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Esco dalla galleria e inizio subito a sbirciare verso destra.Ecco lì sopra il paese, sullo sperone di roccia, in mezzo agli alberi, la baita di Soccher.
E’ un luogo magico per la mia memoria. Mi ci portava Roberto alle feste dei suoi strani amici.
Ed è stato lì, mentre noi due da soli in una meravigliosa giornata estiva saltellevamo tra i ruderi del castello, che ci siamo baciati per la prima volta.
Roberto è stato il mio primo grande amore e con lui ho vissuto davvero tantissime nuove esperienze. Qualcuna anche negativa, come la prima e ultima canna della mia vita. Mai stata così male in vita mia!
Ci siamo conosciuti al pattinaggio. Io a quel tempo abitavo a Feltre e frequentavo il secondo anno delle superiori, al liceo linguistico. Roberto era di Belluno, ma veniva con i suoi amici a fare qualche incursione a Feltre.
“Fone che stasera? ‘ndon a higa a Heltre”.
Quella sera Aldo, un suo amico, aveva puntato su Magda e Roberto si era assunto il compito di togliere l’amica di torno. L’amica ero io. Naturalmente tra Magda e Aldo la cosa non ha assolutamente funzionato e credo non si siano nemmeno mai più rivisti.
Roberto era dolce e timido, ma al contempo sicuro di sé, disinibito e spesso abbastanza spericolato.
Aveva diciassette anni e una Vespa Px azzurra sulla quale credo di aver percorso decine di migliaia di chilometri nei due anni che sono stata con lui.
Il tratto di strada che non scorderò mai però è un tratto molto banale, vicino a casa e percorso già un’infinità di volte prima di quella sera. Eravamo in ritardo per andare al cinema e Roberto ha iniziato una serie di spavaldi sorpassi sulla Culliada, finchè da una macchina non è spuntata fuori una paletta rossa che ci ha costretti ad accostare e a fermarci.
Dall’auto sono scesi due carabinieri in borghese uno dei quali, per colmo di sventura, era mio padre.
- Buongiorno, scendete, toglietevi i caschi e favorite i documenti.
Mi sono tolta il caso guardando per terra e poi ho detto:
- ciao papà
e l’ho fissato negli occhi.
C’è stato un lunghissimo istante di gelo generale.
Poi Roberto si è presentato e con cortesia, in modo simpatico, ma senza strafare ha cominciato a chiacchierare amabilmente, riuscendo quasi subito a scardinare le difese di mio padre e a coinvolgerlo in una piacevole conversazione.
Tanto che alla fine se l’è cavata con una lavata di capo e la promessa di passare a casa nostra per presentarsi anche alla mamma. L’autorità di mio padre ai miei occhi è di colpo crollata e da quel giorno siamo andati molto più d’accordo.
Roberto sapeva essere davvero straordinario. Mi chiedo ancora come mai sia finita tra noi.
Sì certo, lui è andato a Milano a studiare, mio padre ha finalmente ottenuto il trasferimento in Cadore, noi ci siamo trasferiti nella casa che era di mia nonna materna e io sono andata al liceo linguistico di Cortina.
Per un po’ ci siamo tenuti in contatto, ma nessuno dei due credeva di poter far funzionare la nostra relazione a distanza e così, senza nemmeno mai dirci: “E’ finita”, ci siamo persi.
Probabilmente ciascuno dei due chiedeva dal nostro rapporto troppe cose per sé e subito per poter resistere ad una relazione che sarebbe stata così povera di momenti per vederci e stare insieme, per avere oltre che per dare.
Guarda invece questo deficiente che sorpassa qui all’inizio della corsia di uscita dall’autostrada.
Gli pianto gli abbaglianti nello specchietto, ma quello si immette di prepotenza sull’Alemagna e sparisce.
Vai pure ad ammazzarti, basta che non coinvolgi gli altri.
Per me invece arriva un altro dei miei appuntamenti fissi con il paesaggio del percorso casa-lavoro-casa: la Val Gallina.
E’ da tanto tempo che non vado più a passeggiare sulla diga, come quel primo giorno in cui mio padre dopo averci aiutato a costruire un paio di artigianali aquiloni ci ha portato lassù a farli volare. Cosa che hanno anche fatto. Ma l’emozione più grande è sta quella di camminare su una diga, tra la massa d’acqua del lago e il precipizio sopra il torrente.
Ma il motivo per cui amo guardare la Val Gallina dalla strada non è legata ai ricordi né alla diga in sé, ma alla fantasia.
Vista da qua giù la valle non rivela infatti le sua anguste dimensioni, ma può sembrare la sezione di una valle parallela a quella del Piave e altrettanto lunga se non di più. Le stesse montagne potrebbero essere solo l’inizio di una catena sterminata con fiumi, laghi, boschi, praterie.
E io immagino valli selvaggi e montagne poderose con le cime perennemente coperte di neve. E dietro ancora immense distese. Terra, tanta terra libera, come l’intero Nuovo Mondo. E mi piace pensare a quell’immenso spazio a disposizione per cavalcarci spingendo docili mandrie di bestiame verso ricchi pascoli gorgoglianti di chiare sorgenti.
Un’enorme territorio ancora vergine e libero. Ben diverso da queste nostre piccole montagne congestionate.
La gente qui è ovunque, non c’è valle o colle, che non sia o non sia stato abitato. Ovunque i nostri progenitori hanno costruito le loro case ammassandosi gli uni sugli altri, contendendosi le scarse risorse naturali.
Così chi non è emigrato ha dovuto imparare a lottare giorno e notte per strappare alla terra, ai campi, al bestiame, alle miniere, alle mani dei padroni il necessario per vivere.
Il lavoro continuo e instancabile era l’unica forma possibile di sopravvivenza, era una necessità che toccava a uomini, donne, vecchi e bambini. Tutti dovevano lavorare e duramente se volevano sfamarsi.
Alzarsi alle tre di notte per accudire la vacca, riportare su con le gerle la terra buona che scivolava inesorabilmente a valle, scavare in miniera durante il giorno e risalire chilometri e chilometri di erto sentiero per ritornare a casa la sera a lavorare il legno.
La scarsità delle risorse per la rigidità del clima e la densità della popolazione hanno selezionato persone votate al lavoro. Allora quest’ossessione lavorativa era un’esigenza ora è divenuta inutile e dannosa.
Come la tendenza a ingrassare, che salvava nei periodi di carestia i nostri antenati cavernicoli e che oggi con l’abbondanza e la ricchezza degli alimenti a disposizione crea obesi che vivono male e muoiono presto, così la cultura del lavoro spasmodico, valore sopra ogni altro valore, porta a sprecare la vita con una foga insensata, dietro quello che è invece solo il mezzo che dovrebbe consentirci di vivere pienamente.
E ci si ritrova a domandarsi se abbiamo perso il senso della vita, i valori etici, e quant’altro. Semplicemente non siamo stati capaci di adattarci al nuovo ambiente.
Dopo c’è anche chi non si muove senza la macchina e non usa che l’ascensore per andare poi in palestra a fare steps e pedalare sulla cyclette. Quello sì che è adattamento ad un ambiente artificiale.
Del resto abbiamo fatto troppi salti: dalla guerra alla pace, dall’educazione oppressiva a quella permissiva, dalla società contadina e rurale a quella industriale e cittadina, come si possono ricalibrare così velocemente degli atteggiamenti mentali che sono poi in gran parte legati a comportamenti specie-specifici atavici?
Ma le cose possono anche tornare indietro. Tutto l’occidente sta infatti vivendo da decenni al di sopra delle proprie possibilità, un po’ come ha fatto l’est europeo sotto il comunismo, con il risultato di fare alla fine crollare il sistema. Noi stiamo scaricando i lussi che non potremmo permetterci sulle spalle delle generazione future attraverso il debito pubblico e non per colpa dei governi di centro di destra o di sinistra, ma grazie agli economisti e alla loro teoria dell’acelleratore, che sembrava dover funzionare illimitatamente, perché, come spesso accade, le condizioni di contorno - il contesto - non erano state definite correttamente.
Certo poi anche i politici ci hanno del messo del loro, sfruttando la teoria per beneficiare se stessi e i propri clienti senza badare all’utilità e alla produttività della spesa pubblica.
Ad ogni modo il risultato finale è che esiste la fondata possibilità che la compulsione lavorativa torni ad essere presto essenziale per la sopravvivenza di molti, a meno che non si arrivi ad una diversa distribuzione delle ricchezze, ma chi ci crede? Ben magra consolazione per rivalutare la “cultura del lavoro”.
Ma ecco il Vajont: uno dei frutti più avvelenati di quella mentalità. Non voglio nemmeno pensarci.
Il traffico qui a Longarone poi richiede un po’ di più della mia attenzione.
Le macchine che scendono dal Cadore sono coperte di neve. A guardare bene anche qui sta nevischiando.
Sono tranquilla, ho le lamellari in ottimo stato e conosco bene la strada, speriamo solo che non ci siano i soliti incoscienti con le gomme lisce a intralciare e i turisti imbranati con le catene che procedono a cinque chilometri orari sull’asfalto pulito. Anch’io, come tutti, ho un rapporto difficile e ambivalente con i turisti, sono pur sempre dei foresti!
All’uscita della galleria c’è una vera e propria tempesta di neve. E’ affascinante. Inoltre c’è il vantaggio che non si vede l’orribile fonderia. Perché mettere una fonderia tra i monti? Per inquinare anche con il trasporto dei materiali e del combustibile oltre che con la produzione?
Non so rispondere a queste domande, come a tante altre, che mi toccano anche più profondamente. Forse non so neppure pormi le domande giuste. Quali sono le priorità della mia vita? E quali dovrebbero essere?
Non so decidere se Luca sia l’uomo della mia vita o se io debba aspettare a impegnarmi e fino a quando. Non so decidermi a cambiare lavoro, ad andare a vivere da sola o con lui. E dove?
Non riesco nemmeno a decidere di comprare una nuova macchina fotografica!
Le risposte a tutte queste domande turbinano nella mia mente come questi fiocchi di neve, sbatacchiano e cadono una sull’altra formando uno strato spesso e amorfo di pura confusione che poi si scioglierà senza lasciare nulla.
A Rivalgo la nevicata è tornata nella norma, ma la strada è anche qui bianca. Che orribili sono queste case sul ciglio della strada. Da bambina pensavo che Rivalgo fosse il paese più brutto del mondo, poi un giorno invece di passare oltre schifata, mi sono fermata e mi sono inoltrata dentro il paese. Ho conosciuto solo allora Rivalgo e il suo meraviglioso circondario. E’ per me come un emblema della fallacità delle apparenze.
Ma quanto spesse sono a volte le apparenze! Per quanto scavi in profondità non arrivi mai a scoprire la vera sostanza.
Soprattutto quando la materia di indagine è l’uomo. Arriverò mai a capire Luca? E a capire me stessa?
E’ poi davvero così importante capire? Non sarebbe meglio vivere istintivamente, senza cercare di inquadrare ogni cosa in una casella di un mosaico che deve per forza avere un senso, che però noi non possiamo vedere, perché stiamo dentro le tessere stesse?
Vengo di novo strappata bruscamente ai miei pensieri. Un enorme fuoristrada sbuca fuori dalla curva, sembra piuttosto veloce, sbanda, si mette di traverso sulla strada proprio davanti a me e scivolando mi viene incontro.
Io inchiodo e per evitare l’impatto butto la macchina nel mucchio di neve a bordo strada.
Il fuoristrada si ferma a meno di 30 centimetri da me. Poi riparte e riaccosta qualche metro più avanti sull’altro lato della strada. Faccio retromarcia e mi rimetto in strada.
La fila di macchine che già si era formata dietro di me si rimette lentamente in moto.
Il guidatore mi viene incontro.
- tutto bene?
Io sto controllando il muso, e la fiancata, sembra tutto a posto.
- Sì tutto bene, ma lei è un disgraziato poteva ammazzarmi!
Lui alza le spalle e tutto tranquillo dice:
- beh ammazzarla no, comunque mi scusi ho sbagliato la curva, capita.
- sì, capita. Capita a chi corre come un deficiente. Se potessi le ritirerei la patente.
Lui ridacchia sfacciatamente.
- per fortuna non può, buon viaggio.
Si volta e se ne va.
Io resto lì, praticamente a bocca aperta. Che gran bastardo!
Risalgo in auto, ancora un po’ tremante. Respiro profondamente, rimetto in moto e riparto.
Per fortuna è andata bene. Sono ancora molto agitata. E’ stata una bella scarica di adrenalina. Devo calmarmi o rischio di fare io qualche stupidaggine.
Che razza di gente c’è in giro! Ma non devo prendermela con lui. Il risentimento verso gli altri è sempre in fondo un risentimento verso sé stessi. Una disavventura quando è terminata ha esaurito la sua negatività, il dolore passato non fa più male, l’offesa scivola via se è falsa.
E’ l’aver messo in luce la mia debolezza il mio errore ciò che mi tormenta nei torti ricevuti. E’ quando viene scoperto il mio limite che volevo tener nascosto che sento il turbamento. E la rabbia che provo verso chi ne è la causa è in realtà la proiezione dell’insoddisfazione che ho verso me stessa.
Imbocco la galleria. Rivedo ancora la scena con la mente e sospiro. Entro in un tratto buio della galleria, si sono rotte le luci. E proprio qui, improvvisamente la macchina sbanda e si piega di lato. Sono di nuova ferma.
La gomma! Maledizione la gomma. Sotto il cumulo di neve deve aver toccato qualcosa, magari solo un cordolo o lo spigolo di un marciapiede o chissà che cosa e si è tagliata. Ma non del tutto. No troppo facile. Si è quasi rotta, ma un lembo di tela ha resistito per un po’ di tempo, per questi pochi chilometri, per cedere, proprio qui, in galleria e per giunta al buio.
Accendo le luci lampeggianti di emergenza.
Scendo. La gomma è completamente distrutta. E chi si ferma qui in galleria per cambiarmela? Sicuramente nessuno.
Per fortuna almeno sono vicina a casa.
Prendo il triangolo e cerco di sistemarlo una trentina di metri prima della macchina, ma non sta in piedi. C’è un pezzo del mio copertone che riesco ad usare come appoggio. Torno alla macchina.
Le auto mi superano, il traffico è intenso solo verso nord.
Risalgo in macchina e prendo il cellulare dalla borsetta. Ovviamente non c’è rete. A che punto della galleria sono?
Decido di risalire e uscire verso il ponte. Perché capitano tutte a me? Tutta colpa di quel bastardo. Bastardo, bastardo!
E io, scema, non ho preso nemmeno il suo numero di targa.
L’aria nella galleria è quasi irrespirabile e il rumore delle auto è assordante. Sembra di stare all’inferno.
Arrivo fuori e il cellulare non prende nemmeno qui.
Mi incammino di nuovo e intanto cerco di fermare qualche auto.
Si ferma un furgone. Dentro c’è una squadra di operai che mi guarda avidamente. Almeno si sono fermati. Mi prestano un cellulare che funziona. Così riesco a parlare con mio fratello. Promette di arrivare subito. Rassicurata, ringrazio e torno nel fondo dell’incubo.
Ecco le luci che si spengono. Devo essere vicina. Ma dov’è finita la mia macchina?
Mi gira la testa, mi sento quasi svenire. La mia auto non c’è più! Accellero il passo sul fondo scivoloso.
Eccola là, morta, illuminata solo dai fari delle macchine che passano strombazzando, creando un'eco infernale per tutta la galleria.
Tutte le luci si sono spente. Cerco di mettere in moto. Si sarà bagnata la calotta o forse si è proprio scaricata la batteria.
Mi viene da piangere. Mio fratello avrà preso il cavo di traino?
Un’auto mi supera e si ferma una decina di metri più avanti. Io esco, corro verso il soccorritore, ma urto contro un catarifrangente appeso al muro della galleria. Mi colpisce in pieno petto e mi stende. Cado piroettando e mi rialzo dolorante e graffiata alle mani e al viso e completamente coperta da una poltiglia nera: un cocktail di neve, fango, e gas di scarico.
Mi presento al finestrino della macchina, un po’ titubante: devo essere un mostro conciata così, potrebbe anche spaventarsi. Già di mio, con i capelli neri e dritti che ho, sembro un po’ Mortisia.
Dentro c’è un uomo con il viso largo e gli occhi pietosi che non sembra spaventarsi, ma mi dice subito:
- non può lasciare la macchina lì, è troppo pericoloso.
- non parte più, mi aiuta a spingerla?
- volentieri,ma non posso, sono paraplegico!
- ah mi dispiace, comunque mio fratello sta venendo qui.
Non so più cosa pensare, tutto è ciò è persino irreale. L’unico che si ferma per aiutarmi è un disabile e non può aiutarmi.
- beh non si preoccupi, lei torni in macchina, io intanto vado a mettermi dietro alla sua macchina con le luci di pericolo accese.
Che brava persona. Rientro in macchina. Ho freddo.
Lui riesce a mettersi dietro di me con le luci lampeggianti accese.
Mi pulisco un po’ il viso. I graffi mi bruciano e mi accorgo di essere piena di botte.
Che situazione surreale e orribile!
Quando arriva mio fratello con mio padre scoppio a piangere.
Loro hanno pensato a tutto. Hanno anche i cavetti per ricaricare la batteria. Cambiano la ruota e io monto con mio padre. Si torna a casa: l’incubo è davvero finito.
Il giorno dopo il mio capo, quel simpaticone, proclamò tutta la sua invidia per noi montanari, che avevamo la neve per poi preannunciare la sua settimana bianca a Cortina.
Mentre lo ascoltavo guardai distrattamente dalla finestra. Giù nel parcheggio c’era un orribile fuoristrada uguale a quello sciagurato che la sera prima aveva cagionato tutte le mie tribolazioni.
- Di chi è quella Jeap?
- Il Pajero? E’ mio, è arrivato ieri. Bello è?
- Bellissimo
Ero ancora troppo scossa per parlare della mia disavventura e in seguito non feci tempo a parlargliene perché quattro mesi dopo cambiai lavoro.
Oggi quando racconto questo episodio riesco a riderne di gusto insieme al mio pubblico, ma allora fu un vero trauma.
Attualmente vivo da sola e vado al lavoro a piedi. Luca vorrebbe che ci sposassimo. Ho cambiato gestore per il telefonino e ora la rete è attiva anche in galleria. La mia vecchia Tipo è ancora un gioiellino, calotta a parte, ma prima o poi mio padre mi convincerà, per esaurimento, a cambiarla.
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