domenica 25 marzo 2012

BUONA NOTTE MAMMA


(CORTOMETRAGGIO)

Personaggi:
Carlo: 12-13 anni, ragazzino magro, castano faccia affilata, occhi inquieti.
Mara: sui 30 anni, corporatura media, biondo-castana, camicia da notte azzurra.
Marito: sui 35, corporatura massiccia, moro, braghe del pigiama marroncine, torso nudo.
Ragazzo: sui 20 anni, biondo, alto e magro.
Ragazza: sui 20 anni, bruna, 1,65-1,70
Ragazzini: tipo anonimi, idem passanti.

Sigla di testa: titoli bianchi su sfondo viola.
Musica: colpi di tamburo cui risponde una chitarra elettrica con brevi note. Sull’ultimo titolo: “Buonanotte mamma” Rullo di batteria con basso e organo e colpo finale di grancassa e piatto.

La musica tace e partono le immagini in dissolvenza luminosa.

Primo piano - Mara:
- Ma mi raccomando eh!
L’inquadratura si allarga. Mara è seduta in fondo a un letto su cui è coricato Carlo, appoggiato alla testata con le mani incrociate dietro alla nuca e lo sguardo assente.
- Ricordati
- Sì certo, sta tranquilla
La donna si alza, arruffa la testa del ragazzo:
- va bene, buonanotte
- buonanotte, mamma.
Lei sorride, si volta ed esce dalla porta aperta, spegne la luce, fuori della stanza è accesa, la porta si chiude resta il buio. Dopo un secondo e mezzo, sempre nel buio parte il ticchettio di una sveglia per 3 secondi, suona per altri 3. La porta si riapre entra la luce, poi la madre che accende la luce:
- sveglia, Carlo, sveglia, sono le 7.
L’inquadratura segue la donna che va alla porta finestra e apre i rotolanti, entra la luce naturale. La madre esce. Nel letto affiorano dalle lenzuola i capelli del ragazzo.
Fotogramma fisso per alcuni secondi. Sonoro: il battito di un cuore.
Rientra la madre (battito cessa):
- dai Carlo, che fai, muoviti!
Stacco - L’inquadratura passa alle spalle della donna che scopre Carlo.
Stacco – La donna è inquadrata di fronte, gira il ragazzo, l’inquadratura si centra sul ragazzo è terreo, attorno alle mani sangue, una lametta, i polsi tagliati.
Si sente l’urlo della donna L’inquadratura si allarga, Mara barcolla indietreggia fino ad appoggiarsi al muro allucinata.
Stacco- dall’atrio di un palazzo escono un ragazzo con una carrozzina vuota e una ragazza con un bambino di pochi mesi in braccio che sbaciucchia. Scesi i gradini si fermano, la ragazza depone il bambino sulla carrozzina. I due sorridono e abbracciati si muovo lungo il muro del palazzo spingendo la carrozzina.
Stacco - Inquadrata dalla porta-finestra, Mara si stacca dal muro, esce in terrazza, scavalca la ringhiera.
Stacco – Inquadratura del palazzo da lontano, con il corpo che cade dall’alto.
Stacco – Inquadratura sulla famigliola con carrozzina su cui piomba il corpo della donna, schiacciandola.
Stacco – Inquadratura delle espressioni felici – stupite – disperate dei ragazzi. Lei sviene. Lui si piega su di lei e si accascia sopra.
Stacco – Il padre esce da una stanza nel corridoio dicendo agitato:
- che succede?
Entra nella stanza del ragazzo si ferma:
si copre il viso, mormora:
- no, no
urla:
- Mara, Mara.
Esce in terrazza, guarda giù, un lamento:
- no
Con un pugno sfonda il vetro rientra nella camera, la mano sanguina. Scaglia una sedia contro il lampadario. Corre in camera sua inseguito dalla telecamera (sonoro: Several species of small furry animals gathered togheter in a cave and grooving with a pict [Pink Floyd – Ummagumma]).
Rovescia un tavolino, estrae completamente il cassetto del comò e lo getta per terra. Raccoglie da terra una pistola. Esce dall’appartamento e scende le scale del palazzo.
La camera inquadra le scale vuote, poi va in primo piano su una lampada accesa. La musica sfuma
Dissolvenza luminosa. Stacco.
Persone attorno alla carrozzina. Soccorrono i ragazzi. Un ragazzino corre trascinandosi dietro per mano una ragazzina che sembra tirare un po’ indietro.
Dal portone esce il padre, spara sui due, che cadono.
Il padre avanza verso il gruppo attorno alla carrozzina, spara ancora, un uomo cade, gli altri fuggono. I ragazzi alzano la testa su di lui. Si guardano. Lui guarda loro e il cadavere della moglie e del bimbo. Fredda i due ragazzi, poi si inginocchia, punta la pistola alla testa e spara cadendo sopra il cadavere della moglie.
Stacco.
Campo lungo - Una macchina bianca, sporca e ammaccata, tipo Opel Kadett entra in una discarica tipo quella prima di Masarè di Alleghe [come era all'inizio degli anno '80]. Dopo una breve corsa si ferma. Esce un uomo sui 40 vestito con calzoni di velluto e camicia di lana a scacchi, apre il cofano e butta fuori 2 sacchi di spazzatura formato albergo.
Primo piano dei sacchi, il rumore della macchina che si riaccende, riparte e si allontana. Quando cessa il rumore l’inquadratura si riallarga, parte un arpeggio di chitarra molto dolce (On the way to Abamöe [Faust – The Faust Tapes]). L’inquadratura si alza sempre di più fino a diventare aerea. Note d’organo sopra la chitarra. Dissolvenza e musica a sfumare sui titoli di coda bianchi su sfondo nero.

domenica 18 marzo 2012

COME UN MARE SENZA VENTO


Il mio sonno è privo di sogni come il mio giorno.
Me ne stavo seduto sul water nei minuti a cavallo delle 23 e guardavo, attraverso le lenti scure degli occhiali da sole, gli asciugamani appesi scomposti alla sbarra sulla parete di fronte. E pensavo: devo scrivere un libro su questo, ma a chi può interessare un libro del genere? Raggiunsi il lavandino.
La mia faccia nello specchio mi appariva strana. Per la fioca luce della plafoniera le lenti risultavano nere, cosicché il mio viso - io che guardavo nello specchio - mancava dello sguardo verso lo specchio. Il che avrebbe potuto farmi dubitare che lo specchio riflettesse proprio me, perché io sapevo di guardarlo, ma lì non mi vedevo guardare.
Prima di lavarmi i denti, ma in realtà non per questo, accesi il neon sopra lo specchio. Apparvero spettrali i globi bianchi con l’iride nera e i contorni delle ciglia. Tutt’intorno c’era tutta la mia stanchezza. Infatti non trovai la forza per accendere il computer e cominciare a scrivere il libro.
L’altra sera, sopra un altro water, senza asciugamani di fronte e senza occhiali ripensavo a quello che volevo scrivere.

Ora ascolto le frasi sconnesse di mia moglie, che mi parla in quel suo strano dormiveglia, in cui sogno e coscienza si susseguono rapidissimi confondendosi tra loro. Poi mi tocca la faccia domandandomi che pezzo del mio corpo stia toccando. Si risponde da sola. Ormai so perfettamente che non scriverò mai quel libro. Ma non riesco a deporre la penna.

Stasera, dove ematomi ed escoriazioni non segnano il mio corpo, il dolore dei muscoli mi tormenta al minimo movimento.
Le foglie verdi e l’odore dei muschi, feriti da affilati raggi di sole, i canti degli uccelli, il tepore bavoso della bruma, le cortecce nodose mi girano nella mente mentre inseguo e scaccio l’improvviso silenzio, il lento dilaniare dello squarcio fulminante, l’urlo profondo della battaglia.
Eppure entrambe sono invenzioni. Non la neve turbinante sulla cresta, l’ululato del vento e il silenzio, buono, tra noi.

Esco dalla questura. Per fortuna si sono accorti presto dell’errore.
Ma devo subito rientrare: ho dimenticato dentro mio figlio! Come ho fatto? Me lo ridaranno o mi accuseranno di abbandono di minore?
Sono di nuovo fuori con il bimbo in braccio. Mi viene da ridere: devo rientrare!
La borsa di plastica, che non so cosa contenga, è rimasta dentro, in questura.
Lascio il bambino a mia moglie. Rientro e sono già fuori con la sportina bianca semivuota.
Ci allontaniamo camminando fianco a fianco, nostro figlio in braccio. Lui è piccolo, non cammina ancora. Scendiamo la via lungo i muri posteriori della Gabelli, la mia scuola elementare, sotto gli alberi dai semi alati, che non cadono mulinando.
Tutto è immobile. La strada è deserta, nessuna macchina, nessun pedone. Solo noi, camminanti. Probabilmente felici o assenti.
Improvvisamente sono solo.
Le bretelle rosse tengono su i lisi blue-jeans celestini, ma la camicia esce raggrumata sul davanti. Scendo correndo, rimbalzando leggero sulle scarpe da ginnastica bianche, fino all’incrocio con il Piazzale della Stazione.
Due ragazze vestite con pesanti cappotti mi superano correndo verso la biglietteria delle corriere. Devono rientrare a scuola.
Io no. E non deve sembrare. Così rallento e cammino. Ma recito solo per me.
Faccio la faccia dura passando tra i ragazzi del liceo, che occhieggiano tra loro fuori dal cancello della scuola. Si spostano per farmi passare.
In fondo a via Cavour la musica di “Ritorno al nulla” mi giunge dal lato opposto della strada. E’ sempre bello sentire le Orme, ancor più se inaspettate. Mi chiedo da dove giunga la musica. Un ragazzo nella sua camera con la finestra aperta? No, deve essere la radio dell’officina, di cui scorgo solo la bocca, buia e aperta.
Giungo ad una porta, senza accorgermi che non dovrebbe esistere, lì in mezzo al marciapiede. L’entrata è un vetro liscio e a specchio - ma riflette solo luce tenue - senza maniglie. Lo spingo con entrambe le braccia. Cede a sinistra, entro.
Cortine fitte di tende riempiono lo spazio. Le scosto fino all’altro lato. Un altro vetro liscio e opaco. Premo direttamente a sinistra ed esco di nuovo sulla strada di casa.
Ma sono subito riassorbito indietro nel tempo: di nuovo dentro la porta. Le cortine si sono tramutate in nebbia fitta, densa come bave di seta di un baco impazzito, da cui esco chiedendomi che significhi questo sogno, ma il sonno subito mi riavvolge, trasportandomi in altri paesaggi irreali, persi per sempre.

Oggi il ragazzo magro, sempre vestito di nero, non era con il solito amico alto, magro e anche lui, e anche lui sempre, con il cellulare nella tasca posteriore dei calzoni o accanto al vassoio del pranzo.
Il ragazzo con i suoi capelli corti corti e quasi rossi e il pizzetto corto ha mangiato soltanto una braciola. Non l’ho visto arrivare, ma nel vassoio non c’erano altri piatti.
Di fronte a lui, con la camicia lunga che spuntava dal maglione a coprire la vita, lei appoggiava i gomiti sul tavolo senza nulla da bere né da mangiare. Non l’avevo mai vista.
Sedeva composta, ma protesa verso di lui. Il leggero rossore delle guance, del naso e delle palpebre è un piedistallo per il ponte del suo sguardo verso di lui.
Io guardavo i colleghi in trasparenza e ascoltavo brandelli dei loro discorsi, discorsi importanti, concentrato sulla coppia. Lei atteggia le labbra ad un bacio, lui risponde ugualmente. Discorrono. Non cerco nemmeno di immaginare di che cosa, non ha importanza.
La scena è banale, eppure è un magnete irresistibile per il mio spirito. Non c’è foga nelle loro labbra. Non vedo gli occhi di lui. Ma quelli di lei sì: lei lo ama.
Immagino la loro calma come il riflesso abbacinante del sole sopra il mare in bonaccia. Dovrei ascoltare il direttore, ma non so lasciare queste immagini nitide, ricamabili a piacere. Se ne vanno.

Credo che fino ai vent’anni sarei salito con entusiasmo su un aereo.
Avrei volato nell’aria tersa incontro al sole saltando da una corrente all’altra con leggeri colpi di ala o avrei guidato io stesso l’aereo, piegandomi a salutare le cime dei monti o sarei sceso con il paracadute in mezzo alle nubi attendendo il brivido nello scoprirmi sopra l’oceano. E l’avrei fatto davvero, con l’occasione.
Invece, passati i trent’anni, una strana consapevolezza è entrata in me. Il volo mi è estraneo e ancor più l’aereo. Una trappola di acciaio sospesa nel vuoto. Mi è familiare come un parente lontano, visto solo nelle vecchie foto della nonna, con cui non vorrei restare solo, perché so chi è, ma non lo conosco. E di che cosa dovremmo parlare?
Eppure mi tocca volare e non mi ci abituerò mai. L’Asia scorre indifferente sotto di noi.

Non so decidermi, se immaginarla bella o no, la figlia di questo mestrino, che nell’autobus per Piazzale Roma racconta la sua storia a una conoscente.
I culi di gallina nel cuscus: che dettaglio insignificante!
Così il marito è un magrebino, per questo lei è reclusa in casa e privata di ogni potestà. Potrà amarlo per tutta la vita? La domanda di tuo padre potrebbe essere la chiave della tua liberazione o chiuderti in un inferno terreno.
Forse nemmeno lui è bello.
La laguna è triste e le acque battute dalla pioggia sembrano piangere la sorte di una figlia della Serenissima prigioniera del turco.
Venezia! Dove i miei genitori hanno trascorso la luna di miele. E io passo, lavoro, respiro il suo fascino, così vicino e lontano da me.
Mi sento vecchio e scrostato come lei, quando il cielo è così grigio e il vento soffia dai monti portandomi inconsci ricordi di infanzia e il profumo dell’amore. Che diviene un tutt’uno con me.
Stasera ho mangiato cuscus.

La luce timida e ingannevole dell’aurora e il suo silenzio mi fanno sentire vivo. Nonostante l’acqua alta sono puntuale in ufficio. A volte la puntualità è un difetto, ma non potevo vincerlo da solo, anche se già ho imparato a dominarmi.

Oggi è un giorno di festa, ma non per tutti.
Ivo stava seduto al banco, cadaverico, con la sigaretta tra le labbra. Francesco arrivava e, urlando, come suo solito, gli diceva: ciao Ivo, ti vedo in forma. E Ivo rispondeva con una sequela di bestemmie.
Ivo una volta si era iniettato della grappa, pensando di farsi una balla ed evitare i conati dello stomaco. Invece era stato male per giorni interi, così almeno racconta Francesco. E sarebbe da non credergli, se non si trattasse di Ivo.
Ora, dopo l’incidente, Ivo muove a stento le dita della mano e non vuole vedere nessuno, nemmeno Francesco.
Gustavo invece è perso di fronte a un futuro che non sa costruire né rifiutare. Nessuno incrocia più il suo sguardo, se non stendendosi a terra, e il suo capo chino sembra gravato da una disperazione madida di sudore, gonfia e pesante come un cadavere restituito dopo 8 giorni dalla piena del fiume.
Senza più i suoi migliori amici, nemmeno la risata di Francesco è più come prima.
Ma oggi è un giorno di festa e io sono felice. Così ho parlato con Dio. Non che mi abbia risposto, non lo fa mai ...

Stamane ero pervaso da una strana eccitazione immotivata. Così ho guidato piano per un po’ per non ritrovarmi mio malgrado ad andare più velocemente del solito.
Come tante altre volte, non so dire con certezza se il cielo in pianura fosse grigio o se ci fosse il sole.
Ricordo invece esattamente dove iniziava la nebbia. Era una nebbia leggera, non fastidiosa. Questa nebbia è come una febbre, altera la percezione delle cose, ma l’ambiente resta sostanzialmente intatto.
La nebbia fitta, ancor più di notte, è invece come un incubo: spazio e tempo sono stravolti, ogni riferimento familiare è perso, luci e ombre si rincorrono vorticosamente. Nulla sembra esistere più stabilmente, ma materializzarsi di getto, come una trappola per la tua auto.
Questa nebbia è come la mia anima.

Oggi la gente si increspa tra gli scaffali. Gli occhi si accalcano contro le casse. Ciascuno controlla avidamente gli acquisti nel carrello vicino, tra disprezzo e invidia.
Un bambino biondo studia il commesso, che carica lo scaffale dei fagioli in scatola, aspettando un contatto che non arriverà. La musica di Star Trek, diffusa nell’aria densa e gravida di espirazioni e traspirazioni, è quasi irriconoscibile inframmezzata dai mille rumori di voci, passi e confezioni sbatacchiate senza cura da mani frettolose.
Io, con la solita angoscia, contemplo stupito i mille disegni delle formiche umane, rinchiuso nella mia capsula di misantropia. Penso a cosa portare a casa per far sorridere mia moglie.
Ma il giorno del sorriso non è ancora arrivato e il coraggio di uscire dall’apatia e dalla stanchezza è rimasto abbacchiato, qui, sul tavolo della cucina, a guardarmi disgustato.

Questa sera, dal mio letto, ignorando i brividi di freddo, sono rimasto, con le spalle fuori, a guardare la mia camera.
La porta alla mia destra è marrone con la cornice e il bordo del battente beige, un appendino adesivo spaiato è rimasto in alto a sinistra, sulle tracce di un appendino più grande, sulla destra la colla del gemello, anch’esso perso da anni.
Sopra la porta un vetro lascia intravedere il vetro sopra la porta del soggiorno. La porta si apre contro il muro lungo che mi sta di fronte. In corrispondenza dei cardini, delle macchie grigie dai contorni sfumati. Mi chiedo talvolta come si siano formate, ma senza cercare la risposta, come se lì fosse il dolore, la vita, Dio.
Sotto alla macchia più bassa, appena sopra il battiscopa, un piccolo foro testimonia che il telefono entrava in questa stanza, prima che io vi entrassi. Il muro è nudo, lungo 4 metri o poco più: solo qualche macchia, qualche striscio, chiazze chiare e traslucide di stucco, una presa elettrica. Questo muro così spoglio, trasandato e oppressivo è talmente naturale in questa camera, in questa vita, da scomparire, da consolare il mio sguardo con lo squallido dono della sua tristezza muta e senza scopo.
La finestra è alta, con l’intelaiatura metallica, blu cobalto. La corda del rotolante è molto sporca, ma non lisa. Dal porta-tende in legno pende, ormai da anni, solo la corda. Una grossa ragnatela polverosa oscilla rivelando gli spifferi che filtrano dalla cassa delle tapparelle.
L’altra metà del muro corto, lungo circa 2 metri e mezzo è vestita di macchie grigie di muffa, che s’addensano sempre più fino allo spigolo nord. Sotto la finestra il radiatore blu, ragnatele e vecchi giornali ripiegati.
Contro il muro il 2° letto. Sopra una coperta piegata approssimativamente, qualche indumento pulito, diversi sporchi, i vestiti di oggi e di domani, un’unica cosa.
Sul comodino tra i 2 letti un libro di Machado, una lampada da tavolo puntata contro la finestra, che proietta l’ombra ambigua del lampadario spento contro il soffitto, maculato, come le pareti, dai segni di zanzare schiacciate, il nuovo testamento dei Gideons ,una scatolina di cartone con dentro i tappi per le orecchie, così necessari in questo infame condominio di studenti, extra comunitari e prostitute.
Sul mio letto, fitto di coperte, questa creatura stanca e avvilita che chiede conforto alle carte in attesa del giorno di luce.
Oltre le mie ossa giovani e la mia mente persa dentro i capricci di un cuore pavido, l’armadio. L’armadio è bianco e basso. La porta di destra, scardinata, appoggia per terra e il peso impedisce all’altro battente di aprirsi.
Dentro, il groviglio dei miei pensieri prende forma nei vestiti stratificati da anni e, in massima parte, dimenticati.
Sopra l’armadio l’ultima manifestazione del mio abbrutimento: un paio di vecchi pattini a rotelle spunta fuori da un cartone di birra, sopra un cuscino, a fianco un copriletto con sopra una grossa busta, poi un altro cartone di birra con dentro una sporta di plastica contenente scarpe da ginnastica bucate, dietro altre sporte di nailon, nell’angolo un fornellino per le zanzare e ancora pezzi di appendini rotti e vassoi di polistirolo.
Sulla parete laterale libera dell’armadio, la giacca per domani e sotto la borsa da viaggio vuota e la ventiquattrore che domani porterò in ufficio, dove nessuno certo immagina la miseria spirituale, che trasuda dalla trascuratezza indolente in cui rifugio le mie angosce, in questa lunga vigilia del nulla.

Giornate senza senso, come un mare senza vento, come perle di collane di tristezza...”
Franceso Guccini. Un'altro giorno è andato. Da L'isola non trovata (1971)

domenica 11 marzo 2012

ASCOLTA CARA


- Ascolta cara, dicono che bisogna elaborare il lutto, ma io come posso,
- eh sì, certo che ...
- no tu non sai cosa vuol dire perdere un uomo meraviglioso che ti amava e che tu adoravi, è una esperienza che bisogna provare, non che io te la auguri naturalmente, no guarda, non l'auguro a nessuno, nemmeno al mio peggior nemico, se l'avessi, ma sinceramente io non ho nemici, perché dovrei?
Berta si voltò verso Chiara, mentre Ada ancora parlava e le bisbigliò:
- Ada è rimasta vedeva all'invio di marzo.
Ada, avendo captato l'interferenza, subito senza ripigliare fiato si rivolse all'amica dell'amica:
- ascolta, Carla
- Chiara!
- sì io ti devo proprio raccontare la mia storia
Berta cercò di inserirsi:
- veramente ..
Ma Ada la strattonò per il gomito tirandola verso di sé:
- venite vi offro un caffè
- ma …
- a s s o l u t a m e n t e
Berta guardò Chiara che accennò un sorriso, Berta alzò gli occhi al cielo. Fecero i pochi passi che li separavano dai tavolini all'aperto del bar e si sedettero.
Il cameriere era già lì e raccolse le ordinazioni.
- ascolta cara, pensa la fatalità io ero in bicicletta proprio qui vicino, in via Roma, e lui era in macchina e mi ha stretto, io sono caduta e mi sono rotta la mandibola. Io piangevo dal male e lui mi ha portata al pronto soccorso, poi è tornato a recuperare la mia bicicletta. E' venuto a trovarmi tutti i giorni all'ospedale e quando sono uscita è venuto tutti i giorni a casa a prendermi e mi portava a passeggio. Pensa io avevo la mandibola bloccata, non potevo parlare, solo gli scrivevo qualche bigliettino e mangiavo solo frullati con la cannuccia. E siamo andati avanti così per due mesi. Mi portava pure al cinema. Ci siamo innamorati. Non potevamo baciarci, ma siamo arrivati subito al sodo. Quando finalmente la mandibola fu a posto, probabilmente la gola dopo tutto quell'inutilizzo si era indebolita, fatto sta che ho avuto un terribile abbassamento di voce e per due settimane rimasi ancora senza voce. Nel frattempo ho scoperto di essere in cinta. Sono sempre stata regolarissima, così me ne sono accorta subito. Eravamo felici e abbiamo deciso di sposarci senza perdere tempo. Finalmente io potevo parlargli. Ah quante cose avevo da dirgli. Quando è nato il piccolo lui era un po' strano, pensavo non fosse preparato alla paternità e invece pensa proprio mentre era fresco di matrimonio e con un bimbo appena nato la sua ditta lo manda a risolvere problemi al Sud. Prima lavorava qui in città e andava in qualche altro posto, poche volte al mese, ma sempre posti qui vicini, che gli permettevano di essere a casa alla sera.
Così invece ha cominciato a star via da casa durante la settimana, ma ci sentivamo spesso al cellulare e lo tenevo al corrente di ogni cosa.
Ma dopo qualche anno ha avuto una promozione. Bella promozione dico io. Direttore generale della filiale Svedese. E' stato trasferito a Stoccolma a seguire scandinavia e paesi baltici, io ero anche disposta a mollare il mio lavoro e andare con lui, ma lui ha pensato al nostro bimbo, non gli andava di farlo crescere in un posto così freddo e senza sole e mi ha convinto a restare qui.
Aveva anche la possibilità di usare il cellulare aziendale per le chiamate personali, gratuitamente intendo, ma tra fuso orario e impegni di lavoro chiamava solo alla sera.
Berta e Chiara si guardarono pensando con stupore al fuso orario della Svezia, ma non provarono nemmeno a interrompere il racconto torrenziale.
- Era dura, ma poi in quell'oretta di telefonata serale quante cose ci raccontavamo. E quando tornava a casa quasi un fine settimana ogni due, ma arrivava il venerdì nella tarda mattinata e partiva solo lunedì mattina, era sempre come una nuova luna di miele.
Intanto nostro figlio cresceva e lui ha spinto perché alle medie lo mettessimo al convitto del seminario, per dargli un'istruzione migliore, ma anche per alleggerire i miei impegni di madre con un marito lontano, caro, pensa quante premure aveva sempre per noi.
E' stato in quel periodo che si sono appassionati di bigliardo, una cosa noiosissima sono andata un paio di volte, ma poi li ho lasciati andare da soli. Anche perché si vedevano così poco, avevano bisogno di qualche spazio tutto loro. Noi due avevamo le notti per noi e che notti, cara mia.
Ada rise, Chiara tento di aprire bocca, ma Ada se ne accorse e riprese istantaneamente:
- Insomma alla fine anche quando era qua ci vedevamo poco, ma era sempre così dolce con me che quel poco tempo mi ripagava dell'attesa. Eravamo felici.
Poi come un fulmine a ciel sereno, mentre il nostro piccoletto si iscrive all'Università e se ne va via lontano da solo, lui viene trasferito addirittura in Sud America. Ho cercato di convincerlo a cambiare lavoro, ma per lui la carriera era troppo importante. “qualche anno mi diceva poi vedremo o mi fanno tornare o faremo qualcosa noi”. Ma era troppo dura ci sentivamo una volta alla settimana, lui tornava a casa ogni 2 o 3 mesi, per una settimana dieci giorni al massimo.
Allora ho deciso di lasciare il lavoro e raggiungerlo in Brasile. Lui era contento, forse troppo, era così eccitato, forse è stato per quello che non è stato prudente come era di solito in macchina e ...
In quel momento suonò il cellulare di Chiara, che lo tolse dalla borsetta e lo guardò, vedendo che la chiamata era di Berta la guardò e vide che teneva una mano dentro la borsetta e le faceva l'occhiolino, mentre con l'altra stringeva la mano di Ada che si era zittita e sorrideva triste all'amica. Chiara capì al volo e mettendo giù la chiamata simulò una conversazione:
- sì ciao, come? Cosa? Ma dove? Ok stai tranquillo resta là che io arrivo.
Finse di riagganciare e si voltò verso l'amica.
- scusa Berta mi puoi portare a prendere mio figlio che è rimasto bloccato con il motorino rotto?
- certo tu ci scusi vero Ada.
Ada abbozzò un sorriso deluso, ma non poté opporre resistenza. Si salutarono. Berta e Chiara si alzarono e andarono via. Ada restò a sorseggiare il suo cappuccino freddo che fino a quel momento non aveva ancora toccato.
Intanto per la via Berta diceva a Chiara:
- Ada è l'unica persona che conosco che oltre alle domande ti dà anche le risposte e ti lascia solo il tempo di rispondere sì o no. Così la sua percezione dei fatti è piuttosto singolare.
Suo marito era un uomo prudentissimo, tanto più in macchina e si è schiantato un muro in pieno rettilineo. Non mi risulta si drogasse e non mi sembrava nemmeno il tipo. No secondo era terrorizzato di non poter più fuggire da lei come aveva sempre fatto, ma di dover vivere a tempo pieno con lei. Pover'uomo avrebbe dovuto diventare sordo, per sopportare la sua logorrea
Chiara sbottò:
- poveretto? Prima doveva uccidersi! uomo falso e vigliacco che era, perché non le ha mai detto chiudi il becco, non ti sopporto più divorziamo? Troppo comodo trattare una moglie come un'amante e un figlio come un nipote per vivere come un single correndo dietro la carriera o non so cosa. Ma tu l'hai conosciuta prima del matrimonio?
- no dopo
- allora chi ti dice che da un lato lo shock dell'incidente e l'impossibilità di parlare così a lungo e dall'altro lo scontrarsi con le dissimulazioni e i silenzi e le assenze del marito non abbiano esasperato la sua naturale verbosità?
Berta ci pensò su un attimo poi convenne:
- forse hai ragione ma credo che lui fosse diviso in sé in fondo l'amava sempre anche se l'amore era nato su un senso di colpa.
Chiara:
- secondo me era solo uno che fuggiva dalle sue responsabilità e si prendeva la parte buona rifiutando quella faticosa, ma se era schizofrenico non ci si può stupire di nulla, tanto normale in effetti non è neanche lei, due matti si sono trovati, ma il persecutore era lui.
- be potrebbe essere – ridacchio Berta
-credimi a stare dalla parte delle donne non si sbaglia mai
-lascia perdere che abbiamo anche noi le nostre colpe, ma qui hai ragioni tu, bisogna stare dalla parte di Ada, perché lei c'è mentre i morti non hanno più problemi
Intanto anche Ada aveva ripreso il suo cammino. Vedendola passare era difficile capire che età avesse per gli occhi grandi da bambina e la pelle curata, il fisico asciutto e slanciato il suo incedere sicuro e veloce, apparentemente giovanile. I capelli erano lunghi e lisci di colore biondo chiaro
I lineamenti del volto erano regolari e dolci. Insomma era una bella donna. Camminava con passo sicuro e con lo sguardo alto e anche se un velo di tristezza si leggeva distintamente non potevano esserci dubbi che fosse una donna soddisfatta di sé.

domenica 4 marzo 2012

PRIMITIVI (SEMPRE PIÚ AVANTI)


Zyx fu il primo del gruppo ad individuare il relitto dell'arca. Era incredibile come seppur nello spazio aperto vi fossero dopo milioni di anni ancora di questi rottami.
Tutti ricordavano bene come a quei tempi i mammiferi fossero ancora dotati di un corpo fisico e necessitassero di un ambiente fisico e di cibo per sopravvivere. Ora invece i mammiferi erano pura energia e necessitavano solo di qualche passaggio vicino ad una stella per ricaricarsi e si muovevano alla velocità della luce negli immensi spazi della galassia.
Dopo aver esplorato l'arca il gruppo scivolò sulla leggera curvatura dello spazio avvicinandosi ad un sistema stellare di media grandezza. Uno dei pianeti del sistema pullulava di vita basata sul carbonio, proprio come erano stati un tempi i mammiferi.
Il gruppo si tuffò sul pianeta e lo osservò con attenzione trovò dei mammiferi primordiali che dovevano essere molto simili ai loro antichissimi progenitori. Alcuni avevano un apparato sensoriale davvero evoluto. I mammiferi videro le immense potenzialità e decisero di dare una mano al corso dell'evoluzione,
Scelsero un gruppetto di individui particolarmente dotati e dopo averli ben studiati indussero alcune modificazioni al loro DNA creando una nuova generazione dotata di un cervello molto più avanzato. L'operazione riuscì talmente ben che alcuni vollero provare quei corpi e si fusero con i cuccioli.
Avere un corpo fisico dava delle enormi limitazioni, ma determinava anche delle reazioni emotive impensabili e molto seducenti, grazie alla parte primordiale che li abitava originariamente. La maggior parte del gruppo incominciava a stufarsi di quella sosta ma Zyx e Krt li convinsero a restare ancora un po'.
Nel volgere di breve tempo i cuccioli e erano cresciuti e Zyx e Krt si accoppiarono e Zyx ebbe dei cuccioli. A quel punto quando il gruppo di mammiferi decise di partire Zyx e Krt non vollero più abbandonare la loro nuova vita e li salutarono.
Chiamarono i loro figli Adamo ed Eva, il pianeta Terra e la stella Sole.