domenica 26 febbraio 2012

ROULETTE SIBERIANA


Giorgio osservava la strana tonalità morbida della luce del sole al tramonto. La campagna risplendeva appena bagnata dalla prima rugiada della sera, le ombre ingrassavano anfratti di tenebra sempre più spessa, dove era facile immaginare piccoli gnomi uscire dai nascondigli per fumare nell’aria fresca le loro pipe. Giorgio brindò silenziosamente agli gnomi, poi però si soffermò poco sul dolce paesaggio delle colline e dei boschi di lecci e di carpini, che l’ampia finestra di fronte a lui concedeva così benignamente.
Molto più a lungo invece la sua attenzione fu catturata dal luccichio sinistro e duro, che quella luce, così tenue e soffusa, aveva sulla canna lucida della pistola appoggiata al centro del tavolo. E ancora più tagliente, anzi decisamente crudele, era il riverbero che quella luce metallica aveva negli occhi dei presenti seduti attorno a quel rude tavolaccio.
Negli occhi grandi e neri di Mirko, che sedeva di fronte a lui e fissava a sua volta la pistola, mentre il suo volto sotto uno spesso strato di stanchezza tradiva un’amara soddisfazione.
Poi negli occhi piccoli, tondi e arrossati di Radovan, che vibrava impercettibilmente sulla sedia alla destra di Giorgio, sudava abbondantemente, ma ostentava calma e sicurezza.
Di fronte allo slavo, alla destra di Mirko gli occhi di Francesco andavano alla deriva nell’alcool, che imbeveva oramai il suo cervello. Francesco era rigido e inebetito, in dubbio stato di coscienza.
Tra Francesco e Giorgio gli occhi di Marco lo rivelavano immediatamente come un tossico dipendente, non molto lontano da una crisi di astinenza. Marco fumava, si grattava, ma il suo era un nervosismo di fondo non troppo legato agli eventi, che invece affrontava con grande calma e determinazione.
Infine di fronte a Marco, alla sinistra di Mirko, a chiudere il cerchio del tavolo, Alfonso aveva un’espressione molto difficilmente decifrabile, da vero giocatore d’azzardo.
Giorgio però, che lo conosceva bene, riusciva a captare il senso di potere che lo inebriava mentre intesseva le sue trame e valutava beffardamente le mosse degli avversari. Probabilmente insieme a lui era l’unico veramente convinto di quel folle gioco in cui l’eterogenea compagnia si era ritrovata come invischiata.
Certo però la convinzione di Alfonso non aveva motivazioni ideologiche, filosofiche come per Giorgio, ma doveva esserci qualche fine particolare, o forse più semplicemente Alfonso stava come suo solito bluffando. Era indubbiamente difficile immaginare come avrebbe potuto cavarsela, data la determinazione folle e cieca che vi era in tutti i presenti, eccetto chiaramente Francesco che era come un tronco marcio portato dalla corrente, che non poteva influire per nulla nello svolgersi degli eventi. Solo la fortuna poteva aiutare Alfonso nel suo piano.
Intanto toccava a Mirko, che finì con calma di fumare la sua sigaretta, vuotò il bicchiere di chianti, fissò il mazzo per qualche minuto senza parlare. Infine pescò dalla cima del mazzo. Guardò la carta, senza tradire nessuna emozione e l’appoggiò scoperta sul tavolo: un 10.
Francesco sorrise inebetito. Tutti gli altri calcolarono rapidamente. Al momento la partenza toccava a Francesco che aveva pescato un quattro poi a Marco poiché, tra i due vicini di Francesco la carta più bassa era l’otto del padrone (abusivo) di casa.
Il regolamento del gioco aveva richiesto quasi un’ora per essere definito, poi si era spesa un’altra mezz’ora a tirare i dadi per sorteggiare i posti a tavola, il mazziere, il primo a pescare le carte, il giro. Ora l’ultima fase preliminare procedeva ancora più lentamente.
Solo Marco aveva pescato la carta immediatamente e l’aveva ribaltata sul tavolo guardando prima le facce intorno a lui e poi, non traendone nessuna risposta, aveva abbassato lo sguardo sulla carta stessa.
Francesco aveva farfugliato a lungo, brindato, fumato, si era baciato le mani, aveva soffiato sul mazzo. Poi dopo averlo studiato, aveva pescato dal centro del mazzo. Aveva guardato a lungo la carta con evidente disappunto e l’aveva appoggiata sul tavolo, coperta.
Girala - aveva detto Radovan. Francesco aveva sorriso, senza muoversi. Radovan aveva accennato ad allungare la mano verso la carta, ma Mirko l’aveva bloccato con un gesto. Alfonso aveva appoggiato il suo orologio sul tavolo:
- Vedo!
Francesco aveva annuito soddisfatto e aveva mostrato il suo quattro. A Radovan era sfuggito un grugnito di soddisfazione.
Dopo Mirko toccava ad Alfonso.
La luce del casolare tremolò, le masserizie appese alle pareti si confusero con l’intonaco ocra e la stanza di Marco, che s’intravedeva dalla porta socchiusa, un letto basso, con un materasso di foglie di pannocchie e un sacco a pelo e bottiglie vuote sparse sul pavimento, era sparita nel buio.
Dall’esterno aveva allora fatto irruzione nella stanza un fiotto di luce crepuscolare e aveva portato dentro un profumo di campagna e di bosco, che solo Giorgio riuscì a captare e ad apprezzare. Apprezzare relativamente, per quel poco che era in grado di apprezzare qualsiasi cosa perso nello splin della sua esistenza.
Alfonso appoggiò la mano sul mazzo e cominciò a recitare una delle sue classiche scene:
- Dunque, fatemi sentire le vibrazioni di queste carte. Qui c’è una coppia di nove, no non mi piace, un settebello, ma adesso non serve, il pampalugo, il tre di bastoni, l’asso di briscola, ehi qui qualcuno ha barato ci sono cinque assi in fila.
- Sei penoso - sbottò Mirko.
- Oh scusami, come siamo seri stasera, neanche fossimo tutti condannati a morte - e rise ostentatamente.
Mirko si alzò e andò a rollarsi una canna e si mise a fumare seduto sul davanzale della finestra aperta. Guardò fuori.
Le prime stelle apparivano timidamente nel cielo e la luna scivolava silenziosamente sotto un velo di nubi corrugate. L’aria cominciava a farsi pungente.
Alfonso, visto che nessuno reagiva più rinunciò alla recita:
- Ok, va bene, giochiamo, qui non si scherza, ma che gusto c’è a finire il gioco subito? - Intanto però pescò la sua carta: un Jack.
Radovan si grattò la faccia, si schiarì la voce, declamò qualcosa in serbo, scolò il suo bicchiere di vino.
Alzò la carta e la girò mostrandola a tutti, con malcelata soddisfazione, prima di appoggiarla accanto alla pistola. La sua carta era un re. Aveva ottime chance di esser l’ultimo.
Mirko restava serio e impassibile, Alfonso altrettanto imperturbabilmente continuava nella sua espressione ambigua, leggermente allegra e senz’altro intrisa di scherno. Giorgio non si curava della sua espressione, ma era interessato più a studiare le reazioni dei suoi compagni che non allo svilupparsi del gioco.
Francesco perdeva sempre più rapidamente lucidità. Marco si tormentava le mani scheletriche e ingiallite, mentre faceva penzolare la canna dal labbro. Radovan canticchiava nella sua lingua, ma non era per nulla rilassato nonostante le cose fossero al momento nettamente in suo favore.
Ora toccava a Giorgio. La sua carta decideva le sorti di tutti.
Che ironia pensò Giorgio. Il destino nelle mani di un nihilista, per cui tutto è indifferente. Giorgio s’interrogò sul valore che ognuno dei presenti stava dando al suo gesto.
Alfonso aveva sicuramente la sua via di fuga e la fortuna lo aveva abbastanza assistito, visto le carte che erano uscite.
Francesco non si rendeva conto di ciò che faceva, del resto non era mai stato particolarmente perspicace nemmeno da sobrio.
Marco probabilmente cercava di mettere le mani sui beni dei presenti. Così infatti era, anche se non aveva alcun piano preciso, sperava semplicemente che le cose andassero per il verso giusto. Del resto tutti i suoi compagni della comune se n’erano già andati i più di overdose, qualcuno di epatite, la sua donna di polmonite. Dato la vita che faceva la morte non era certo né un’estranea, né uno spauracchio. Del resto la sua mente dopo anni di droghe di tutti i tipi non aveva più grosse capacità logiche.
Radovan era un giocatore, un sadico e uno sciovinista e non poteva tirarsi indietro di fronte al rischio, per timore di sembrare pavido e disonorare così il suo popolo. Anche per lui la morte era una presenza familiare, data la guerra in cui aveva combattuto, con le milizie del generaleMladic.
Quello che Giorgio non capiva bene era l’atteggiamento di Mirko, così insolito per come lo conosceva.
Non poteva sapere che a Mirko era stata diagnosticata una leucemia fulminate, aveva ancora pochi giorni prima di finire in ospedale dove era destinato a spegnersi velocemente, ma non in modo indolore. Proprio quando la sua vita sembrava aprirgli nuove favolose prospettive, nel lavoro, già si parlava della sua prossima promozione, nelle relazioni umane, aveva da poco conquistato una modella di nobili origini, quando era nel pieno del vigore fisico, tutto doveva finire così. No, non poteva sopportarlo ed era pieno di astio con tutto e con tutti. E pensare che anche qualcun altro se ne andasse prematuramente gli dava una qual certa cinica soddisfazione. E nessuno lo sapeva all’infuori di lui.
La vita con Giorgio non era stata particolarmente avara, ma Giorgio aveva uno sbilanciamento totale tra ragione e sentimento. La sua mente, iper razionale, era sempre attiva ed elaborava continuamente dati alla ricerca del senso profondo e ultimo delle cose. Il suo cuore invece era freddo, non si entusiasmava a nulla, nulla lo coinvolgeva, nulla lo interessava veramente. E il nihilismo era diventato per lui ben più di una filosofia astratta sullo sfondo della sua esistenza, ma l’elemento discriminante di tutta la sua vita, che ovviamente era diventata null’altro che un peso, perché se tutto doveva comunque finire, perché non subito?
Giorgio pescò: una donna.
Immediatamente tutti, fuorché Francesco, calcolarono il giro e rimasero per un attimo come assorbiti dal calcolo, privi di reazione emotive.
Francesco, Marco, Mirko, Alfonso, Giorgio, Radovan. Questo era l’ordine stabilito dal destino.
Dunque Radovan era l’unico vincitore certo. Avrebbe infatti ricevuto la pistola scarica se tutti i cinque colpi caricati nella pistola fossero andati a segno, oppure il gioco sarebbe finito prima, al primo colpo a vuoto. Così era stato deciso.
Alfonso propose che ciascuno dichiarasse il proprio testamento spirituale, ma Giorgio lo stroncò facendo osservare che almeno un attimo prima di morire si aveva ben diritto a non sentire inutili stronzate.
Mirko propose un ultimo giro di grappe. Bevute le grappe Radovan fece fissare a tutti un punto sulla parete e poi con fulminea rapidità lo centrò lanciando un lungo coltello. Recuperò il coltello e lo piantò sul tavolo a portata della mano destra. Il messaggio era chiaro.
Alfonso caricò la pistola, con i cinque colpi. Tutti la controllarono, sempre a parte Francesco. Poi, fatto girare il tamburo, la colt vene nascosta in un sacchetto. Il cane era a ricarica automatica.
E iniziò il gioco, quel gioco assurdo nato per caso, per sfida, da un ritrovo casuale di persone, che in parte si conoscevano in parte no, e che dopo aver bevuto, fumato e giocato al bar erano finite nel casolare di Marco e avevano architettato questa variante terrificante di un gioco già cinico e pericoloso.
Francesco appoggiò la pistola alla tempia, chiuse gli occhi sparò e cadde.
L’odore di polvere da sparo si sparse per la stanza e il sangue innaffiò il pavimento. Il corpo di Francesco era immobile. Tutto ciò aumentò l’adrenalina dei giocatori e li eccitò ancor più. Alfonso raccolse la pistole e la diede a Marco.
Marco titubava. Radovan mise la mano sul manico del pugnale e lo fissò. Marco sputò il mozzicone per terra. Pochi secondi dopo il corpo di Marco giaceva senza vita sul pavimento nella sua brava pozzetta di sangue.
Mirko raccolse subito la pistola, sorrise e con quella stessa espressione piombò al suolo.
L’odore degli spari impregnava ormai completamente l’aria. Giorgio incominciava ad essere infastidito dal rumore degli spari, ma il gioco dopo i lunghi preamboli procedeva ora a ritmo vertiginoso.
Alfonso aveva un occhio che tremava, ma dissimulò, fisso gli occhi torvi e crudeli di Radovan e quelli calmi di Giorgio. Raccolse la pistola, l’impugnò e si sedette. Tirò di scatto la testa indietro e sparò.
Si bruciò la fronte, ma il colpo colpì in mezzo agli occhi Radovan cui cadde il coltello dalla mano già a mezz’aria. Radovan si accasciò sulla sedia. Alfonso si voltò sorridendo verso Giorgio:
- oh, ho sbagliato mira
Giorgio lo fissava con evidente disgusto. Si guardarono a lungo, in silenzio. Poi Alfonso puntò la pistola su Giorgio. Si guardarono ancora.
- Non dici nulla?
Ma Giorgio non rispose.
- beh, è il tuo turno
Si sentì lo scatto della pistola, il colpo a vuoto.
Alfonso rise: ma quanto fortunato sei?
Giorgio rimase ancora fermo a fissare con disgusto Alfonso.
Passarono ancora lunghi attimi di silenzio, in cui Alfonso valutava se poteva trovare un accordo e fidarsi di Giorgio e Giorgio rifletteva sulla bassezza della natura umana.
Infine Alfonso sparò di nuovo. Il colpo colpì Giorgio vicino al cuore.
Un’espressione di dolore e di terrore si dipinse sul suo viso. Cercò di alzarsi, cadde a terra. Il rantolo che gli usciva dalla bocca fu presto soffocato dal sangue che affluiva dal polmone lacerato. Pochi minuti dopo Alfonso era solo in mezzo ai cadaveri.
Sistemò le cose secondo il suo piano e poi diede fuoco al casolare. Si ustionò ad arte le gambe e un braccio, rischiando anche un poco di essere arso vivo dalle fiamme. Ma si allontanò in tempo. Azionò la chiamata di emergenza del cellulare e si sdraiò piangendo per il dolore sul prato. Sapeva che l'ustione era la parte più pericolosa del suo piano, ma non pensava, sarebbe arrivato così vicino alla morte, come scoprì poi dai medici.
Quello che non aveva considerato era che le ossa sono molto resistenti e che i fori dei proiettili sui crani sarebbero risultati così evidenti anche sui teschi anneriti. E se i proiettili si erano fusi come pensava, non altrettanto era accaduto alla pistola. Pochi giorni dopo un poliziotto si presentava nella sua stanza di ospedale per comunicargli il mandato di cattura con l’accusa di omicidio plurimo aggravato.
Alfonso impallidì. Quando il poliziotto, terminata la comunicazione uscì, Alfonso con un balzo raggiunse la finestra, l’aprì e si lanciò nel vuoto. Atterrò sul tetto di una macchina quattro piani più sotto.
Così con la seconda vertebra fratturata, tetraplegico dalla bocca in giù evitò il carcere ed ebbe molto tempo per ripensare alla sua vita e a quel gioco, quell’ultimo gioco in cui aveva vinto. Barando.

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