoperta con una forza enorme e inaspettata.
Ripercorse quei nove mesi, appena disturbati da qualche nausea, dall’impaccio nei movimenti e dagli altri piccoli classici disagi, ma illuminati dalla speranza, dalla gioia di sentire una creatura viva dentro di sé. Ricordò con piacere anche l’affetto del marito, che le carezzava il ventre delicatamente e la copriva di mille attenzioni, ancor più di quanto già prima non facesse.
Il bimbo era poi nato sano ed era cresciuto, regalando innumerevoli soddisfazioni ai genitori. Nonostante le notti insonni, le ansie per le malattie e tutte le classiche preoccupazioni che danno i bimbi, la madre avrebbe rivissuto volentieri tutto questo. Ma se tutto era andato bene, fino al momento del parto, proprio come lei si era immaginata, il distacco della placenta aveva cambiato il corso degli eventi: emorragia, intervento di urgenza, preclusione totale e definitiva ad altre gravidanze. Questo aveva probabilmente acuito il legame della madre con quel suo primo e, per forza di cose, unico figlio.
Poi era giunto il secondo colpo del destino. Il figlio aveva 11 anni, e frequentava da pochi mesi la prima media. La madre lavorava come ragioniera in un grosso studio medico. Avevano una bella bifamiliare in periferia. Tutto insomma andava per il meglio. Anche il marito era soddisfatto della sua famiglia, del suo lavoro, della sua vita.
Guidava con prudenza, come suo solito, tornando dal lavoro, un po’ più tardi per via di quella noiosa riunione. Nell’altra corsia l’autista del furgone non ebbe tempo di reagire alla fitta di dolore che gli bruciò nel petto. Così finì per spegnere il dolore, insieme alla sua vita, contro la vita del marito in un terribile scontro frontale.
Il colpo fu durissimo. La madre cercò di farsi forza per il bene del figlio.
Questi da parte sua iniziò ad essere aggressivo con i compagni e indisciplinato con gli insegnanti, come non era mai stato prima. Da principio tutti cercarono di essere comprensivi dato il difficile momento del ragazzo.
Fino a quella sera in cui la madre fu chiamata in questura, dove suo figlio veniva interrogato insieme ad altri ragazzini della sua età, o poco più grandi, in merito ad alcuni vandalismi che da qualche tempo si ripetevano nel quartiere.
Il figlio la passò liscia in quell’occasione, ma fu chiaro a tutti che il ragazzo stava prendendo una brutta piega e frequentava compagnie poco edificanti.
A nulla servì passare alle maniere forti, il figlio ormai era divenuto quello che si definisce un ragazzo difficile. A scuola riusciva ad avere un profitto sufficiente, grazie alla sua vivace intelligenza e non certo all’impegno profuso.
All’ultimo anno delle superiori il figlio si era messo insieme ad una ragazzina molto carina, ma ancor più irrequieta.
Veniva da una famiglia completamente dissestata: il padre era fuggito e aveva tagliato ogni rapporto, un fratello maggiore era in carcere, un altro era eroinomane in trattamento, i fratelli e le sorelle più piccole era seguiti da un assistente sociale.
L’assistente sociale, diversamente da ciò che purtroppo sovente accade, cercava di migliorare la situazione nella casa per non separare i piccoli da quel resto di famiglia, che in qualche modo riusciva ancora a tirare avanti.
Un giorno la madre si ritrovò la ragazzina, appena maggiorenne, in casa e visto che l’eroica madre di lei si dichiarò favorevole alla cosa, accettò di tenersela in casa, anzi le assegnò una camera, cosa che però non servì a non farla dormire nel letto del figlio, come la madre aveva sperato.
La madre sapeva che accettare l’incomoda situazione era l’unico modo per non perdere i contatti con il figlio e poterlo così almeno un po’ controllare e aiutare.
Dopo alcuni mesi la madre incominciò ad avere dei sospetti e in breve scoprì che l’eroina era ormai padrona dei due ragazzi.
Si infuriò parlò con medici e operatori di comunità terapeutiche, ma nonostante tutto tenne i ragazzi in casa, in attesa di trovare un posto in cui mandarli per la disintossicazione. Cosa che peraltro i ragazzi rifiutarono categoricamente.
Erano passate solo un paio di settimane e quella sera rientrando a casa aveva trovato la porta aperta, era corsa dentro e aveva trovato il figlio riverso in una pozza di sangue e la sua ragazza distesa per terra poco più in là coperta di lividi.
Mentre la madre teneva la testa del figlio morto ripensando a tutte queste cose, sentiva la sua stessa vita sfiorire, perdere di senso.
Dovette invece riprendere subito il coraggio in mano per assistere la ragazza, rimasto ormai sola.
Lei era stata picchiata selvaggiamente, ma si sarebbe ripresa nel giro di qualche mese, giusto in tempo per raccontare alla sua nuova madre tutta la storia prima di morire di overdose.
Per procurarsi i soldi per la droga aveva deciso di prostituirsi e il figlio aveva assunto il ruolo di protettore.
E questo aveva fatto: aveva protetto la sua donna, quando il protettore che controllava il viale su cui la ragazza si era appostata, l’aveva aggredita.
Aveva colpito duro con la catena di ferro e il protettore era rimasto morto là sull’asfalto.
I ragazzi erano subito fuggiti. Purtroppo per loro quello non era un qualsiasi lestofante, era il figlio del boss della zona.
Rapide ricerche nel mondo dei tossici e i sicari del boss aveva raggiunto il ragazzo e l’avevano giustiziato.
Mentre la madre piangeva di nuovo su un cadavere, questa volta quella della ragazzina, cui s’era suo malgrado affezionata, giunse la visita di Lucifero.
Il Diavolo si presentò senza tanti preamboli e le mostrò il figlio che bruciava nell’inferno:
se vuoi può salvarlo, perché io godo dell’ingiustizia. Se dunque tu che sei una persona retta mi darai la tua anima in cambio io libererò la sua, che si era ben meritato l’inferno.
La madre non dovette pensare a lungo per trovare una risposta al problema prospettatogli dal demonio.
Lei amava il figlio più di se stessa e non poteva esserci per lei gioia nell’aldilà sapendo che il figlio era nei supplizi eterni, viceversa il pensiero della salvezza del figlio poteva essere un conforto anche nei tormenti dell’inferno. Così la madre accettò il patto diabolico.
La sera stessa Satana, le portò un abito adatto e l’accompagnò ad un club. Cenarono insieme. Poi il Diavolo le presentò il proprietario del locale, il boss che aveva sentenziato la morte del figlio, e dopo aver parlottato con lui se ne andò.
La madre era decisamente una bella donna e nonostante i grandi dispiaceri degli ultimi mesi dimostrava ancora qualche anno in meno.
La madre fu accompagnata dal boss in una camera e qui vendette il suo corpo prima a lui, poi in rapida successione a diversi altri uomini.
Quando lasciò il club con il compenso della nottata era decisa a non mettere mai più piedi lì dentro, umiliata, spossata e dolorante come era nel corpo e ancor più nello spirito.
Il Diavolo però l’attendeva fuori dal locale, la riaccompagnò a casa, le ricordò il patto e le diede appuntamento per la sera dopo. La madre restò quasi un’ora sotto la doccia, poi crollò sul letto e dormì un sonno pieno di incubi angoscianti. Quando la sveglia suonò il mattino dopo scoppiò in lacrime. Telefonò all’ambulatorio e si diede malata.
Dopo un paio di notti di lavoro al club, notti che la madre sopportò solo pensando ai tormenti del figlio nell’inferno, tormenti cui lei stessa doveva abituarsi e quello era un magnifico viatico, dopo queste due notti il boss le annunciò che i clienti del club gradivano vedere ragazze sempre nuove e la affidò a un protettore perché la portasse sulla strada.
Questi, un uomo enorme e orribile, la fece montare in macchina e si abbassò i pantaloni.
Se non sai come si fa ti spiego io - la canzonò poiché esitava.
Avanti - le sussurrò all’orecchio Satana, impedendole di fuggire.
Trattenendo i conati di vomito la madre fece quello che le era richiesto. Quindi fu costretta a portare il protettore a casa sua. Il protettore pretese una copia della chiavi di casa quindi le spiegò le tariffe e la portò sulla strada.
Io sono l’unico che può aiutarti qui fuori, ma attenta se ti metti contro di me nessuno potrà aiutarti – la minacciò prima di eclissarsi.
In strada faceva freddo, le macchine rallentavano, occhi avidi si posavano su di lei e poi, per lo più, con suo grande sollievo proseguivano. Alcune colleghe vicine attiravano i clienti , mostrando le parti intime e promettendo prestazioni di tutti i generi. Quella notte ebbe quattro clienti.
La mattina dopo, la madre andò a licenziarsi. Negli occhi di tutti i suoi ex colleghi un misto di pena, curiosità e di orrore, perché era evidente che qualcosa di terribile le stava accadendo.
Il Diavolo che invisibile e silenzioso seguiva la donna tenne tutti immobili e nessuno osò pronunciare parola, né avvicinarsi alla madre.
La madre piangeva tutto il giorno, tormentata dalla voce del Maligno che le ripeteva anche durante il sonno: la tua anima è mia. Poi la sera andava al suo nuovo lavoro, che la disgustava ogni volta come la precedente.
Una sera un cliente chiese un servizio che nessuno ancora le aveva chiesto e lei rifiutò.
Lì vicino però c’era una della favorite del protettore, che sentì tutto. Così la sera dopo il protettore si appartò con lei e dopo averla picchiata per bene la obbligò, con molta brutalità, a ciò che il cliente della sera prima le aveva richiesto. Quindi prima di riportarla sulla strada, la informò che quella notte tutto il ricavato lo avrebbe trattenuto lui, come risarcimento e ammenda per la sera prima. Ma le cose dovevano andare diversamente.
Il primo cliente che si fermò era molto nervoso.
Sali - le disse. 100 mila - cominciò lei.
Sì, sì, sali adesso - la interruppe lui. Lei salì.
Lui si inoltrò con la macchina nelle stradine che portavano nel fitto della boscaglia. Fermò la macchina.
Spogliati - le disse.
Lei obbedì. Quando fu completamente nuda, l’uomo le chiese di scendere dalla macchina.
Lei lo fece e lui la seguì. Lei stava in piedi, nuda, guardando nel vuoto, dietro al corpo dell’uomo che le stava di fronte.
Girati - fu il nuovo ordine del cliente.
Rabbrividendo un attimo per il freddo si girò rassegnata a subire qualsiasi cosa volesse farle.
Non si aspettava però di sentire il lampo di dolore che le travolse la mente nell’istante in cui la lama del coltello le squarciava il collo. La bocca le si riempì di sangue, gli occhi si offuscarono e intravide il ghigno feroce e rabbioso del demonio davanti a sé mentre chiudeva per l’ultima volta gli occhi.
Un attimo dopo si sentì meglio.
L’aria era profumata e vi era come una soffusa melodia.
Aprì gli occhi: tutt’intorno vi era luce.
Poi vide il figlio e la sua ragazza.
Ciao mamma.
Ciao.
La madre non riuscì a rispondere ai saluti, si commosse, abbracciò il figlio e accarezzò anche lei.
Stavano bene, sorridevano.
La madre lanciò uno sguardo interrogativo al figlio.
Sì, mamma questo è il paradiso.
La madre sorrise e interrogò ancora silenziosamente il figlio.
Non esiste l’inferno, mamma. Il demonio ha potere solo sulla terra, ma poi tutte le anime arrivano qui, perché Dio ci ama.
Una lacrima di felicità solcò il volto della madre. Poi il pensiero tornò per un istante sulle sue pene recenti:
Perché allora, se Dio ci ama, ha dato la Terra in potere a Satana?.
Vieni e capirai– la prese per mano e lo stesso fece la ragazza.
Un istante dopo la madre vide il volto di Dio e capì e gioì e gioì e gioì ...

domenica 6 novembre 2011

PRIMITIVI


E quelli strani copricapi che hanno tutti – esclamò Zagor.
Non sono copricapi, sono peli – ribatté subito la sinto-voce guida.
Peli? – sibilò decisamente disgustata Puiny.
Ma non sono uomini? – chiese severo Zagor, voltandosi verso il centro della stanza.
Lì subito si materializzò l’ologramma sorridente della Guida, in forma di androide asessuato:
Uomini, sì, sono uomini, ma di quasi 1.000 anni fa. A quel tempo gli uomini avevano ancora alcune zone del corpo coperte di pelo e in particolare i peli della testa, che venivano chiamati capelli, erano considerati una parte molto piacevole del corpo e venivano lasciati crescere e acconciati in vari modi.
Puiny rideva divertita, mentre Zagor scuoteva la testa glabra ancor un po’ incredulo mentre gli ologrammi che passavano per la stanza mostravano vari uomini e donne con capigliature varie.
A un tratto nella folla ricreata dal sinto-gramma da vecchi filmati digitali del museo centrale comparve una donna con un enorme pancione che si muoveva goffamente.
Che cos’ha quella donna? - chiese subito Zagor.
Immediatamente gli ologramma ambientali si dissolsero e ricomparve semplicemente l’immagine della donna, questa volta finalmente senza quei buffi vestiti, a cui si affiancò l’immagine di un uomo, anch’egli, come era logico in un ambiente chiuso, nudo.
La sinto-voce iniziò con calma la spiegazione mentre gli ologrammi mostravano praticamente, con l’ausilio di spaccati anatomici animati, quanto la voce guida andava rivelando agli stupefatti bambini:
Un tempo gli uomini si riproducevano proprio come gli animali, accoppiandosi tra di loro l’uomo immetteva delle speciali cellule chiamati spermatozoi nel corpo della donna, dove si trovavano altre cellule particolari dette ovuli. Dall’incontro di queste cellule, chiamato fecondazione, aveva origine un embrione, che cresceva nel corpo della donna in una cavità chiamata utero, nutrendosi attraverso una struttura particolare chiamata placenta dal sangue della donna e dopo nove mesi fuoriusciva un bambino quasi perfettamente formato.
Zagor e Puiny guardavano le animazioni oleografiche sempre più allibiti.
In realtà ancor oggi gli uomini e le donne producono spermatozoi e ovuli, ma naturalmente non avviene più la fecondazione.
E perché?
Perché come vedi Puiny gli uomini e le donne da quei tempi sono cambiati, non hanno più peli
Meno male – ridacchiarono insieme i bimbi.
Sono più alti e più magri e le loro cellule riproduttive non funzionano più. In effetti fino al 19° secolo la riproduzione umana procedeva per via naturale come per gli animali. Poi verso la fine del 20° secolo la fertilità cominciò a diminuire e si iniziarono alcune tecniche dette di fertilizzazione assistita, sempre basate sull’utilizzo di spermatozoi e ovuli prodotti naturalmente. Nel corso del 21° secolo tali tecniche divennero quasi obbligatorie, ma già si sperimentava la riproduzione per clonazione, anche se questa inizialmente era osteggiata per motivi morali. Nel 22° secolo però visto il definitivo declino della fertilità delle cellule sessuali, la clonazione divenne l’unico sistema riproduttivo possibile. Si svilupparono così la clonazione incrociata con il prelievo di geni da cellule staminali di due differenti individui e le incubatrici artificiali. In seguito nel 23° secolo si rese possibile ripristinare la fertilità naturale, ma i vantaggi in termini di selezione del patrimonio genetico e di diminuzione dei rischi per l’embrione e per la madre, risultarono talmente forti da convincere la comunità scientifica a bandire la fecondazione naturale per la razza umana e si abbandonò quindi il progetto di ripristino della fertilità naturale.
I bambini cominciavano leggermente ad annoiarsi per il discorso eccessivamente tecnico. I recettori video-ormonali della stanza registrarono la cosa e girarono l’informazione alla Guida, che subito, ripristinò gli ologrammi della folla del 21 secolo.
Zagor sorrisse:
E quelle strane macchine? – disse notando per la prima volta un’automobile che si fermava per far scendere alcuni passeggeri.
La Guida, essendo un cervello bio-elettronico, non sorrise, ma lo avrebbe fatto se fosse stato un essere umano perché l’evoluzione dei trasporti era proprio l’argomento previsto, dal programma di apprendimento, annotò però anche di parlare dell’origine della specie umana e immaginando le reazione schifate dei bimbi, di nuovo nelle sue sinapsi passarono dei messaggi di autocompiacimento.