domenica 25 dicembre 2011

L'ULTIMO SORRISO


Il Papa stava spegnendosi.
Il suo respiro era lento e pesante. Nonostante un velo di sofferenza il suo sguardo era dolce. Non aveva più la forza di parlare, ma i suoi occhi dicevano ancora molte cose. Raccontavano di una vita intensa e di una speranza incrollabile. Intanto una preghiera incessante saliva al cielo da tutta la Chiesa e non solo. In tutto il mondo uomini di ogni credo, che amavano e ammiravano il Papa pregavano per lui i loro dei e seguivano con apprensione e tristezza le notizie sulla sua malattia.
Solo il giovane prete accanto al suo letto non pregava. Aveva pregato anche lui e tanto, nelle settimane precedenti, quando il Papa aveva sofferto molto e aveva pregato negli ultimi giorni per ringraziare il Signore per il diminuire del dolore, rassegnato al parallelo declino, col dolore, della forza vitale del Papa.
Ora però non pregava più.
Non pregava per il Papa, perché lo sapeva Santo ed era persino contento pensando alla gioia che avrebbe avuto il Papa nel veder Dio e questo pensiero era quasi più forte, della tristezza di perdere la sua compagnia.
Non pregava per sé stesso, perché quegli anni accanto al Papa erano stati anni di grazia che lo avevano fatto crescere e fortificare spiritualmente, gli bastava Cristo per non essere mai solo.
Non pregava per la Chiesa, che era più che mai nelle mani di Dio e più che mai santa, grazie anche all’opera del Papa.
Non pregava soprattutto perché era totalmente impegnato a guardare il Papa. Erano le ultime ore in cui poteva farlo. Lo guardava con l’amore di un figlio e di un fratello e cercava nei suoi sguardi stanchi gli ultimi insegnamenti.
Guardava gli occhi neri e tondi. La mascella forte e larga. La fronte spaziosa. I folti riccioli bianchi. Le guance asciutte. Il naso corto e largo. Le labbra carnose. I denti grandi e bianchissimi. Guardava la pelle del colore del mogano. Guardava attraverso le coperte la sua figura lunga e magra e le sue braccia sottili e le mani nodose appoggiate fuori lunghi i fianchi.
Accanto al giovane attendente del Papa, su un’altra sedia, posta contro il muro a un metro e mezzo dal letto sedeva un Cardinale.
Delle 5 lauree che aveva era quella in medicina che l’aveva portato a fianco del Papa, come suo medico, all’insorgere della malattia.
Il Cardinale ormai era conscio che come medico non poteva fare più nulla, ripensava invece alle loro splendide conversazioni.
Le parole del Papa erano sempre così semplice, così chiare, dirette. Vi si leggeva chiaramente la sua vita, perché il Papa non aveva conformato la vita ai suoi ideali, ma viceversa con la sua vita al servizio dell’amore, della verità e della ragione aveva costruito un pensiero di una lucidità, coerenza e completezza che di rado altri grandi uomini, filosofi, teologi o politologi avevano raggiunto.
L’opera del Papa era stata enorme. Aveva portato con la sua sapiente mediazione la pace nelle ultime zone tormentate del mondo e aveva guidato le istituzioni internazionali ad una vera democrazia mondiale, che pian piano stava irradiandosi verso il basso, verso gli ultimi regimi liberticidi ancora esistenti.
La Chiesa poi era uscita trasfigurata dal Concilio Vaticano Terzo che il Papa aveva voluto e portato a compimento.
Era tornata unita, poiché quasi tutte le Chiese Protestanti e Ortodosse si erano riunite con la Chiesa Cattolica, anche se alcune diocesi tradizionaliste, soprattutto in Europa, avevano dato vita ad un nuovo scisma. In realtà ciò che più aveva spinto verso questa divisione era stato l’attaccamento ai beni materiali, di cui la Chiesa Cattolica si era del tutto spogliata. In effetti gli scismatici avevano mantenuto le loro ricchezze,ma avevano perso rapidamente quasi tutti i fedeli e con grande disappunto con essi anche una buona fetta di entrate. Il Vaticano era divenuto un nuovo modello di democrazia e nonostante il sovra popolamento era divenuto uno dei luoghi più piacevoli del pianeta. Ma più rilevanti ancora erano state le modifiche nella struttura ecclesiastica e nella dottrina. Il celibato dei preti era divenuto sconsigliato e si caldeggiava invece o il matrimonio o la vita monastica. Le donne erano state ammesse al sacerdozio ed era stato istituito anche il sacerdozio temporaneo. Così ad esempio molte donne lasciavano il sacerdozio per crescere i figli e poi lo riprendevano quando questi erano grandi. Erano stati aboliti tutti i titoli tranne quello di Vescovo, che però veniva assunto a rotazione, e quello di Cardinale, che pur restando a vita era divenuto elettivo. Il diritto canonico era stato abolito, in quanto l’unica legge valida era stata dichiarata quella della carità, alla luce della quale il Vangelo era sufficiente a dirimere ogni questione. La confessione era sta abolita in quanto il perdono di Dio è garantito a tutti, anche senza intercessione umana. Tutti i dogmi erano stati aboliti, poiché chi crede in Gesù Cristo Dio e nel suo amore e si sforza sinceramente di vivere nella sequela di Cristo è nella comunione dei Santi.
Da queste e da molte altre innovazioni era nata una grande conversione in tutti i cristiani e il mondo, grazie a loro, stava finalmente cambiando veramente.
Il Cardinale ripensava all’emozione del Papa mentre spiegava:
Nell’Eucarestia non viene trasformato il pane, né chi lo mangia, ma l’insieme dei fedeli che partecipa al sacrificio di Cristo e ne diviene il corpo, mistico, ma anche fisico, benché collettivo. Questo è un prodigio ben più grande. E se lo capissimo non potremmo che amarci l’un altro come egli ci ama.”
Improvvisamente il Papa ebbe un rantolo, aprì gli occhi, sorrise e il suo respiro si fermò.
Subito capirono che era morto e il giovane prete esclamò: ha visto Dio.
Il Cardinale constatò il decesso e chiusi gli occhi al Pontefice uscì per dare l’annuncio al mondo. Il giovane prete guardò ancora un attimo il Papa gli strinse le mani, gli accarezzò il volto, gli disse addio. Poi sorridendogli per l’ultima volta lasciò solo il guscio ormai vuoto in cui era stato il suo Papa.
Anche il Papa guardava con occhi nuovi tutta la scena insieme a Dio e sorrideva al giovane prete, al cardinale medico e a sua moglie che dopo pochi giorni gli sarebbe succeduta, come prima donna, alla guida della Chiesa.

domenica 18 dicembre 2011

LA MINIERA DELLA RICCHEZZA


Un uomo seduto per terra, con la schiena appoggiata ad un albero, piangeva piano e grosse lacrime calde gli rigavano il viso. Quell’uomo si chiamava Pog.
Gänfihel, un elfo dei boschi, che passava di lì, ebbe compassione di lui e si fermò. “Perché piangi così?” gli chiese. “Perché sono povero, ho sempre avuto sfortuna nella vita e dopo aver faticato per nulla, ora conduco un’esistenza misera.” “Non mi pari affamato, né infreddolito, né malato” ribatté l’elfo. “No certo – rispose l’uomo – questa valle è così ricca di frutti e di erbe che basta girare per i boschi e per i prati per avere di che vivere, il clima è mite e io so cucirmi i vestiti. Il problema è che tutti in questa valle hanno una bella casa di legno e almeno un carro trainato da cavalli, mentre io vivo in una capanna di paglia e giro sempre a piedi”. “Mi rendo conto – rispose Gänfihel – che voi uomini avete di queste strane esigenze e sento che sei una persona buona e sincera e anche volonterosa, perciò ti voglio aiutare. Ti svelerò un segreto. Se scaverai proprio qui di fronte nel fianco della montagna, troverai una grande ricchezza. Attento però, non sarà un’impresa facile, ma dovrai scavare e scavare e scavare ancora e ancora. Solo dopo un enorme lavoro e un’immane fatica, se avrai la costanza di continuare a scavare, potrai avere la ricchezza di cui ti parlo.
Pog tutto contento ringraziò Gänfihel, corse a prendere pala e piccone e iniziò subito a scavare. Scavò tutto il giorno e il giorno seguente e quello dopo ancora. Poi iniziò a scavare anche di notte, perché la miniera era diventata così profonda che non giungeva più nel suo fondo la luce del sole. Pog si fermava a dormire solo quando era stremato e usciva dalla miniera solo per raccogliere il cibo che poi portava nella miniera per sostentarsi durante gli scavi.
Passarono le settimane, settimane di grande lavoro. E un giorno trovò una vena di ferro. Tutto contento l’uomo pensò al bel carro e agli splendidi cavalli, che avrebbe potuto acquistare vendendo il ferro. Dopo un po’ però gli tornarono in mente le parole dell’elfo. Aveva parlato di “una grande ricchezza” e aveva anche raccomandato di “continuare a scavare”. Forse non era proprio quella la grande ricchezza di cui aveva parlato l‘elfo. E Pog riprese a scavare.
La roccia ferrosa era più dura e scavare diventò ancora più faticoso, l’uomo procedeva più lentamente, ma continuava a scavare. Dovette costruire una grande gerla per portare le provviste di acqua e di cibo, perché la miniera era ormai molto profonda e il viaggio verso l’esterno era lungo.
Passarono i mesi e un giorno Pog trovò una vena di rame. Tutto contento pensò alla lussuosa casa di legno che avrebbe potuto comprare con i proventi della vendita del rame. Ma poi, passato il primo entusiasmo, di nuovo si chiese se quella vena di rame fosse una ricchezza così grande come aveva promesso Gänfihel. E così riprese a scavare.
Si spinse tanto profondamente nel cuore della montagna che dovette costruire un carretto per riuscire a trasportare tutte le scorte che gli servivano per vivere nella miniera per periodi sempre più lunghi.
Passarono le stagioni e un giorno Pog trovò una vena d’argento. L’argento è un metallo prezioso e l’uomo vide la sua casa più grande e ricca e circondata da un bellissimo giardino con mille alberi da frutto e fiori esotici. Ma ormai la fatica sopportata era tale che non gli sembrò più sufficiente nemmeno questo premio. La ricchezza non gli apparve ancora abbastanza grande e proseguì.
Un giorno, mentre nelle ormai sempre più rare uscite all’aperto raccoglieva cibo nel bosco, vide un asinello caduto in una fossa. Lo liberò e lo curò. L’asinello così divenne il suo compagno e tirava per lui il carretto con le provviste.
Passarono gli anni, ma l’uomo non si avviliva né si stancava e continuava a scavare nella montagna alla ricerca della grande ricchezza. E un giorno trovò una vena d’oro. Con un metallo così prezioso, avrebbe potuto comprare intere campagne e assumere dei braccianti che lavorassero per lui e servitori per la sua casi e autisti per le sue carrozze e avrebbe potuto passare il resto della sua vita riposando negli agi.
Ma così a lungo e così tanto aveva faticato, che pensò il resto della sua vita non gli sarebbe bastato per riposare. A cos’erano dunque serviti tutti quegli anni di fatiche e di sacrifici? Gli elfi sono saggi e sinceri: no non poteva essere neppure quella la grande ricchezza promessa da Gänfihel. E Pog riprese a scavare con ancora maggior vigore.
L’asino aveva imparato a raccogliere il cibo e a riempire il carretto, così l’uomo smise del tutto di uscire dalla miniera.
Passarono i decenni. E Pog scavava e scavava. E un giorno la roccia si fece tenera e quindi all’improvviso franò davanti a lui. E Pog si ritrovò all’aperto. Aveva infatti perforato l’intera montagna ed era giunto sul versante opposto.
L’aria era profumata e i pendii coperti di larici e di abeti, mille ruscelli scendevano spumeggianti nella valle e i canti degli uccelli si rincorrevano con il vento nel cielo azzurro. Dopo tanti anni al buio a scavare nella roccia tutto apparve meraviglioso a Pog: i fiori e le montagne, gli insetti e le nuvole, il sole e l’erba.
Commosso l’uomo pensò: questa è la grande ricchezza promessa da Gänfihel, cosa può esserci di più meraviglioso di tutto ciò? Insieme al suo asino Pog scese nella valle.
Lì vide un uomo che sprangava la sua casa mentre la moglie e i figli l’aspettavano già sul carro con tutti i loro averi. “Come mai partite, lasciando una valle così bella?” chiese sorpreso Pog. E il giovane gli rispose: “La valle è bella, è vero e il legno è buono, ma oltre al legno e ai funghi non v’è altro in questa valle e i pascoli sono magri, invece abbiamo saputo che al di là della montagna esiste una valle in cui abbondano gli alberi da frutto e i cespugli di bacche mangerecce, le erbe e i tuberi commestibili, patate e tartufi, asparagi e radicchi ed erba pregiata per il bestiame. Così andiamo lì a cercare la fortuna. Ma voi sembrate così stanco. Vi prego prima di proseguire il vostro viaggio, che deve essere ben lungo e spossante, fermatevi nella nostra casa a riposare se come dite vi piace questa valle”.
Il giovane partì e Pog molto confuso e stupito della generosità del giovane si stabilì nella sua casa. Guardandosi allo specchio si accorse di essere ormai vecchio. Che strano – pensò - ho passato la vita a faticare per raggiungere una ricchezza che avevo a portata di mano eppure non mi dispiace: in fondo dalla disperazione in cui ero prima di iniziare a scavare la miniera ho poi trascorso la mia vita sempre con la speranza e l’entusiasmo come compagni.
Così finalmente soddisfatto con il suo asino tornò nella miniera, riempì il carro di oro e tornò nella sua valle. Ritrovò il giovane con la sua famiglia, divise con loro la sua ricchezza e visse insieme a loro una lunga serena e agiata vecchiaia e Gänfihel di tanto in tanto passava a trovarlo come un vecchio amico

domenica 11 dicembre 2011

L’ULTIMA MAGIA


In una immensa pianura, sulle sponde di un grande fiume sorgeva un tranquillo villaggio. Poco fuori dal villaggio in un boschetto di tigli e di querce viveva un vecchio mago scontroso.
Tutti al villaggio lo conoscevano come il mago Balthus, ma in realtà pochi credevano fosse veramente un mago, perché, a memoria d’uomo, nessuno ricordava una sua magia. Di tanto in tanto però dei viaggiatori giungevano da paesi lontani chiedendo di lui e raccontavano che, moltissimi anni prima, nei loro paesi, il mago Balthus aveva operato grandi prodigi.
Il vecchio mago dal canto suo rimandava sempre via in malo modo tali viaggiatori e si teneva alla larga anche dagli abitanti del villaggio.
Solo i bambini andavano spesso e volentieri a trovarlo. Infatti anche se era un po’ burbero, il mago giocava pazientemente con loro e aveva mille cose strane, bizzarre e divertenti, che facevano la felicità dei bambini.
Su tutta la grande pianura venne un anno sfortunato che portò con sé una grande siccità. Le piogge d’autunno infatti non si videro, né la neve d’inverno e a primavera ancora il cielo rimase senza una nube. Così quando giunse l’estate il grande fiume era completamente asciutto, le riserve d’acqua nei campi erano esaurite, le piante rinsecchivano e gli animali erano stremati. Gli uomini non potevano nemmeno lavarsi, anzi già cominciavano a soffrire essi stessi la sete perché non v’era più nulla da bere e poco ormai anche da mangiare.
Tutti erano disperati e non sapendo più cosa fare andarono dal mago Balthus a supplicarlo di aiutarli.
Il mago Balthus da principio cercò di mandarli via, ma quando i bimbi vennero piangendo a tirarlo per le brache non seppe resistere. E accettò di parlare con la gente del villaggio.
Spiegò loro di aver giurato di non esercitare più la magia perché in gioventù ad ogni suo sortilegio, fatto per il bene delle persone, erano seguite direttamente o indirettamente delle sventure ancora più grandi che egli non aveva saputo controbattere con le sue arti magiche.
La gente del villaggio lo supplicò di nuovo:
Se tu non fai nulla, noi moriremo tutti di sete, cosa può succedere di peggio? Se ci farai sopravvivere alla siccità non ti faremo nessuna colpa di tutto ciò che potrà accadere dopo e risolveremo qualsiasi problema con le nostre sole forze.”
Così il mago ruppe il suo giuramento e scagliando formule magiche contro il cielo chiamò a raccolta le nubi. Ben presto cominciò a piovere copiosamente.
La gente fece una grande festa, ma Balthus non ne volle sapere e si rintanò nel suo rifugio.
Dopo una settimana di pioggia qualcuno incominciò ad avere qualche dubbio. Dopo due settimane, il villaggio era già allagato e la corrente sempre più forte minacciava di travolgere case, bestie e persone.
La gente nonostante le promesse fatte tornò a rivolgersi al mago. Balthus, dopo averli sgridati per bene, prese una bottiglia e vi buttò dentro alcuni bocconi di cibo: pane, frutta e verdura, semi e fieno. Poi riunì tutti gli abitanti del villaggio e i loro animali al centro della sua casa, sopra un grande tappeto e con una magia li rimpicciolì e li ficcò dentro la bottiglia. Quindi si trasformò in un’anatra e, presa la bottiglia nel becco, si mise a svolazzare e a nuotare sopra il villaggio ormai completamento sommerso.
Dopo un’altra settimana di pioggia il cielo si riaprì, il sole tornò a splendere e le acque a ritirarsi.
Il villaggio era tutto infangato, ma ancora incredibilmente intatto e anche gli alberi erano ancora al loro posto, anche se un po’ patiti.
L’anatra-mago si levò in volo e fece cadere la bottiglia, che arrivata a terra si ruppe e tutti coloro che vi erano dentro ripresero le dimensioni normali.
Balthus, sempre in forma di anatra, starnazzò forte e volò via e nessuno ne seppe più nulla.

domenica 4 dicembre 2011

IL GRANDE OCCHIO


Un mattino di tanti anni fa comparve nel cielo un grande occhio.
Il primo ad accorgersene fu il panettiere, che si prese un bello spavento, quando, come era solito fare, tra un’infornata e l’altra, guardò dalla finestrella della sua bottega per controllare il cielo e capire che tempo avrebbe fatto quel giorno e invece del cielo vide quell’enorme occhio che lo fissava. Poi coraggiosamente si sporse dalla finestra e vide che l’occhio se ne stava lassù, in alto nel cielo.
Subito dopo lo videro i mungitori uscendo dalle stalle dopo aver munto, abbeverato, foraggiato le vacche e dopo aver ripulito le stalle, lo vide poi il postino che inforcava la sua bicicletta per il giro della posta e l’oste che apriva la sua fumosa locanda per i primi caffè.
Le lavandaie e i garzoni, i bambini che andavano a scuola o all’asilo, ben presto tutta la valle se ne stava sbigottita con il naso per aria a fissare quell’enorme occhio che guardava giù in basso.
Poi pian piano gli abitanti della valle cominciarono a guardarsi tra loro e a domandarsi cosa significasse quell’occhio, perché fosse comparso così all’improvviso, cosa guardasse e se presagisse fortune o sciagure.
E i pareri e le reazione della gente si moltiplicarono velocemente. Così dalla chiesa cominciarono ad uscire processioni di supplicanti che annunciavano che l’occhio di Dio era puntato su di loro a causa dei loro peccati ed era necessario convertirsi e agire rettamente per evitare il castigo divino. Ma dall’altra porta della chiesa uscivano altre processioni che ringraziavano Dio per aver volto il proprio occhio sulla valle in segno di benevolenza e annunciavano la fine di ogni male e la necessità di lodare Dio per tale privilegio.
Gruppi di persone pensando che l’occhio fosse giunto a spiarli da un lontano pianeta per conto di un popolo di extraterrestri pronti ad invadere la terra cominciarono ad armarsi e ad esercitarsi nel combattimento e a sfilare in minacciose parate per intimorire l’occhio e gli invasori spaziali, ma altri invece organizzavano feste di benvenuto ai visitatori delle stelle che pensavano sarebbe scesi in amicizia portando un enorme progresso se l’occhio avesse riportato loro le intenzioni pacifiche dei terrestri.
I filosofi costruirono dotte teorie ontologiche, gnoseologiche ed epistemologiche sull’occhio, mentre gli scienziati analizzavano ogni cosa per verificare eventuali influssi dell’occhio sul clima, sulle piante, sugli animali e sulle persone e i più arditi provarono con specchi e fumi a infastidire l’occhio per vederne le reazioni, ma senza ottenere alcun risultato.
Alcuni si chiesero se l’occhio apparisse solo nella loro valle o anche altrove e andarono a verificare, scoprendo che solo nella loro valle l’occhio era visibile. Così pensarono di sfruttare l’occhio per fini turistici e pensavano già di ribattezzare la valle: “Valle del grande occhio”. Ma quando andarono nelle altri valli ad invitare la gente ad andare ad ammirare il grande occhio nel cielo, tutti li presero per pazzi o per dei truffatori e anche chi mostrò di credere all’esistenza dell’occhio nel cielo, accampò motivi di affari o di salute e se ne restò a casa propria.
Alcuni anche nella valle rifiutavano l’esistenza dell’occhio e dicevano: “E’ solo un miraggio”.
Le mamme cominciarono a dire ai bambini: “Stai attento a fare il bravo, perché l’occhio ti vede” e la gente dava la colpa o il merito all’occhio di ogni cosa insolita o anche no che accadeva: “Grazie all’occhio il raccolto è stato buono” o “Che tempaccio ci mandi maledetto occhio”.
Tutto questo fermento però pian piano si spense, tutti si abituarono all’occhio e incominciarono a guardarlo di rado, distrattamente. Lo guardavano meno ancora delle nuvole, perché, pur essendo diventato normale come quelle, però a differenza delle nubi non cambiava mai e tutte le cose nella valle procedevano come al solito.
Passarono gli anni e una bimbetta, nata già dopo l’apparizione del grande occhio, ne restò affascinata. Lo guardava spesso e gli parlottava strizzandogli l’occhio, finché l’occhio iniziò a rispondergli con delle enormi strizzate, ma solo quando nessun altro lo guardava.
La bimba crebbe, divenne una bellissima ragazza che civettava con l’occhio sbattendo veloce le palpebre e quello rispondeva roteando la pupilla e facendo l’occhiolino.
Un giorno la ragazza conobbe un viaggiatore, se ne innamorò e partì con lui verso paesi lontani. L’occhio seguì la ragazza sparendo per sempre dalla valle.
La gente si accorse che l’occhio era sparito, ma nessuno vi fece molto caso. “Com’è venuto se n’è andato”, “Non ci ha portato nulla né di buono né di male e nulla né di buono né di male ci lascerà andandosene” si dissero. Così come nessuno aveva mai capito perché era venuto, nessuno capì mai perché se ne fosse andato.

domenica 27 novembre 2011

LA BARBA DEL RE


C’era una volta un paese felice, governato da un re saggio. Tutti lodavano la sua saggezza e il figlioletto di questi sentendo ciò chiese a suo padre come dovesse fare per divenire anche lui, da grande, un re saggio.
Il re, commosso per i nobili propositi del bimbo gli rispose “Non preoccuparti figliolo, a quanto vedo non sarà difficile per te divenire saggio, vedrai, quando ti crescerà la barba anche la saggezza crescerà con essa”.
Il re purtroppo morì presto e il principe divenne re, ancora molto giovane. Aveva già capito che suo padre intendeva dire che la saggezza sarebbe cresciuta in lui con l’età, ma quelle parole gli restarono così care, che decise di non tagliarsi la barba.
Il nuovo re si sforzò in ogni modo, nonostante la giovane età di comportarsi saggiamente e ci riuscì molto bene, tanto che il regno fiorì come non mai e tutti si affezionarono molto a lui.
Passarono gli anni e il re divenne vecchio, molto vecchio, così vecchio che nessuno nel regno era più anziano di lui. La sua barba crebbe lunghissima, divenne bianca e crebbe ancora, fino ad arrivare al terzo gradino del trono.
Un giorno però anche il vecchio re saggio morì e la barba gli cadde al momento del suo ultimo respiro e rotolò giù dal trono circondandolo in un cerchio.
Il re aveva badato solo a curare il suo regno e non aveva moglie né figli, così non vi era nessuno che potesse vantare il diritto a succedergli.
Nacquero grosse liti per ereditare il regno tra i nobili, ma presto nessuno aspirò più al trono. Infatti ogni qualvolta un candidato riusciva ad imporsi e cercava di insediarsi sul trono, appena oltrepassava la barba moriva. Allo stesso modo chi cercava di spostare la barba restava fulminato sul posto.
Il regno senza una guida fu presto in preda al caos. I potenti e i prepotenti oppressero il popolo, ma ben presto la miseria crebbe a tal punto che il popolo si ribellò e scacciò tutti i signori e distrusse le loro proprietà e nel paese restarono solo disordine e miseria, paura e fame, tanto che nessuno dei regni vicini cercò di impossessarsi del paese.
Un giorno un cantastorie giunse nel paese e vedendo la grande miseria chiese il perché di quello stato di cose. Scoperta la situazione volle andare a visitare la sala del trono, dove molte persone sostavano pensose e guardavano con rabbia la barba del vecchio re.
Il cantastorie ispirato, compose una canzone sulla storia del re, della sua barba e del suo paese. Così bella e struggente era la musica e così intense le parole con cui il cantastorie descriveva la loro situazione, che tutte le persone presenti scoppiarono a piangere e tanto piansero che il pavimento si bagnò e quando le lacrime raggiunsero la barba questa si sciolse.
Ci fu un grande fermento, ma nessuno ancora osava superare la linea immaginaria dove prima stava la barba e così chiesero al cantastorie di provare a sedersi lui sul trono. Questi non ci pensò su due volte, sedette sul trono e fu proclamato re dal popolo festante.
Divenuto re restituì ordine e prosperità al paese, ma non prima di essersi sposato ed avere assicurato una discendenza alla sua corona.

domenica 20 novembre 2011

LA LUCE NEGLI OCCHI


Sparivano subito, tra la polvere e le crepe della terra riarsa, le grosse gocce che cadevano dal corpo infuocato dell’uomo. Quando la Rupe mise fino al supplizio dei raggi affilati del sole a spaccargli la testa era ormai completamente senza forze. Si chiedeva se davvero fosse lui a sollevare e trasportare i grossi sassi o non piuttosto il contrario. L’aria sottile e povera di ossigeno si fece velocemente sempre più gelida. Il sole era tramontato e i suoi compagni più sotto lo chiamavano mentre si mettevano in marcia verso il villaggio. Come al solito, pensò, ora avrebbe finalmente raccolto il fazzoletto che aveva contenuto il suo unico magro pasto, avrebbe iniziato lentamente e faticosamente a scendere giù dai campi alti lungo il ripido pendio insieme ai suoi pochi compagni. Il cervello annebbiato, pietosamente, non avrebbe captato appieno le precise sensazioni di ogni nervo: il suo corpo era dolore. Tutt’intorno pietre.
Poi entrando nel consunto villaggio avrebbe incrociato gli occhi tristi dei bambini affamati e le membra cadenti di corpi precocemente invecchiati che, come lui, si trascinavano verso i miseri tuguri dopo una giornata di lotta sisifica contro la natura crudele di quella terra maledetta.
Giunto davanti alla sua casupola di pietra avrebbe piegato la bocca in una smorfia nel tentativo di rispondere al triste sorrise di lei. Non era mai stata una bella ragazza, anzi, non era mai stata propriamente una ragazza, come nessuna della sua gente. L’uomo stesso, vecchio già quasi prima di essere adulto , non era conscio di ciò, attratto com’era morbosamente da quella ragazza, di cui persino gli occhi, parevano vivi.
Anche quella sera adagiato vicino al fuoco, con la ciotola non meno vuota dello stomaco, ma meno raggrinzita, avrebbe cercato di non respirare nemmeno, per non sollecitare i muscoli ardenti. Ma quando la pressione dei suoi seni lo avesse scosso si sarebbe subito mosso a cercare le sue labbra. Mentre le due bocche si stavano schiudendo nella sua mente un boato e un tremito del suolo lo costrinsero a tornare alla realtà.
Un’enorme massa nera scendeva con rabbia dalla Rupe sui campi alti, percuotendo la valle come un tamburo. Lui restò impietrito a guardare l'enorme frana che si abbassava a ingoiarlo. Spentosi l’eco e le ultime vibrazioni tutto restò immobile e muto per un tempo indefinito. I compagni salirono sulla frana e si guardarono intorno. Poi scesero al villaggio.
Tutto il villaggio immobile fissava il silenzio, mentre la polvere lentamente ricadeva su di loro.
La ragazza li vide arrivare e cercò la sua sagoma. Loro la videro e scossero la testa. Le altre donne le si fecero incontro e l'abbracciarono.
Lei chiuse gli occhi e respirò. Respirò a lungo. Contemplò la Rupe poi rientrò in silenzio nella sua capanna, ma senza più luce negli occhi.

domenica 13 novembre 2011

CONDANNA ETERNA


Mentre guardava il volto del figlio la madre ripensò a quella notte di 18 anni prima in cui l’aveva visto bagnato e urlante affrontare la vita.
La vita a cui lei lo aveva portato, quella stessa vita che ora l’aveva abbandonato.
Ripensò al momento in cui si era resa conto di essere incinta, alla sorpresa e alla gioia profonda. Era giovane appena sposata, non aveva ancora percepito in modo chiaro la sua vocazione di madre, ma in quel momento l’aveva scoperta con una forza enorme e inaspettata.
Ripercorse quei nove mesi, appena disturbati da qualche nausea, dall’impaccio nei movimenti e dagli altri piccoli classici disagi, ma illuminati dalla speranza, dalla gioia di sentire una creatura viva dentro di sé. Ricordò con piacere anche l’affetto del marito, che le carezzava il ventre delicatamente e la copriva di mille attenzioni, ancor più di quanto già prima non facesse.
Il bimbo era poi nato sano ed era cresciuto, regalando innumerevoli soddisfazioni ai genitori. Nonostante le notti insonni, le ansie per le malattie e tutte le classiche preoccupazioni che danno i bimbi, la madre avrebbe rivissuto volentieri tutto questo. Ma se tutto era andato bene, fino al momento del parto, proprio come lei si era immaginata, il distacco della placenta aveva cambiato il corso degli eventi: emorragia, intervento di urgenza, preclusione totale e definitiva ad altre gravidanze. Questo aveva probabilmente acuito il legame della madre con quel suo primo e, per forza di cose, unico figlio.
Poi era giunto il secondo colpo del destino. Il figlio aveva 11 anni, e frequentava da pochi mesi la prima media. La madre lavorava come ragioniera in un grosso studio medico. Avevano una bella bifamiliare in periferia. Tutto insomma andava per il meglio. Anche il marito era soddisfatto della sua famiglia, del suo lavoro, della sua vita.
Guidava con prudenza, come suo solito, tornando dal lavoro, un po’ più tardi per via di quella noiosa riunione. Nell’altra corsia l’autista del furgone non ebbe tempo di reagire alla fitta di dolore che gli bruciò nel petto. Così finì per spegnere il dolore, insieme alla sua vita, contro la vita del marito in un terribile scontro frontale.
Il colpo fu durissimo. La madre cercò di farsi forza per il bene del figlio.
Questi da parte sua iniziò ad essere aggressivo con i compagni e indisciplinato con gli insegnanti, come non era mai stato prima. Da principio tutti cercarono di essere comprensivi dato il difficile momento del ragazzo.
Fino a quella sera in cui la madre fu chiamata in questura, dove suo figlio veniva interrogato insieme ad altri ragazzini della sua età, o poco più grandi, in merito ad alcuni vandalismi che da qualche tempo si ripetevano nel quartiere.
Il figlio la passò liscia in quell’occasione, ma fu chiaro a tutti che il ragazzo stava prendendo una brutta piega e frequentava compagnie poco edificanti.
A nulla servì passare alle maniere forti, il figlio ormai era divenuto quello che si definisce un ragazzo difficile. A scuola riusciva ad avere un profitto sufficiente, grazie alla sua vivace intelligenza e non certo all’impegno profuso.
All’ultimo anno delle superiori il figlio si era messo insieme ad una ragazzina molto carina, ma ancor più irrequieta.
Veniva da una famiglia completamente dissestata: il padre era fuggito e aveva tagliato ogni rapporto, un fratello maggiore era in carcere, un altro era eroinomane in trattamento, i fratelli e le sorelle più piccole era seguiti da un assistente sociale.
L’assistente sociale, diversamente da ciò che purtroppo sovente accade, cercava di migliorare la situazione nella casa per non separare i piccoli da quel resto di famiglia, che in qualche modo riusciva ancora a tirare avanti.
Un giorno la madre si ritrovò la ragazzina, appena maggiorenne, in casa e visto che l’eroica madre di lei si dichiarò favorevole alla cosa, accettò di tenersela in casa, anzi le assegnò una camera, cosa che però non servì a non farla dormire nel letto del figlio, come la madre aveva sperato.
La madre sapeva che accettare l’incomoda situazione era l’unico modo per non perdere i contatti con il figlio e poterlo così almeno un po’ controllare e aiutare.
Dopo alcuni mesi la madre incominciò ad avere dei sospetti e in breve scoprì che l’eroina era ormai padrona dei due ragazzi.
Si infuriò parlò con medici e operatori di comunità terapeutiche, ma nonostante tutto tenne i ragazzi in casa, in attesa di trovare un posto in cui mandarli per la disintossicazione. Cosa che peraltro i ragazzi rifiutarono categoricamente.
Erano passate solo un paio di settimane e quella sera rientrando a casa aveva trovato la porta aperta, era corsa dentro e aveva trovato il figlio riverso in una pozza di sangue e la sua ragazza distesa per terra poco più in là coperta di lividi.
Mentre la madre teneva la testa del figlio morto ripensando a tutte queste cose, sentiva la sua stessa vita sfiorire, perdere di senso.
Dovette invece riprendere subito il coraggio in mano per assistere la ragazza, rimasto ormai sola.
Lei era stata picchiata selvaggiamente, ma si sarebbe ripresa nel giro di qualche mese, giusto in tempo per raccontare alla sua nuova madre tutta la storia prima di morire di overdose.
Per procurarsi i soldi per la droga aveva deciso di prostituirsi e il figlio aveva assunto il ruolo di protettore.
E questo aveva fatto: aveva protetto la sua donna, quando il protettore che controllava il viale su cui la ragazza si era appostata, l’aveva aggredita.
Aveva colpito duro con la catena di ferro e il protettore era rimasto morto là sull’asfalto.
I ragazzi erano subito fuggiti. Purtroppo per loro quello non era un qualsiasi lestofante, era il figlio del boss della zona.
Rapide ricerche nel mondo dei tossici e i sicari del boss aveva raggiunto il ragazzo e l’avevano giustiziato.
Mentre la madre piangeva di nuovo su un cadavere, questa volta quella della ragazzina, cui s’era suo malgrado affezionata, giunse la visita di Lucifero.
Il Diavolo si presentò senza tanti preamboli e le mostrò il figlio che bruciava nell’inferno:
se vuoi può salvarlo, perché io godo dell’ingiustizia. Se dunque tu che sei una persona retta mi darai la tua anima in cambio io libererò la sua, che si era ben meritato l’inferno.
La madre non dovette pensare a lungo per trovare una risposta al problema prospettatogli dal demonio.
Lei amava il figlio più di se stessa e non poteva esserci per lei gioia nell’aldilà sapendo che il figlio era nei supplizi eterni, viceversa il pensiero della salvezza del figlio poteva essere un conforto anche nei tormenti dell’inferno. Così la madre accettò il patto diabolico.
La sera stessa Satana, le portò un abito adatto e l’accompagnò ad un club. Cenarono insieme. Poi il Diavolo le presentò il proprietario del locale, il boss che aveva sentenziato la morte del figlio, e dopo aver parlottato con lui se ne andò.
La madre era decisamente una bella donna e nonostante i grandi dispiaceri degli ultimi mesi dimostrava ancora qualche anno in meno.
La madre fu accompagnata dal boss in una camera e qui vendette il suo corpo prima a lui, poi in rapida successione a diversi altri uomini.
Quando lasciò il club con il compenso della nottata era decisa a non mettere mai più piedi lì dentro, umiliata, spossata e dolorante come era nel corpo e ancor più nello spirito.
Il Diavolo però l’attendeva fuori dal locale, la riaccompagnò a casa, le ricordò il patto e le diede appuntamento per la sera dopo. La madre restò quasi un’ora sotto la doccia, poi crollò sul letto e dormì un sonno pieno di incubi angoscianti. Quando la sveglia suonò il mattino dopo scoppiò in lacrime. Telefonò all’ambulatorio e si diede malata.
Dopo un paio di notti di lavoro al club, notti che la madre sopportò solo pensando ai tormenti del figlio nell’inferno, tormenti cui lei stessa doveva abituarsi e quello era un magnifico viatico, dopo queste due notti il boss le annunciò che i clienti del club gradivano vedere ragazze sempre nuove e la affidò a un protettore perché la portasse sulla strada.
Questi, un uomo enorme e orribile, la fece montare in macchina e si abbassò i pantaloni.
Se non sai come si fa ti spiego io - la canzonò poiché esitava.
Avanti - le sussurrò all’orecchio Satana, impedendole di fuggire.
Trattenendo i conati di vomito la madre fece quello che le era richiesto. Quindi fu costretta a portare il protettore a casa sua. Il protettore pretese una copia della chiavi di casa quindi le spiegò le tariffe e la portò sulla strada.
Io sono l’unico che può aiutarti qui fuori, ma attenta se ti metti contro di me nessuno potrà aiutarti – la minacciò prima di eclissarsi.
In strada faceva freddo, le macchine rallentavano, occhi avidi si posavano su di lei e poi, per lo più, con suo grande sollievo proseguivano. Alcune colleghe vicine attiravano i clienti , mostrando le parti intime e promettendo prestazioni di tutti i generi. Quella notte ebbe quattro clienti.
La mattina dopo, la madre andò a licenziarsi. Negli occhi di tutti i suoi ex colleghi un misto di pena, curiosità e di orrore, perché era evidente che qualcosa di terribile le stava accadendo.
Il Diavolo che invisibile e silenzioso seguiva la donna tenne tutti immobili e nessuno osò pronunciare parola, né avvicinarsi alla madre.
La madre piangeva tutto il giorno, tormentata dalla voce del Maligno che le ripeteva anche durante il sonno: la tua anima è mia. Poi la sera andava al suo nuovo lavoro, che la disgustava ogni volta come la precedente.
Una sera un cliente chiese un servizio che nessuno ancora le aveva chiesto e lei rifiutò.
Lì vicino però c’era una della favorite del protettore, che sentì tutto. Così la sera dopo il protettore si appartò con lei e dopo averla picchiata per bene la obbligò, con molta brutalità, a ciò che il cliente della sera prima le aveva richiesto. Quindi prima di riportarla sulla strada, la informò che quella notte tutto il ricavato lo avrebbe trattenuto lui, come risarcimento e ammenda per la sera prima. Ma le cose dovevano andare diversamente.
Il primo cliente che si fermò era molto nervoso.
Sali - le disse. 100 mila - cominciò lei.
Sì, sì, sali adesso - la interruppe lui. Lei salì.
Lui si inoltrò con la macchina nelle stradine che portavano nel fitto della boscaglia. Fermò la macchina.
Spogliati - le disse.
Lei obbedì. Quando fu completamente nuda, l’uomo le chiese di scendere dalla macchina.
Lei lo fece e lui la seguì. Lei stava in piedi, nuda, guardando nel vuoto, dietro al corpo dell’uomo che le stava di fronte.
Girati - fu il nuovo ordine del cliente.
Rabbrividendo un attimo per il freddo si girò rassegnata a subire qualsiasi cosa volesse farle.
Non si aspettava però di sentire il lampo di dolore che le travolse la mente nell’istante in cui la lama del coltello le squarciava il collo. La bocca le si riempì di sangue, gli occhi si offuscarono e intravide il ghigno feroce e rabbioso del demonio davanti a sé mentre chiudeva per l’ultima volta gli occhi.
Un attimo dopo si sentì meglio.
L’aria era profumata e vi era come una soffusa melodia.
Aprì gli occhi: tutt’intorno vi era luce.
Poi vide il figlio e la sua ragazza.
Ciao mamma.
Ciao.
La madre non riuscì a rispondere ai saluti, si commosse, abbracciò il figlio e accarezzò anche lei.
Stavano bene, sorridevano.
La madre lanciò uno sguardo interrogativo al figlio.
Sì, mamma questo è il paradiso.
La madre sorrise e interrogò ancora silenziosamente il figlio.
Non esiste l’inferno, mamma. Il demonio ha potere solo sulla terra, ma poi tutte le anime arrivano qui, perché Dio ci ama.
Una lacrima di felicità solcò il volto della madre. Poi il pensiero tornò per un istante sulle sue pene recenti:
Perché allora, se Dio ci ama, ha dato la Terra in potere a Satana?.
Vieni e capirai– la prese per mano e lo stesso fece la ragazza.
Un istante dopo la madre vide il volto di Dio e capì e gioì e gioì e gioì ...

domenica 6 novembre 2011

PRIMITIVI


E quelli strani copricapi che hanno tutti – esclamò Zagor.
Non sono copricapi, sono peli – ribatté subito la sinto-voce guida.
Peli? – sibilò decisamente disgustata Puiny.
Ma non sono uomini? – chiese severo Zagor, voltandosi verso il centro della stanza.
Lì subito si materializzò l’ologramma sorridente della Guida, in forma di androide asessuato:
Uomini, sì, sono uomini, ma di quasi 1.000 anni fa. A quel tempo gli uomini avevano ancora alcune zone del corpo coperte di pelo e in particolare i peli della testa, che venivano chiamati capelli, erano considerati una parte molto piacevole del corpo e venivano lasciati crescere e acconciati in vari modi.
Puiny rideva divertita, mentre Zagor scuoteva la testa glabra ancor un po’ incredulo mentre gli ologrammi che passavano per la stanza mostravano vari uomini e donne con capigliature varie.
A un tratto nella folla ricreata dal sinto-gramma da vecchi filmati digitali del museo centrale comparve una donna con un enorme pancione che si muoveva goffamente.
Che cos’ha quella donna? - chiese subito Zagor.
Immediatamente gli ologramma ambientali si dissolsero e ricomparve semplicemente l’immagine della donna, questa volta finalmente senza quei buffi vestiti, a cui si affiancò l’immagine di un uomo, anch’egli, come era logico in un ambiente chiuso, nudo.
La sinto-voce iniziò con calma la spiegazione mentre gli ologrammi mostravano praticamente, con l’ausilio di spaccati anatomici animati, quanto la voce guida andava rivelando agli stupefatti bambini:
Un tempo gli uomini si riproducevano proprio come gli animali, accoppiandosi tra di loro l’uomo immetteva delle speciali cellule chiamati spermatozoi nel corpo della donna, dove si trovavano altre cellule particolari dette ovuli. Dall’incontro di queste cellule, chiamato fecondazione, aveva origine un embrione, che cresceva nel corpo della donna in una cavità chiamata utero, nutrendosi attraverso una struttura particolare chiamata placenta dal sangue della donna e dopo nove mesi fuoriusciva un bambino quasi perfettamente formato.
Zagor e Puiny guardavano le animazioni oleografiche sempre più allibiti.
In realtà ancor oggi gli uomini e le donne producono spermatozoi e ovuli, ma naturalmente non avviene più la fecondazione.
E perché?
Perché come vedi Puiny gli uomini e le donne da quei tempi sono cambiati, non hanno più peli
Meno male – ridacchiarono insieme i bimbi.
Sono più alti e più magri e le loro cellule riproduttive non funzionano più. In effetti fino al 19° secolo la riproduzione umana procedeva per via naturale come per gli animali. Poi verso la fine del 20° secolo la fertilità cominciò a diminuire e si iniziarono alcune tecniche dette di fertilizzazione assistita, sempre basate sull’utilizzo di spermatozoi e ovuli prodotti naturalmente. Nel corso del 21° secolo tali tecniche divennero quasi obbligatorie, ma già si sperimentava la riproduzione per clonazione, anche se questa inizialmente era osteggiata per motivi morali. Nel 22° secolo però visto il definitivo declino della fertilità delle cellule sessuali, la clonazione divenne l’unico sistema riproduttivo possibile. Si svilupparono così la clonazione incrociata con il prelievo di geni da cellule staminali di due differenti individui e le incubatrici artificiali. In seguito nel 23° secolo si rese possibile ripristinare la fertilità naturale, ma i vantaggi in termini di selezione del patrimonio genetico e di diminuzione dei rischi per l’embrione e per la madre, risultarono talmente forti da convincere la comunità scientifica a bandire la fecondazione naturale per la razza umana e si abbandonò quindi il progetto di ripristino della fertilità naturale.
I bambini cominciavano leggermente ad annoiarsi per il discorso eccessivamente tecnico. I recettori video-ormonali della stanza registrarono la cosa e girarono l’informazione alla Guida, che subito, ripristinò gli ologrammi della folla del 21 secolo.
Zagor sorrisse:
E quelle strane macchine? – disse notando per la prima volta un’automobile che si fermava per far scendere alcuni passeggeri.
La Guida, essendo un cervello bio-elettronico, non sorrise, ma lo avrebbe fatto se fosse stato un essere umano perché l’evoluzione dei trasporti era proprio l’argomento previsto, dal programma di apprendimento, annotò però anche di parlare dell’origine della specie umana e immaginando le reazione schifate dei bimbi, di nuovo nelle sue sinapsi passarono dei messaggi di autocompiacimento.

domenica 30 ottobre 2011

AMORE A LIETO FINE


Fai quello che ti pare, non mi importa un cazzo di te, di troie come …
Il rumore della pesante porta di ferro e il rimbombo nella spoglia stanzetta coprirono le altre parole e anche il gemito del ciclostile contro cui si abbatteva il suo pugno. Sapeva che non sarebbe più tornata. La sedia si schiantò contro il muro con un secco suono di legno spezzato.
Si asciugò il sudore freddo dalla fronte, vuotò una mezza lattina di birra sgasata, lasciandosi cadere per terra. La tensione nervosa lo fece presto rialzare. Meccanicamente tornò al ciclostile.
Non ricordava nemmeno perché lo stesse facendo, ma concentrandosi sui fogli freschi d’inchiostro, incominciò a riprendere il controllo di sé.
In quel momento la porta si aprì, non fece in tempo a girarsi, non vide neppure il lampo. Pezzi del suo cervello volarono all’intorno.
Lo portarono subito fuori e lo infilarono in un sacco sopra al cadavere di lei. Finalmente, dopo tanto tempo rimasero insieme senza litigare.
Più tardi il vento disperse la ceneri dei loro corpi bruciati.

domenica 23 ottobre 2011

L'ODORE DELLA PIOGGIA


Nell'aria, questa sostanza - e già la parola sostanza ci dice di qualcosa di fisico, anche se impalpabile, ammesso che qualcuno abbia mai cercato di palpare l'aria - invisibile, se non quando, nelle giornate luminose guardando il cielo, si provi a mettere a fuoco vicino agli occhi, si noterà allora un confuso movimento oscillante di riflessi di luce, grazie al quale è possibile intuire il sottostante agitarsi delle molecole d'aria in frenetici movimenti browniani, ma anche questo non è esattamente vedere l'aria bensì un suo riflesso, ma coscienza più precisa della fisicità dell'elemento si ha quando viene a mancare, si sente allora nei propri polmoni il bisogno furioso di ciò di cui, fino a prima, non ci si accorgeva neppure dell'esistenza e anche qui in realtà vi è un inganno dei sensi poiché ciò di cui avvertiamo realmente la deprivazione è l'ossigeno, che dell'aria è solo una componente, per giunta minoritaria e non senza ironia, l'unica aggressiva e nociva, per i viventi, nell'aria c'era, nel luogo e nel momento che poi specificheremo - secondo le ordinarie coordinate spazio temporali, che nonostante la loro relatività sono le uniche utili alla reciproca comprensione, che è ciò che qui in fondo interessa. Nell'aria, dunque, c'era odore di pioggia. Pioggia è una parola vaga. Dovrebbero esistere tanti vocaboli differenti per designare le varie tipologie di pioggia e le loro combinazioni. La pioggia fredda, tiepida o calda, grossa media o sottile, fitta o rada, verticale o inclinata dal vento in vari gradi e in una o in varie direzioni, mista a neve o a grandine, piena di sabbia del deserto, acida o radioattiva. Ma nel nostro caso si può parlare semplicemente di pioggia generica, indefinita, perché, in effetti, di pioggia non ve ne era ancora. L'odore, però, proprio odore non profumo o puzza, perché anch'esso vago e indefinito, come tutto ciò che richiama il futuro, ma, ugualmente e paradossalmente, potremmo anche dire sapore tanto era pregnante e facilmente avvertibile e coinvolgente, l'odore parlava di pioggia d'autunno, il che era alquanto singolare, alla fine del mese di marzo.
La pioggia di primavera mi avrebbe fatto venire in mente Bonn, le placide rive del Reno, le lunghe piste ciclabili, che sotto filari di alberi si inerpicano sulle colline, le vie del centro affollate di pedoni e quelle di Poppelsdorf dominio degli studenti, entrambe ben popolate dei miei ricordi. Il mercato al mattino prima dell'inizio degli affari, il rumore delle chiatte che ruggiscono nascoste dalla nebbia, il bidello a torso nudo che spazza le foglie davanti al dipartimento di chimica in pieno inverno o magari solo quel giovane biondo che vidi appena tre volte. La prima subito fuori della stazione centrale sulla via che porta alle piazze, seduto per terra, ascoltava divertito la predica di una distinta signora attempata che lo invitava a tornare a casa. La seconda su una panchina di fronte alla cattedrale in compagnia di altri barboni, più vecchi, ma non meno ubriachi di lui. La terza accampato con una coperta contro il muro di una strada del centro, tra il flusso fluido dello shopping, insieme a due bambini, una femmina e un maschio, apparentemente tra i quattro e i sei anni. Una coppia di poliziotti si era già fermata e gli parlava, mentre io passavo oltre.
Ma trattandosi di pioggia di autunno il pensiero mi corse a Newcastle.
A Newcastle viveva Sue. La madre di Sue era di Taiwan, ma si era fermata a lavorare come biologa all'Università di Newcastle dopo esservi arrivata con la prima borsa di studio post-laurea. Aveva sposato un inglese dal quale aveva avuto Sue. Quando la bimba aveva 11 anni lui se ne era andato con un'altra donna in una città del sud. In seguito anche la madre si era trasferita negli USA, lasciando Sue , secondo i suoi desideri, a Newcastle, dove iniziava il collage. Poco dopo Sue che aveva conosciuto Robert l'anno prime, era andata a vivere con lui.
Dopo un primo periodo felice il loro rapporto aveva cominciato a incrinarsi e con il passare dei mesi i momenti di concordia erano divenuti sempre più radi e i litigi sempre più frequenti e violenti.
Quella mattina Robert l'aveva afferrata alle spalle e le aveva premuto un coltello sul collo, non dalla parte della lama, ma ugualmente con la punta l'aveva leggermente scalfita, provocandole l'uscita di un filo di sangue, prima di liberarla dalla stretta.
Mente Sue terrorizzata tamponava con la mano la micro ferita Robert le aveva detto: è meglio che te ne vai, è meglio per te.
Sue aveva cominciato subito a fare le valige, mentre Robert del tutto indifferente guardava la televisione e in breve, carica all'inverosimile, era uscita di casa, senza parlare, senza voltarsi indietro.
Era salva! Salva da Robert, ma ora dove poteva andare?
Cercò di immaginare chi potesse ospitarla. Si accorse di aver ormai perso il contatto con tutte le sue amiche e amici e certo gli amici di Robert non potevano esserle d'aiuto, anche loro temevano Robert. Si chiedeva anche perché fosse restata così a lungo con Robert. perché non aveva mai pensato lei ad andarsene? Aveva paura di Robert o aveva paura di restare da sola? Di riprendere il controllo della sua vita?
Arrivata in Sant Marys Place fece il giro in senso orario passando davanti Sant Nicholas la chiesa Anglicana per fermarsi poi a mangiare un pastry e un paio di pies al negozio di fronte all'ingresso della metro, all'angolo con Northumberland Street.
Attraversata la strada trascinò i bagagli fino alla bacheca fuori della caffetteria e incominciò a cercare gli annunci di alloggi.
Selezionò con cura quelli rivolti a sole ragazze. Quindi afferrò il primo telefono pubblico a disposizione e iniziò a chiamare.
- Ciao sono Sue, telefono per la stanza
- sì sono 90$ al mese, ma devi dare 2 mesi di caparra, che perdi se te ne vai con un preavviso inferiore ai due mesi, poi devi contribuire alle spese per i detersivi, naturalmente avrai i tuoi turni per la pulizia delle parti comuni, il bagno, la cucina, il ...
Sue riattacò. La voce era antipatica, il prezzo era alto e poi che modi, non aveva neppure salutato.
Al secondo numero della lista non rispondeva nessuno. Al 3° nemmeno. Il 4° posto risultò essere già occupato. La quinta telefonata fu la più sgradevole.
- ciao sono Sue, ho letto l'annuncio della camera libera
- ciao sono Allison, posso farti qualche domanda?
- sì certo.
- che fede professi?
- scusa, in che senso
- di che religione sei?
- nessuna per la verità
- ah capisco, e per chi voti.
- per chi voto? ma non so , non ho idee precise, dipende dai candidati.
- capisco, ma senti, sei di razza bianca?
- no, cioè non del tutto
- beh, senti mi dispiace, ma credo che non siamo compatibili.
- sì lo credo anch’io, grazie lo stesso.
- addio
- addio
Dunque esisteva ancora della gente così? Sue provò il 6° numero, senza fortuna: nessuno in casa. Possibilità ancora aperta certo, ma Sue aveva fretta.. Era una bella giornata, ma dormire all'aperto non era pensabile e non voleva buttar via soldi dormendo in un albergo. Aveva appena incassato il sussidio, ma il suo conto era già al minimo e non voleva proprio chiamare la madre per avere un versamento anticipato dei soldi che lei trimestralmente le mandava.
- Come mai vivendo con Robert era sempre a corto di soldi?
Si ripromise di rifletterci su
- ciao sono Sue. Ho letto il tuo annuncio, la stanza è ancora libera?
- ciao sono Maggie e anche se mi sono da poco laureata in medicina se vieni a stare con me prometto che non ti curerò a meno che tu non sia veramente molto grave
Sue sorrise, finalmente un buon inizio.
- io sono al 3° anno di psicologia e se vengo a stare con te prometto di non sottoporti a più di 2 test al giorno.
- vuoi venire a vedere il posto?
- anche subito
- Ok ti spiego la strada.
Sue era speranzosa e timorosa. Ma molto più che al futuro pensava ancora al passato. Il passato con Robert. Il pensierio che Robert appartenesse al passato la confortò. L'aveva scacciata! Meglio così, se era lui a non volerla più non la avrebbe più cercata. Si sorprese a scoprire quanto la cosa la tranquillizasse. Il paesaggio del Tyne le parve una sorta di simbolo di cambiamento, il passaggio sul mar Rosso. Rise nell'immaginare Robert che affogava nel fiume. Ma non glielo augurava veramente. Ormai era libera e poteva pensare a lui con commiserazione.
Il piccolo cottage di Maggie, circondato da un giardino angusto e mal curato era alla periferia sud in una verde zona residenziale.
Sue arrivò con lo zaino in spalla, la sacca a tracolla, un’enorme valigia da aereo tirata con una mano, e l'altra piena di sporte di plastica e di cartone stracolme e molte già al limite della rottura. Il cancelletto era aperto. Sue raggiunse la porta, appoggiò le sporte per terra e suonò. Da dentro la voce allegra di Maggie rispose:
-arrivo, arrivo
La porta si aprì.
-ciao sono Sue
Maggie era una rossa di media statura, di corporatura robusta, con dei lineamenti molto dolci, i capelli raccolti in lunghe trecce, una anonima tuta da ginnastica grigia e un paio di zoccoli piuttosto malconci.
- Ciao, ma tu giri sempre con tutta questa roba o hai già deciso di trasferirti
trillò Maggie sorridendo bonariamente
- Sì questa è tutta la mia roba, è che sono praticamente su una strada
- allora entra, così rimediamo subito.
La porta dava direttamente nel soggiorno. Maggie prese le borse e aiutò anche Sue a togliersi lo zaino.
Appoggiarono tutti i bagagli attorno alla porta di ingresso.
- Vieni ti faccio vedere subito la casa
- ok
- per prima cosa il bagno, così se ti vuoi fermare...
- non serve, ma grazie del pensiero.
Il bagno era luminoso, grazie ad un'ampia finestra e nonostante il colore blu scuro ed opaco della moquette. Il box doccia era quasi lussuoso, il lavabo più modesto era sormontato da un grosso specchio e da un tubo al neon. Sui lati due armadietti di plastica bianchi e gialli che spiccavano sulle piastrelle azzurrine con fili psichedelici rosa e arancione
- bello
- vieni ti mostro la tua stanza, è sfitta già da molto tempo è davvero ora che ricominci anche lei a vivere.
La stanza era completamente verde: moquette, tappezzeria, letto, armadio, scrittoio e sedie, comodino.
Il letto era sotto una delle due finestre, sotto l'altra di fronte alla porta c'ero lo scrittoio, mentre alla parete di fronte alla prima finestra era appoggiato l'armadio a tre ante.
La porta era al centro dell'ultima parete, che per il resto era completamente libera. La stanza era ampia e risultava decisamente sotto-ammobiliata. Alla finestra non c'erano tende.
- Che ne dici?
- magnifica
- bene bene, sono contenta, mancano le tende sono vecchie ma ci sono e possiamo rimetterle o se preferisci puoi prenderne di nuove. Vieni ti mostro anche la mia camera.
La stanza di Maggie aveva le stesse dimensioni ma sembrava più piccola per via del letto a due piazze dell'armadio a quattro ante, del comò, dei due tavolini, delle tre sedie, del piccolo scaffale. I pochi tratti di parete libera erano coperti di stampe con foto in bianco e nero di musicisti jazz. I colori dei mobili sfumavano dal noce al giallino. L'impressione generale era di una stanza vivace e ordinata. Solo le pesanti tende lavorate risultavano un po' opprimenti. L'aspetto della stanza rafforzò la buona considerazione di Sue per Maggie. Parlarono brevemente di un paio di stampe poi attraverso il corto corridoio ritornarono nel soggiorno. La pianta della case era estremamente semplice. Dal lato opposto a quello delle camere si entrava in un’ariosa cucina con il tavolo al centro. dalla cucina su un lato si accedeva ad uno stanzino ad uso ripostiglio, dall'altro si usciva sul giardino dietro al cottage che risultava più ampio di quanto apparisse dalla visione frontale del cottage. Nella parete in fondo cerano lavello e fornelli. Delle piccole e graziose credenze erano sulle pareti laterali di fianco alle porte insieme ad un grosso frigorifero con congelatore.
- E' ora di pranzo hai fame?
- Sì abbastanza, ho già mangiato qualcosa ma trasportare tutti quei bagagli mi ha messo appetito.
- lo credo, nel frigo ci sono dei sandwich, serviti tu.
Sue prese una confezione di sandwich al pollo, mentre Maggie si aprì una confezione di sandwich assortiti
Dopo aver mangiato scaldarono il caffè e uscirono in giardino.
Maggie accese un mangiacassette sul davanzale e al pallido sole primaverile e nonostante un vento pungente restarono lì un'oretta ad ascoltare Muddy Waters, a guardare il cielo e a chiacchierare del più e del meno.
- in quale reparto lavori?
- obitorio
- oh Gesù!
- ti fa impressione?
- un po', sì un po’.
- allora non scavare mai in giardino, c'è qualche pezzo sepolto qua e là, sai ogni tanto mi porto il lavoro a casa
Sue guardò Maggie sbigottita
Maggie rise sonoramente.
- ma no, lavoro in pediatria, è solo che mi piace scherzare. Personalità distorta?
- credo proprio di sì, dovrò psicanalizzarti a fondo
- bene bene. Non ne abbiamo ancora parlato Sue, ma se vuoi puoi fermarti qui qualche giorno come mia ospite, così vedi se ti piace.
- Fantastico. sei un tesoro! Come potrei rifiutare?
- bene bene. Allora ti aiuto a portare in camera la tua roba. Puoi utilizzare anche il mobile del soggiorno dove trovi posto.
Dopo essersi sistemata ed aver fatto una doccia Sue si sentiva decisamente meglio. Che fortuna aver trovato Maggie. Tutto sembrava sistemarsi così velocemente. Poteva dimenticarsi in fretta anche di Robert.
Maggie la portò in un vicino pub. Un bel locale in cui si mangiava anche discretamente e a prezzi equi.
Sue bevve un paio di pinte di Boddington, mente Maggie bevve solo un drink analcolico, poi tornarono allegre a casa.
Qui Maggie tirò fuori una bottiglia di vino.
- Festeggiamo il tuo arrivo
Sue bevve un paio di bicchieri, mentre Maggie si dichiarò astemia, cosa che contrariò un po’ la sua nuova ospite.
- Non mi piace bere da sola, mi fa sentire un’alcolista.
- Scusami, mi piacerebbe tanto bere insieme a te, ma davvero non posso.
- ok, se vuoi farmi bere troveremo qualche compagno di bevute, così potrai farmi scoppiare il fegato per poi curarmi. E’ questo a cui miri?
- non ci avevo pensato, ma sai che è un’ottima idea. Posso chiederti invece, come ti è successo di ritrovarti su una strada?
- niente di particolare. Vivevo col mio ragazzo, col mio ex-ragazzo. Era da un po’ che non andavamo più d’accordo e stamattina mi ha buttato fuori di casa.
- hai voglia di parlarne?
- non tanta
- ok allora andiamo a dormire
- sono d’accordo, è stata una giornata dura
- ti lascio il bagno
- no vai pure prima tu
- ti conviene approfittarne è il bonus di buon arrivo, da domani è lotta spietata
- allora vado
Sue andò in camera, si mise in maglietta e si diresse verso il bagno. Nel corridoio incontrò Maggie.
- non porti il reggiseno?
- no, mi dà fastidio
- eh anche a me, ma con queste tette, non posso farne a meno
Maggie si sollevò la maglietta e prendendosi i possenti seni sorretti da un robusto reggiseno in mano li sballottò un po’ su e giù.
- mi fai vedere le tue?
Sue rise, poi si sollevò la maglietta mostrando i suoi piccoli seni sodi
- deliziose
- cosa?
- le tue tette, sono bellissime
- ah grazie
Sue incominciava a essere perplessa e Maggie se ne avvide immediatamente.
- non ti ho detto una cosa?
Maggie sorrideva palesemente divertita.
Sue aspettava con aria interrogativa. Il silenzio incominciò a infastidirla
- cosa?
- sono lesbica?
- lesbica?
- sì e mi sto innamorando di te
Sue, che era molto stanca e un po’ alticcia, sentì un capogiro afferrarle la testa.
Maggie si mosse con agilità e velocità insospettabili, la spinse contro il muro e la baciò sulla bocca.
Sue sgusciò via
- no ti prego
- scusa, mi è scappato, non lo faccio più se non vuoi
- sì, credo sia meglio
- buonanotte
Maggie sparì ridendo in camera sua.
- oh merda, ma non è possibile.
Sue si sentì di nuovo depressa.
- Gesù, cosa sta succedendo alla mia vita?
Non sapeva più che fare, infine cedendo alla stanchezza andò a letto e subito si addormentò come un sasso.
Quando si svegliò, la mattina seguente, si accorse che le stavano venendo le mestruazioni e naturalmente non aveva assorbenti.
Un’altra bella giornata? - Si chiese
Stava per infilarsi una felpa prima di uscire, condizionata dal pensiero di essere vista da Maggie
- al diavolo se voglio restare qua devo potermi muovere liberamente.
E uscì così com’era, in maglietta e mutande
Maggie era in cucina.
- bacon & eggs, caffè e spremuta d’arancia vanno bene?
- benissimo, grazie, scusa hai degli assorbenti?
- no mi spiace non gli uso.
- non gli usi?
- ultimamente no, sono al 4° mese.
- cosa?
Maggie atteggiò le braccia come a sorreggere un bimbo e lo cullò accennando una ninna nanna.
- un bimbo. Un ometto piccolo piccolo sai?
- è un altro dei tuoi scherzi?
- no sul serio
Sue guardò Maggie. In effetti la sua gravidanza era evidente, si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima, ma certo era un po’ sconvolta dagli eventi recenti.
- sei bisessuale?
Maggie rise
- no sono etero, solo etero. Ieri ti stavo prendendo in giro. Non avevo mai baciato una donna prima e credo proprio non lo farò mai più. E’ stato divertente, ma solo come scherzo
- io non sono uno psichiatra, solo una studentessa di psicologia, ma ti assicuro che sei matta
- sì, hai ragione scusa. Se esagero con i miei scherzi non farmela passare liscia, Però di solito non sono così esagerata. E’ che sono un po’ in crisi. Capisci con Curt andava tutto bene, anche se lui era strano, ma strano davvero, molto più di me. Era un chimico, ma del suo lavoro non mi ha mai detto altro, se non che lavorava nella sezione di biochimica del dipartimento di chimica dell’Università. In realtà ho saputo da una persona che lo vedeva spesso, lavorando in un magazzino vicino, che lavorava anche per un laboratorio privato, di cui però nessuno sa nullo, su cosa lavori o per chi, voglio dire. Io non gli ho mai fatto domande perché era inutile. In questi casi ti diceva cose del tipo: “Mi hai chiesto se potevi farmi questa domanda? Beh non potevi. Io non volevo che me la facessi, adesso tu vorresti la risposta e io non te la do. Uno pari. Fine della partita.” E non riuscivi più a parlargli. E più insistevi più lui restava muto. E per ritorsione non ti parlava più per ore. Così non sapevo nulla del suo passato, né della sua famiglia. Però con lui potevi parlare di 1000 cose, perché lui si interessava di tutto: cinema, letteratura, pittura, musica, sport, scienza e tecnica, politica, religione. Prendeva raramente posizione, ma sapeva un’infinita di cose, conosceva veramente un po’ di tutto, anche delle cose più strane e specialistiche. Credo che per questo nessuno gli facesse mai domande personali, ti travolgeva parlandoti, con competenza, di tutto lo scibile umano. Con me poi era dolce, comprensivo, disponibile, paziente. Mi confortava, mi esortava, mi capiva. Era praticamente perfetto. Anche nell’intimità. Poi nel periodo della laurea io sono stata un po’ sotto pressione, ho pasticciato con la pillola e sono rimasta in cinta.
Non ero sicura di come avrebbe reagito, ma non mi aspettavo certo che si sarebbe infuriato. E invece si è arrabbiato come mai prima di allora., mi ha accusato di averlo fatto apposta e mi ha subito proposto di abortire. Quando io mi sono opposta ha detto che non voleva avere nulla a che fare con il bambino e mi ha piantato in asso. Non si è più fatto vedere né sentire. Né io l’ho mai cercato, anzi farò di tutto per evitarlo se dovessi solo sentirne l’odore. Non è facile affrontare una gravidanza così, ma ora sono contenta, anche se ogni tanto ho ancora un po’ bisogno di sfogarmi con qualche scherzetto. Bella storia eh?
- oh Maggie
- già. Beh immagino che non avevi previsto di finire con una ragazza madre. Mi rendo conto che quando nascerà il bimbo, ah a proposito è proprio un maschio, sai? Quando sarà qui potrebbe disturbarti. Ma durante il giorno sarai tutto il giorno al dipartimento, qui è troppo fuori mano per andare e tornare, più di una volta al giorno, ma la notte quando il piccolo piangerà come farai? Se vorrai andartene capirò. Ma mi farebbe davvero piacere che tu ti fermassi con me almeno qualche giorno. Sai mi sento un po’ sola e con te mi trovo proprio bene.
- beh anch’io mi trovo bene con te. Mi fermerò e penso proprio non solo per qualche giorni, ma attenta agli scherzi, io ci casco sempre.
- ok
Si abbracciarono.
- posso farti una domanda personale?
- spara
- cos’era la cosa peggiore del tuo ex-ragazzo?
- la cosa peggiore?
- sì quella che non potevi sopportare? Per me era che Curt quando eravamo soli tirava dei rutti disgustosi,
- ma dai
- da vomitare ti assicuro.
- la cosa peggiore era quando perdeva il Newcastle
- è un tifoso?
- dei peggiori, un vero hooligan. Va a vedere tutte le partite, ma quando perdono o si ubriaca e torna a casa strisciando, e a me toccava curarlo e pulire i disastri che faceva oppure tornava cattivo. E allora faceva veramente pura. Non mi ha mai fatto niente anche perché io gli stavo ben lontano, perché solo a guardarlo si vedeva che per un nonnulla era pronto ad esplodere. L’ho visto fare a botte un paio di volte e credo sia in grado di uccidermi con due dita.
- spero tu non gli abbia dato questo indirizzo?
- non c’è davvero questo pericolo.
- andavi mai alle partite con lui?
- no, a me il calcio non piace e lui non aveva piacere di portarmi, per lui era come andare in guerra, una cosa da uomini
Finita la colazione si congedarono come due vecchie amiche e Sue uscì di casa per andare a lezione passando prima a comprare gli assorbenti. Per fortuna non era incinta. L’idea di avere un figlio da Robert la disgustava e la spaventava.
Era un po’ frastornata dagli eventi delle ultime 24 ore, ma soprattutto ora pensava a Maggie.
- che tipo incredibile
Intanto cominciava a piovere. La classica piogerellina del North Umbria, con il suo tipico odore sottile, odore di vecchio. A Sue venne in mente l’odore ben diverso, pieno e vitale, della pioggia dello Iowa, che aveva sentito l’estate prima, prima quando era andata a trovare sua madre.
La pioggia grossa, ruomorosa e profumata di natura dello Iowa.
Fuori dal Saloon Greg guardava la pioggia. Osservava nella tenue luce del piazzale le grosse goccie che si frangevano al suolo. La scena era rischiarata ad intermittenza dalla scritta The big house. Il rumore dei goccioloni sulla grondaia aveva un ritmo musicale che sembrava completare il suono ovattato della musica che usciva dall'interno del locale. Il paesaggio agreste era nascosto nel buio e un leggero chiarore indicava la presenza sullo sfondo della cittadina, che era l'unico centro abitato nel raggio di molte decine di miglia. Erano molti anni che non si vedeva un marzo così piovoso nello Iowa. Greg scrutava nel buio cercando inconsciamente di cogliere un presagio per il futuro. La sua vita, dopo l'incidente, era divenuta estremamente lineare. Il padre di Greg era un meccanico, la madre contadina aveva ereditato dal padre l'azienda agricola. Greg aveva studiato ingegneria, specializzandosi poi in meccanica agraria per lavorare infine come ricercatore presso l'università dello Iowa. Alla morte dei genitori in un incidente stradale era tornato a casa rilevando l'azienda e continuava collaborare con l'università solo sporadicamente testando nella sua azienda nuove soluzioni tecnologiche.
Fu distolto dal suo vagare nell'oscurità dal rumore di un motore. Dal suono riconobbe la macchina quando ancora non poteva vedere che la luce dei fari.
- ciao Joshua
- ciao Greg
- da dove arrivi?
Il pastore infatti non arrivava dalla città e dunque nè da casa nè dalla chiesa.
- sono stato da Lucy Connell
- sta di nuovo per morire? di cosa stavolta: sbadiglio fulminante?
sorrise prima di rispondere - ci seppellirà tutti probabilmente
Greg annuì. Restarono in silenzio a guardare il buio dietro il quale si nascondevano gli sconfinati campi di mais
Joshua pensava ancora ai Connells. Il marito di Lucy era morto in Vietnam quando la figlia non era ancora svezzata. Lucy non si era mai rassegnata e secondo l'opinione generale era andata fuori di testa. Nonostante ciò aveva condotto da sola il negozio di mercerie che aveva aperto insieme al marito e sempre da sola aveva allevato la figlia. La figlia cresciuta senza padre ora negava l'esistenza di Dio, padre celeste, mentre la madre, che conviveva da moltissimi anni con l'idea della morte, ossessionata come era dal ricordo del marito, aveva sviluppato una forte forma di ipocondria e temeva il giudizio di Dio dopo la sua imminente -così credeva- morte, pur avendo condotto una vita esemplare. Ma se Dio le aveva tolto il bene più caro qualche colpa doveva pur averla, così le aveva detto e non c'era stato verso di convincerla del contrario. Un bell'intreccio psico-religioso familiare. Queste meditazioni durarono solo un paio di secondi. Poi Joshua pensò a Greg che era lì al suo fianco. Ma prima che potesse iniziare una conversazione tra loro l'attenzione di entrambi fu catturata dal rumore e dalla luce di un auto che giungeva dalla città. Era il pick up di Zed, ma tirò dritto verso casa?
- tu che fai qui fuori, aspetti Molly? chiese joshua
- sì è dai Bells.
- un'altra crisi asmatica del piccolino?
- già
I Bells avevano due figli. Due dei tre che avevano generato. Il più grande a soli 14 anni era infatti deceduto in seguito ad un incidente. Era caduto da cavallo ed era stato portato in ospedale. Lì il giorno successivo all'incidente era subentrata una paralisi agli altri inferiori causata da una bolla dell'aorta che premeva sul midollo spinale. Il problema non era stato diagnosticato in tempo utile e così mentre correvano in sala operatoria l'aorta era scoppiata e il ragazzo era morto. Per questo ora i Bells diffidavano degli ospedali. Avevano invece fiducia in Molly. la fidanzata di Greg che aveva risolto malattie mai curate dal vecchio medico del paese e si era comportata egregiamente in alcuni casi di incidenti guadagnandosi la fiducia della comunità nonostante o forse in fondo proprio grazie alla sua giovinezza e al fatto di venire da lontano, da Pittsburg dove aveva vissuto e da Chicago dove aveva studiato, ma ancor più dall'India dove era nati i suoi genitori, che l'avevano chiamata Yasoda, nome che però nella sua nuova comunità nessuno usava più.
- tutto pronto per il grande giorno?
- a me basta che sia pronto tu
- figurati, non è mica il primo matrimonio che celebro, ma non chiedevo di te ma di Molly.
- lei non sarebbe mai pronta - rise Greg - se avesse 1000 anni di tempo arriverebbe al giorno prima con ancora qualcosa da fare!
Intanto arrivarono i fratelli Johansonn che presero Joshua quasi a forza e lo portarono dentro.
Joshua aveva affiancato il vecchio pastore malato quando era ancora un giovane appena uscito dal seminario. Il vecchio pastore era anche direttore della scuola .
La figlia neo laureata in pedagogia era poi tornata prendendo la direzione della scuola dove nel frattempo anche Joshua aveva cominciato ad insegnare. Il matrimonio tra il nuovo pastore e sua figlia aveva chiuso il cerchio religioso-educativo nel paese con soddisfazione di tutti. Alla gente del posto piacevano l'ordine e la semplicità e le gestioni familiari erano per loro quanto di meglio si potesse avere.
Intanto Greg rimasto fuori da solo stimolato dalla battuta di Joshua sull'imminente matrimonio pensava alla celebrazione del matrimonio e al viaggio di nozze in India.
Respirò profondamente l'aria umida della notte.
Che odore avrà la pioggia in India?
La pioggia cadeva in grosse gocce tiepide sul corpo di Bhima Dushasana Bhaktivedanta.
Gocciolava dai sui lunghi capelli neri sulla terra ormai melmosa, scorreva sul suo viso e sul suo torace nudo in piccoli rivoli, rigando la sua pelle secca come fosse una superficie oleata, per finire nelle braghe bianche ormai madide. Bhima Dushasana Bhaktivedanta era del tutto insensibile a tutto ciò come al resto: al fumo acre che proveniva da un vicino fuoco di sterco, ai rumori della folla che andava e veniva tutt'intorno affaccendata al mercato o impegnata nei riti sul fiume sacro, che scorreva anch’esso imperturbabile davanti allo yoghi.
Bhima Dushasana Bhaktivedanta era assorto in profonda meditazione. E in quello stato di parziale semi incoscienza ebbe una visione. La visione di uno stregone australiano bianco.
Liham guardava le nubi addensarsi nel cielo e già pregustava lo strabiliante fiorire del deserto dopo la pioggia. Steli avvizziti che si inturgidivano e reinverdivano a vista d'occhio emettendo germogli e sopratutto fiori. Migliaia di fiori che quasi fossero consci della loro durata effimera impiegavano ogni energia nello sfoggiare l'aspetto più sgargiante e lussureggiante in modo da attirare gli impollinatori, che in verità non parevano mancare poiché insieme alle piante anche gli insetti parevano nascere direttamente dal fango e moltiplicarsi istantaneamente riempiendo l'aria del balenio delle loro ali e del loro ronzio. Lontano sullo sfondo si stagliava la sagoma dell'Eyes Rock.
Liham si era appassionato al free climbing e più ingenerale all’arrampicata fin da giovane. L’Australia però offre scarsa soddisfazioni ai rocciatori, così Liham appena poteva, cioè non appena i suoi risparmi raggiungevano un ammontare sufficiente, si prendeva una lunga vacanza e in giro per il mondo dava sfogo alla sua passione.
In uno di questi viaggi era giunto nelle Dolomiti. Dopo aver già affrontato alcune delle vie classiche aveva sfidato, insieme con due rocciatori locali, con i quali nel frattempo aveva fatto amicizia, la grande parete del Burel.
La Val Di Piero, dopo un paio di acquazzoni estivi, era in grado di entusiasmare chiunque, tanto più un australiano abituato al clima secco della sua terra. L’acqua scendeva da ogni parte lungo le alte pareti a strapiombo formando innumerevoli cascate, cascatelle, rivoli, gocciolamenti. I piccoli o piccolissimi terrazzamenti erbosi disseminati sulle pareti risplendevano alla luce forte del sole di mille tonalità di verde conferendo alla valle un aspetto lussureggiante, traboccante di vita.
Il torrente rumoreggiava giù in fondo increspandosi nella sua rapidissima e tumultuosa discesa, mentre poche decine di metri sopra il sentiero, tra gli stretti bordi della valle il blu del cielo inondava l’intero orizzonte.
Liham saltellava sullo stretto sentiero in uno stato di estatica esaltazione. Poi inoltrandosi nella valle, dove il sentiero si allontana dal torrente per nascondersi nel bosco ritrovò la calma e la concentrazione necessarie alla scalata.
La vista della superba parete lo riempì ancor più di gioia e quando raggiunse la vetta con i suoi compagni si sentiva padrone del mondo, del tempo, di ogni cosa. Poteva l’ebbrezza di Dio quando creò il cosmo essere maggiore della sua?
La discesa dalla vetta ruppe l’incantesimo e non solo, lacerò indelebilmente la vita stessa di Liham.
Una scarica di sassi colse infatti la cordata in un punto della parete in cui era impossibile ripararsi e lì Liham lasciò il suo piede destro. Le altre ferite erano lievi e guarirono rapidamente, ma l’arto di plastica restò a lungo una ferita aperta.
Per una ragione che nemmeno lui fu mai in grado di comprendere appieno una volta uscito dall’ospedale Liham non volle tornare a casa.
Forse interpretando l’accaduto come un segno del destino, forse per non allontanarsi dal suo piede che aveva ceduto alla montagna, forse per un bisogno di ritrovare lì nel luogo dell’incidente un nuovo equilibrio o qualche forma di rivalsa, forse per la paura di riprendere la vita normale ora che non era più normale, forse per tutto questo e per altro ancora o forse per tutt’altro, fatto sta che Liham si fece arrivare la buona pensione di invalidità che aveva stipulato in Australia e si fermò a Belluno.
Trovò un appartamentino in Via Feltre e cominciò a fare la tipica vita del pensionato bellunese. Giro dei bar, chiacchiere sul Liston, cene in trattoria o in pizzeria, con l’aggiunta di qualche avventura galante, che un giovane bello e straniero non fatica certo a trovare.
Si dedicò per brevi periodi alla scrittura, alla musica , alla fotografia e ad altri vari hobbies, ma poi un po’ alla volta tornò a camminare in montagna.
Poi riprese ad arrampicare e infine ritornò in cima al Burel.
A quel punto 15 anni dopo la menomazione subita superò il trauma psicologico, accettò la sua nuova condizione e se ne tornò in Australia.
Qui cominciò a fare la guida turistica, accompagnando i turisti sull’Eyes Rock. Fu durante questa attività che cominciò a frequentare una tribù di aborigeni con cui strinse una amicizia sempre più stretta fino al punto di abbandonare la sua attività per andare a vivere con loro. Imparò la loro lingua, le loro usanze, si adattò in tutto al loro stile di vita. Divenne persino l’aiutante dello stregone.
Fu a quel punto che si ricordò di essere un medico. Rinfrescò le sue conoscenze mediche e iniziò con grande abilità e moderazione ad infilare qualche rimedio moderno nei riti curativi tradizionali. Investì la sua pensione nell’acquisto di pannelli solari, di un generatore di corrente, di un frigorifero e nell’attrezzare un curioso ambulatorio medico-stregonesco.
Quando lo stregone morì ne prese il posto e incominciò ad insegnare ad alcuni ragazzi della tribù la sua nuova originale medicina.
Così ora alla soglia degli ottanta anni poteva sedere tranquillo sulla sua sedia a dondolo fuori dalla capanna a guardare le nuvole.
Gli tornò in mente quando sedeva sui tavolini del Casinet a sorseggiare birra e a guardare la pioggia. Si ricordò allora dell’odore della pioggia di Via Feltre.
Lo stesso odore che si respirava in quel momento in Via Feltre, anche se la pioggia doveva ancora arrivare.
Certo una via Feltre già molto cambiata dai tempi di Liham e in cui l’australiano avrebbe cercato invano la finestra del forno a cui bussare per avere il pane prima dell’orario di apertura, la macelleria di cui era grande cliente, i banchi del mercato ortofrutticolo.
Da quel giorno, in cui poi alla fine la pioggia non arrivò nemmeno, la via è ancora cambiata, ma molte cose sono ancora come una volta qui in via Feltre, come quel giorno, che - pensandoci bene – non è neppure necessario specificare meglio perché in fondo era un giorno come tanti altri e che io ricordo solo per quell’odore della pioggia. Lo stesso di oggi. Adesso infatti piove.