Giusto un saluto. Gli ospedali non gli erano mai piaciuti. Ma a chi piacciono? La sua era però una vera e propria fobia e per quanto considerasse una nobile occupazione il visitare gli ammalati, aveva sempre per quanto possibile evitato di praticarla. In questo caso non gli era possibile. In fondo era il suo miglior amico.
Personalmente poi aveva avuto la fortuna di non essere mai stato ricoverato.
Personalmente poi aveva avuto la fortuna di non essere mai stato ricoverato.
Entrò nell'ospedale già preventivamente contratto e subito sentì crescere la sensazione di disagio, fino al punto di pensare di tornare indietro. L'aria stessa gli pareva infetta ed era sicuro che non avrebbe trovato le parole giusta per consolare e distrarre l'amico che si ritrovava in quel luogo spaventoso: una sorte di carcere per innocenti, una prigione in cui le torture erano non solo ammesse, ma obbligatorie. Si fece forza.
Si orientò un po' a fatica grazie all'intricata segnaletica e imboccò un lungo corridoio che portava all'ala ovest del nosocomio. In fondo si trovavano gli ascensori per salire ai reparti. Si mise davanti al primo ascensore e controllò l'indicatore luminoso. Stava scendendo seppur lentamente. Terzo piano, secondo primo. Di nuovo secondo. Che sfortuna. Controllò gli altri due ascensori. Stavano tutti salendo.
Aspettò un po’, sempre controllando gli indicatori. Sembrava che tutti si muovessero da un piano all'altro senza mai decidersi a scendere al livello terra. Sbuffò e decise di salire per le scale anche se doveva salire fino al settimo piano. Si girò e fu colto da una fortissima vertigine. Le scale non c'erano più. Le aveva notate entrando nell'atrio, ma ora erano sparite, anzi era sparita persino l'entrata. Non c'erano che gli ascensori e i muri.
Non fidandosi dei propri occhi si mosse tutt'intorno alla stanza, ma niente: non c'era un'apertura nè una porta escluse quelle chiuse degli ascensori. Com'era possibile? Forse distrattamente era entrato in un grosso montacarichi con varie uscite? Ma tasti per piani non c'erano e poi sopra ogni porta scorrevano numeri di piano differenti. Stava sognando? Stava avendo un'allucinazione?
Si ricordò di aver letto di una malattia che provocava la deprivazione del sonno, da cui derivavano allucinazioni vigili, ma era una malattia rarissima e per di più ereditaria. Poi lui ultimamente aveva dormito benissimo. Perché aveva deciso di venire all'ospedale? Ma che c'entrava? Questo non era l'ospedale era un posto assurdo, un incubo. forse era capitato in una sorta di candid camera. "Basta, fatemi uscire" "non è un bello scherzo ed è durato anche troppo" "Tiratemi fuori prima che decida di denunciarvi tutti". Non c'era risposta.
Si sedette per terra chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Quando gli riaprì nulla era cambiato. Si mise a cercare un varco nel muro tastandolo. Urlò e strepitò. Si comportava come un folle? Ma era la situazione folle! Cercò di nuovo un varco con calci sparati qua e là sui muri. Batté con i pugni sulle porte degli ascensori. Provò a stare in silenzio cercando un qualche rumore. Analizzò con cura con lo sguardo ogni centimetro dei muri, del soffitto e del pavimento. Si accorse che pur essendoci luce diffusa non c'era un'apparente sorgente luminosa. Cominciava a sentirsi spossato. Non aveva neppure un orologio. Da quanto tempo era lì dentro? Avesse almeno avuto il cellulare, ma era scarico e l'aveva lasciato in macchina. Ma tanto quasi sicuramente lì dentro non avrebbe preso. Forse non era nemmeno un luogo quello in cui si trovava, ma solo un angolo della sua mente. Si sdraiò tentando di dormire. Era affamato e assetato. Sarebbe morto di sete? Si consolò pensando che lo stimolo della sete e della fame passavano velocemente a quanto dicevano. Si sarebbe via via indebolito, avrebbe perso conoscenza e sarebbe morto dolcemente senza soffrire. No! Non voleva morire aveva ancora tante cosa da fare. E poi che razza di storia era questa? Si perse in pensieri via via più confusi. Si svegliò tutto ammaccato. Il pavimento era duro. Si accorse che la barba era cresciuta. Provò ad aprire con le mani le porte degli ascensori, ma senza riuscire a smuoverle nemmeno di un millimetro.
Riprovò in tutti i modi a farsi sentire, ad aprire un varco, ispezionò ogni millimetro a vista al tatto, con l'udito. Pensò e ripensò a come era finito lì. Cercò in tutti i modi di pensare ad una possibilità per cambiare la situazione. Aveva fame, aveva sete, doveva andare in bagno. Quanto poteva sopravvivere senza bere?
Si disperò e si calmò più volte. Dormì.
E alla fine si arrese e decise di aspettare la morte. Cercò di allietare l'attesa con i ricordi più belli, ma alla fine ripercorse tutta la sua vita, momenti belli e momenti brutti fino ad arrivare di nuovo lì. A quel punto i suoi pensieri divennero nuovamente confusi e si addormentò per l'ultima volta.
Scrivere qualcosa di veramente nuovo è quasi impossibile, ma qui il credito è così grosso che prima di essere accusato di plagio devo fare outing e confessare che questo racconto non sarebbe mai nato se non avessi letto il racconto di Thomas M. Disch "Descending" del 1968.
RispondiEliminaPubblicato in Italia nel numero di Urania di Aprile 1978 nella raccolta intitolata "La signora degli scarafaggi".
Bellissimo! Credo leggerò presto il racconto da cui hai detto di esserti fatto ispirare. Davvero molto ben riuscito mi è piaciuto molto! Bravo zio!
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