domenica 26 agosto 2012

LA PRINCIPESSA PALLIDA


Il re del Paese dei Salici aveva una figlia di nome Giada. Tutti i dignitari del regno e tutti i sudditi, consideravano Giada non solo la più bella ragazza del regno, ma di tutta la Terra, non potendo immaginare una bellezza più grande.
Giada aveva un carattere dolce e socievole, tanto che, appena riusciva ad eludere la sorveglianza della guardia reale, usciva dal castello per andare a passeggiare tra la gente e spesso si fermava a giocare con i bambini o a chiacchierare con giovani, adulti e anziani.
Tutti le volevano molto bene e per questo il re, anche se sgridava bonariamente la figlia per le sue frequenti uscite solitarie, non ordinava mai alle sue guardie di sorvegliarla più strettamente per impedirgli davvero di lasciare il castello.
Un giorno però, mentre sostava presso una fontana per rinfrescarsi, la principessa incontrò una donna vestita di nero, che mai prima di allora aveva visto. Era la strega Barbogia, cattiva e invidiosa. Infatti appena vide la bellissima fanciulla fu rosa dalla gelosia e congegnò uno dei suoi perfidi malefici.
Si avvicinò alla principessa e appoggiandole una mano sulla schiena le disse: “O povera fanciulla, stai molto male? Coraggio, coraggio, sono qui per aiutarti!”. Giada rise stupita: “Ma no, vi sbagliate, non sto affatto male”. “Davvero” rispose la strega, fingendosi stupita “eppure sei così pallida, che sembra tu stia per morire”.
La pelle della principessa era in verità molto chiara, ma quel candore si abbinava perfettamente ai suoi capelli, ai suoi occhi e ai suoi lineamenti, conferendole maggiore bellezza. Giada guardò la propria immagine riflessa nella fontana e non vide un colore anormale, ma per la prima volta in vita sua si accorse del candore della propria pelle.
La strega non perse tempo e prima di dare tempo alla fanciulla di riflettere aggiunse: “Devi stare più tempo all’aria aperta, prendere un po’ di sole”. Giada rispose sempre più incerta: “Ma io sto quasi sempre all’aperto”. “Oh ma davvero” disse Barbogia fingendosi affranta “allora è proprio la tua pelle ad essere così, che peccato però, saresti una così bella ragazza, se non fosse per questo pallore spettrale”.
Giada, che era da sempre abituata a ricevere solo complimenti, si turbò moltissimo sentendo le parole della donna e si guardava sconsolata la pelle. Allora la strega mise a frutto il suo astuto piano: “Non essere triste, ho io la soluzione al tua problema” e svelta, svelta estrasse dalla borsa una boccetta: “In questa fiala c’è un unguento che ha il potere di abbronzare anche la pelle più pallida, persino la neve diviene del colore del mogano se bagnata da questo olio, spalmati per bene con quest’olio, subito questa sera e già domani avrai una splendida abbronzatura”.
Giada ringraziò la donna, tornò al castello e la sera si unse con il magico unguento. La mattina dopo appena sveglia corse allo specchio ed effettivamente si vide perfettamente abbronzata.
Tutta contenta andò dalla sua damigella pensando di farsi rimirare, ma essa sembrò non badare al colore della sua pelle, ma tappandosi il naso le disse “Misericordia principessa, che orribile odore”. “Che puzza disgustosa” dissero le guardie, “Che olezzo ributtante” disse la cameriera, “Che tanfo ripugnante” disse la governante, “Che fetore vomitevole” disse il giullare, “Che lezzo raccapricciante” disse il ciambellano. E così via.
Ogni persona che incontrava si turava il naso e si allontanava da lei inorridito e in preda ai conati. In breve Giada capì che la pozione aveva reso la sua pelle non solo scura, ma anche orribilmente puzzolente.
Il tanfo che emanava dalla sua pelle era davvero terribile e solo la povera Giada non l’avvertiva. Provò a lavarsi, a profumarsi a purificarsi con saune, bagni turchi, incensi e fumi aromatici, diete vegetali, ma non c’era niente da fare, il fetore ripugnante non diminuiva per nulla.
La vita della principessa fu sconvolta: così ributtante era il suo odore che nessuna persona o animale riusciva ad avvicinarla e persino le piante deperivano alla puzza che emanava la sua vicinanza.
Giada fu costretta a ritirarsi tutta sola in una torre del castello e a passeggiare in un angolo del giardino reale che ben presto divenne spoglio come un deserto. Guardava da lontano le piante, gli animali e le persone e piangeva.
Finché un giorno, dalle lontane terre del Nord giunse un cavaliere di splendido e nobile aspetto, forte e triste. Era il principe Modrum che cercava moglie, non avendo trovato né nel suo paese né in quelli vicini una donna di cui riuscisse ad innamorarsi, ed era pronto a ricompensare il padre della sposa con cento carri pieni di gemme preziose.
Proprio mentre il principe arrivava nel paese, i salici cominciarono a fiorire e la lanugine copriva come neve il paese. Il principe, che non conosceva i salici restò meravigliato, ma cominciò anche a starnutire e a tossire, gli occhi gli lacrimavano, la testa gli girava e si sentiva le febbre alta. Era allergico al polline dei salici!
Decise perciò in cuor suo di attraversare più velocemente possibile quel paese e continuare più oltre la sua ricerca.
Quando però il re seppe dell’arrivo del principe nel Paese dei Salici e della sua ricerca, ordinò che il cavaliere del Nord fosse portato subito alla sua presenza. Le guardie del re lo raggiunsero e gli ordinarono di presentarsi al re del paese.
Il principe, che rispettava le leggi, seppur di malavoglia seguì le guardie e si presentò al castello. Starnutendo e soffiandosi il naso, il cavaliere chiese al re di lasciarlo proseguire velocemente, perché il polline dei salici lo tormentava. Ma il re gli disse: “Prima di proseguire vorrei presentarti mia figlia”.
Dopo aver dato ordini severi a tutti i cortigiani e aver costretto anche la figlia a promettere il silenzio, introdusse il principe nella stanza di Giada.
Modrum fu subito colpito dalla principessa e a causa del fortissimo raffreddore non né sentì la puzza. Giada, fu contenta di poter parlare finalmente con qualcuno, che non scappasse via dopo pochi secondi in preda ai conati di vomito.
A sera i due giovani stavano ancora chiacchierando, ma già si erano innamorati. Modrum propose subito a Giada di sposarlo e Giada, lo mise in guardia, dicendogli, che non poteva rompere il giuramento del silenzio, ma una stregoneria era su di lei e lui non avrebbe dovuto sposarla, anche se lei stessa ne sarebbe stata molto felice.
Modrum restò perplesso, ma scrollò le spalle, troppo innamorato per vedere problemi anche in quella pur strana situazione e andò dal re a chiedere la mano della principessa.
Il re acconsentì, ma pose la condizione che le nozze dovevano svolgersi il giorno seguente al castello. Modrum acconsentì e la mattina seguente, alla presenza di pochi testimoni, con il naso turato dalla cera e i visi coperti dai veli sposò la principessa.
Poiché grande era la gioia per avere trovato la sposa che sempre aveva sognato si meravigliò solo un poco dello strano abbigliamento dei presenti alle nozze: “Questa è l’usanza del nostro paese” gli spiegò astutamente il re.
La mattina seguente si mise in viaggio per tornare nel regno di suo padre, con la sua bellisima sposa. Quando però uscirono dal Paese dei Salici, e la lanugine sparì anche il raffreddore allergico cessò e Modrum incomincio e sentire come tutti la puzza della pelle di Giada.
La poverina, che aveva pensato che almeno Modrum non avrebbe mai sentito il suo odore, piangeva disperata e propose a Modrum di abbandonarla nel deserto, dove desiderava morire. Modrum però, che ormai amava Giada, si riempì il naso di fango e portò Giada al suo paese.
Il padre di Modrum si indignò per il raggiro che il re del Paese dei Salici aveva ordito ai danni di suo figlio, ma per non contrariarlo accettò Giada e le diede la torre più alta del castello per rifugiarsi lontana dalle narici delle gente.
Tutti i medici, i guaritori e i maghi del paese furono convocati, ma nessuna soluzione fu trovata. Finché una ragazza di nome Sheena, che passava tutto il suo tempo libero a prendere il sole, convinse Giada ad andare con lei sul ghiacciaio che scendeva al mare in cima al grande fiordo in cui sorgeva la capitale del regno del Nord.
Qui fece sdraiare Giada su una coperta in una giornata di sole. Il riflesso dei ghiacci e il sole di montagna, presto scottarono la pelle della principessa, che si seccò e cadde. Sotto riapparve la vecchia pelle candida e profumata.
Il principe allora prese Giada, Sheena, cento carri di gemme preziose e mille guerrieri e tornò nel Paese dei Salici. Il padre di Giada fu contentissimo di riabbracciare la figlia liberata dal sortilegio e lodò le lealtà del principe, che nonostante il raggiro gli consegnava le gemme pattuite.
Così i guerrieri del Nord non dovettero sguainare le spade perché il re accettasse il pegno impostogli da Modrum per farsi perdonare e donò a Sheena un lungo tratto di spiaggia, dove la ragazza fondò una bellissima stazione balneare che divenne famosa per i suoi bagni di sole.
Modrum e Giada tornarono nel paese del Nord dove divennero gli amatissimi regnanti e vissero felici e contenti per lunghissimi anni ed ebbero molti figli e figlie belli, buoni, forti e profumati come i loro genitori.

domenica 19 agosto 2012

LA STANZA DEL RICCO


C’era un uomo molto ricco, che abitava in una casa costruita sulla roccia e passava tutto il tempo in una grande sala dove riceveva i suoi amministratori, i mezzadri e i mercanti. La sala aveva una sola uscita verso l’esterno e una più larga, verso la sala del tesoro.
Il ricco signore passava tutto il tempo lì dentro a curare i suoi affari, mangiava e beveva lautamente e dormiva dietro un separé vicino all’ingresso della stanza del tesoro. L’attività dell’uomo era frenetica, tanto che per anni dimenticò di uscire dalla stanza e a causa del poco moto e delle abbondanti libagioni divenne molto, molto grasso.
Un giorno finalmente guardando dalla finestra della stanza la città con i suoi giardini e i boschi sui monti e la campagna con i torrenti e i laghi e gli uccelli che volavano nel cielo, ebbe voglia di lasciare per un po’ i suoi affari e di uscire.
Subito però si accorse di essere divenuto troppo grasso per passare dalla porta. Chiese di allargarla, ma gli fu detto che ciò non poteva essere fatto senza far crollare tutta la casa e lo stesso valeva per il tetto e la finestra, poiché la casa era stata costruita come una fortezza per difenderla dai ladri.
L’uomo chiese allora di scavare un tunnel, ma la roccia era così dura da spezzare le punte dei picconi. Convocò allora i medici per una cura dimagrante, ma scoprì che occorrevano molti mesi per perdere tutti i chili necessari a passare di nuovo dalla porta e inoltre si richiedeva una dieta ferrea e molto moto. Ma chiuso in quella stanza l’uomo non poteva fare molto moto, né aveva altri passatempi se non quello di mangiare. Come fare allora?
Il ricco mercante si sentì in trappola e divenne sempre più nevrotico. Dopo poche settimane stava già per impazzire, quando si presentò un vecchietto magro magro con un grosso gatto, una cornamusa e un sacco. “Se mi donerai tutti i tuoi averi ti farò uscire dalla stanza in meno di un’ora”. L’uomo che era ormai disperato accettò.
Allora il vecchietto gli ordinò di stendersi per terra e gli mise un piede sopra, poi gli insegnò una canzone dalle parole misteriose, estrasse dal sacco un furetto digrignante e lo tenne ferme al suolo con l’altro piede. A quel punto iniziò a suonare la cornamusa.
L’uomo come gli era stato ordinato cominciò a cantare: “Carumma com curum, carumma com curum, carumma com curum, …”. Dopo un po’ l’uomo cominciò a digrignare i denti e il furetto ad emettere strani versi: “Cam com cum”.
L’uomo e il furetto si erano infatti scambiati il corpo. Il vecchio subito capì che lo scambio era avvenuto e lasciò libero il corpo dell’uomo posseduto ora dal furetto.
Il gatto gli si avventò contro, e il furetto, che non sapeva di possedere un corpo da uomo, incominciò a fuggire disperato per la stanza. Mosso dal furetto il corpo dell’uomo incominciò a sudare e sudare e in poco più di tre quarti d’ora aveva perso più di cento chili di peso.
Allora il vecchio posò la cornamusa e recitò delle parole magiche. “Carumma com curum” riprese a cantare l’uomo, che era di nuovo nel suo corpo. Nel suo corpo dimagrito.
Il vecchio rimise il furetto nel sacco. L’uomo lo ringraziò e se ne andò povero e felice a godersi i prati, i boschi i laghi e i ruscelli. Il vecchio fece demolire la casa e donò tutte le ricchezze agli amministratori, ai mezzadri, ai servi e ai poveri della città. Quindi andò nel bosco liberò il furetto e seguito dal suo grosso gatto se ne andò per la sua strada.

martedì 14 agosto 2012

IL CASTELLO SENZA PORTA


Nella notte dei tempi i guerrieri del castello di Nodor uscirono per una grande guerra in terre lontane lasciando il castello incustodito. Il castello infatti possedeva una porta incantata, che si apriva pronunciando una formula magica e poi si richiudeva senza lasciare traccia di sé, cosicché il castello pareva del tutto senza porte. Le mura del castello erano perfettamente lisce, altissime e talmente dure da non poter essere scalfite nemmeno dal diamante né erano intaccate dal fuoco.
I guerrieri di Nodor combatterono con molti altri eserciti una grandissima battaglia contro le forze del male, che furono sconfitte, ma prima di soccombere annientarono interi eserciti di valorosi combattenti delle schiere del bene. Anche i guerrieri di Nodor offrirono le loro vite e nessuno di loro fece ritorno a casa.
Il castello restò così abbandonato e inaccessibile.
Molto tempo dopo una tribù di pastori giunse nella valle, piantò le tende all’ombra del castello e condusse le bestie nei verdi pascoli della valle.
Si stupirono molto di quello strano e altissimo castello senza porta e dalle mura altissime e durissime e naturalmente non poterono entrarvi e un po’ alla volta si abituarono alla sua presenza, come fosse una roccia qualsiasi.
Solo un ragazzo di nome Rod guardava sempre con interesse il castello meditando di potervi entrare. Infatti Rod aveva trovato un grosso pulcino che pigolava tra le rocce. Dopo aver atteso invano il ritorno della madre, il ragazzo si era preso cura del pulcino allevandolo.
Il pulcino era cresciuto ed era diventato una grande e forte aquila, che era poi ritornata a fare il nido tra le rocce più alte, ma era rimasta amica del ragazzo.
Spesso l’aquila andava a trovare Rod portandogli in dono anche qualche coniglio, qualche topo e qualche serpente appena catturato. Rod sognava così di poter volare con l’aquila fino al castello, ma da un lato aveva paura, dall’altro l’aquila non sembrava molto disposta a fare da cavallo volante.
La vita trascorreva tranquilla, quando un giorno giunse la notizia di un crudele esercito che stava avanzando saccheggiando e devastando tutte le terre in cui passava e sarebbe certamente arrivato fino a Nodor.
I pastori riflettevano già se abbandonare la valle per fuggire verso terre ignote, sempre però con il timore di essere raggiunti dai nemici.
Rod allora prese il coraggio tra le mani, spiegò all’aquila il grande pericolo per la sua gente e la convinse a portarlo sulla schiena, così in volo, cavalcando l’aquila, entrò nel castello.
Il cuore gli batteva forte quando l’aquila lo depose in cima alle mura. Guardando in giù vedeva tutta la valle e le persone e le bestie sembravano piccole formiche che giravano qua e là.
Dopo aver fatto il giro delle mura Rod iniziò a esplorare il castello. Attraverso scale di marmo e d’oro entrò nelle torri e nei palazzi scoprendo grandi sale coperte di arazzi e con i soffitti affrescati, mobili intarsiati e porta lampade tempestati di gemme, stanze piene di armi scintillanti o di scaffali con mille pergamene e cucine piene di ogni stoviglia e camere con letti di legno e materassi di piuma d’oca e ancora nelle cantine orci e giare, che contenevano cibi e bevande ancora ben conservati. Nei cortili interni vi erano stalle e pozzi con acqua pura.
Infine nella mura trovò una grande incavatura, un atrio che dava su una porta. “Evviva” pensò Rod “dunque esiste una porta da cui fare entrare la mia gente con le nostre bestie e ripararsi dai nemici”. Ma non vi era nessuna serratura, nessuna leva, nessun meccanismo per aprire la porta. Ispezionò tutto il muro, ma trovò solo una piccola targa con delle scritte in una lingua sconosciuta.
“Questa deve essere la chiave” pensò Rod e presa la targa tornò sulle mura. L’aquila che volteggiava sopra il castello vide i segnali del ragazzo e scese a prenderlo e lo riportò all’accampamento.
Gli anziani si riunirono, ascoltarono Rod e analizzarono la targa. Decisero che solo i monaci della valle dei templi potevano conoscere il segreto di quella scrittura misteriosa. Ma ahimè, la valle dei templi era distante molti mesi di cammino e non era possibile raggiungerla e tornare prima dell’arrivo degli invasori.
Rod chiese allora di nuovo aiuto all’aquila che radunò le aquile più forti e veloci e sfrecciarono nel cielo portando a turno sulla schiena Rod con la sua preziosa targa.
Giunsero così alla valle dei templi, mostrarono la targa e furono condotti dal più dotto dei monaci, che consultando alcune antiche pergamene riuscì a decifrare le scritte. E la scritta spiegava proprio la parola da usare per aprire la porta.
Subito le aquile e il ragazzo tornarono a Nodor e mentre già i guerrieri galoppavano verso gli atterriti pastori, Rod fece aprire la porta e uomini e bestiame si rifugiarono nel castello, mentre gli invasori sbatterono le teste contro la porta che s’era appena richiusa.
Invano strinsero l’assedio alla fortezza e subirono molte perdite perché dall’alto i pastori con gli archi le frecce e le catapulte trovate nel castello li bersagliavano. Così gli invasori sconfitti si ritirarono e non tornarono mai più nella valle di Nodor.
I pastori stabilirono la loro casa nel castello e donarono le antiche pergamene e molti altri oggetti di valore ai monaci della valle dei templi per ringraziarli del loro aiuto. Alle aquile fu concesso di fare i loro nidi sulle torri del castello e aquile e pastori rimasero per sempre amici e alleati, anche se né Rod né nessun altro cavalcò mai più un aquila.

martedì 7 agosto 2012

BOBBY FARTER E IL DRAGO


Tra le montagne Colorate vi è una valle arida, aspra, avara di frutti. E’ la valle di Bohnenwinde la cui terra è generosa solo con i fagioli. Infatti mentre tutte le piante crescono stentatamente le piante di fagioli fioriscono rigogliose e producono quantità straordinarie di bacelli pieni di grossi e saporiti fagioli.
Inutile dire che la dieta degli abitanti di Bohnenwinde è ricchissima di fagioli. Nelle famiglie più povere poi si mangiano soltanto fagioli.
La famiglia di Bobby Farter era una famiglia numerosa e possedeva un solo campo, naturalmente di fagioli.
Mangiando sempre e solo fagioli le scoregge erano all’ordine del giorno, ma Bobby aveva un problema. I suoi peti erano infatti talmente fetidi da dare il voltastomaco a uomini, animali e piante nel raggio di 300 metri.
Così Bobby veniva spesso cacciato in malo modo dai suoi stessi familiari, che pur gli volevano bene, figurarsi dagli altri.
Un giorno stufo di questa situazione Bobby mise i suoi quattro stracci in un fagotto insieme alla sua razione settimanale di fagioli e lasciò la valle.
Dopo aver camminato per giorni e giorni tra le montagne un mattino, dopo aver fatto colazione con la solita scodella di fagioli fritti, girato un costone di roccia si trovò all’imbocco di una bellissima valle.
Si incamminò pieno di speranza lungo il sentiero che si inoltrava nella valle, quando dal bosco sbucarono fuori due guardie con i capelli piumati, le armature lucenti e delle lunghe lance.
“Benvenuto nella valle di Apfelduft, straniero” dissero le guardie.
“Grazie” rispose Bobby, già contento del saluto.
“Stai ben attento però, che la valle è tormentata da un orribile drago, che ha fatto la sua tana nel bosco, e fa strage di ogni creatura che gli capiti sotto tiro e distrugge inoltre case, stalle, frutteti e piantagioni”.
La guardia aveva appena finito di parlare quando si udì un rumore di ali e un forte soffio, il cielo si oscurò e il drago piombò su di loro.
Il drago era veramente terrificante, pieno di creste appuntite e di protuberanze molliccie, con gli occhi di fuoco e le narici fumanti. Nell’enorme bocca aveva quattro file di denti acuminati e una bava disgustosa colava all’intorno.
Bobby si spaventò come mai in vita sua e gli scappò una grande scoreggia. I miasmi del peto di Bobby tramortirono immediatamente il drago che piombò al suolo in preda alle convulsioni. Le guardie caddero a loro volta al suolo prive di sensi.
Bobby capì al volo la situazione, raccolse le lancie delle guardie e le conficcò in mezzo agli occhi del drago, uccidendolo.
Poi con una grossa foglia arieggiò attorno alle guardie che rinvennero e videro il drago morto.
Bobby fu portato al paese e festeggiato come un eroe.
Fu imbandito un grande banchetto e Bobby mangiò avidamente mele, miele, riso, carote e patate e bevve del buon vino rosso e l’acqua della sorgente Vollgesund.
Per la prima volta in vita sua il pasto non gli gonfiò la pancia e Bobby digerì senza problemi.
Gli abitanti di Apfelduft pregarono Bobby di fermrsi da loro. Bobby accettò volentieri, ma disse che l’unica cosa che sapeva fare era coltivare fagioli.
“E questo farai” gli risposero “ma i fagioli serviranno come scorta nel caso arrivi qualche altro mostro nella valle, al tuo cibo penseremo noi, perché non vorremmo fare anche noi la fine del drago”. Tutti risero di gusto.
Bobby da quel giorno coltiva il suo campo di fagioli nella valle di Apfelduft e mangia di tutto, tranne i fagioli.

domenica 5 agosto 2012

IL PASTORE DI NUVOLE


Il pastore di nuvole aveva dei grossi scarponi sempre ben ingrassati, calzoni e giacca di pelle e un cappellaccio impermeabile. Questi vestiti infatti sono i più adatti per chi vive sempre sotto il brutto tempo.
Il pastore di nuvole camminava sotto una coltre fitta di nubi battendo ritmicamente un grosso tamburo che portava a tracolla. Le nuvole seguivano quel suono e così il pastore riusciva a portarle dove voleva.
Quando voleva far piovere il pastore prendeva un secondo tamburo un po’ più piccolo, che teneva appeso sulla schiena, e suonava dei ritmi che solo lui conosceva. Le nuvole obbedivano riversando, più o meno, la quantità che il pastore chiedeva loro.
Come aiutanti il pastore aveva quattro falchetti, che volavano sopra le nubi e avvertivano il loro padrone se qualche indisciplinata stesse separandosi dalla coltre.
Il pastore conosceva anche dei ritmi particolari per calmare le nuvole imbizzarrite che scaricavano invece della pioggia la grandine
Il pastore sapeva bene quando la pioggia serviva alle campagne o per riempire gli abbeveratoi e i pozzi ed era sempre ben accolto nei posti in cui si recava con il suo strano gregge.
Il pastore non era avido, ma solo un po’ goloso, così si accontentava di poco come compenso per il suo lavoro, ma non disdegnava i lauti banchetti di festeggiamento che gli venivano offerti.
Non poteva però fermarsi molti giorni in uno stesso posto, perché le nuvole devono essere tenute sempre in movimento. Devono passare sopra il mare e i laghi per riempirsi di umidità e passare veloci sopra la terra per restituire l’acqua senza causare alluvioni, perché per stare bene hanno bisogno di liberarsi spesso dell’acqua.
Girando così velocemente da un posto all’altro, i pastori di nuvole faticavano a trovare moglie anche perché poi vivere con un pastore di nubi significa veder il sole solo di lontano e questo difficilmente può piacere a un donna.
Il nostro era così l’ultimo pastore di nuvole ed incominciava ormai ad essere avanti negli anni. Decise perciò di sacrificare una parte del suo gregge andando a cercare moglie nel deserto. Lì infatti poteva lasciare fermo il suo gregge ad arrabbiarsi e consumarsi con tempeste di acqua e di grandine senza causare guai.
Il pastore si fermò vicino ad un’oasi ed affidato il gregge di nubi ai falchetti andò a cercare moglie.
Il capo dell’oasi, vedendo che il pastore era in grado di portare la pioggia e la tempesta, lo accolse con gioia e gli promise subito in sposa la figlia.
“Con calma - disse il pastore - dobbiamo prima conoscerci e vedere se ci piacciamo, poi tua figlia deve essere disposta a passare da questo paese pieno di sole ad una vita sotto le nuvole.”
Ma il capo, che era una persona ambiziosa e violenta svelò il suo piano al pastore: voleva trattenere le nuvole lì per sempre per irrigare il deserto e per combattere le altre tribù con la forza della tempesta. Il pastore spiegò che ciò non era possibile, perché se le nuvole non possono correre per il cielo, si ammalano e muoiono.
Il capo dell’oasi allora disse che lui stesso avrebbe accompagnato il pastore e il suo gregge fino al mare tutte le volte che ciò era necessario, ma poi sarebbero tornati lì nella sua oasi. Il pastore rispose: “va bene andiamo è ora di partire”.
Il capo dell’oasi scelse i suoi uomini più fedeli e valorosi per fare da guardia al pastore e partirono con lui.
Quando fu notte il pastore fece scendere alcune nuvole fino a terra e nella nebbia si sottrasse alla vista delle sue guardie, poi con il suo tamburo e l’aiuto dei falchetti, mandò una tempesta verso est. Mentre lui silenziosamente con il resto del gregge fuggì velocemente verso ovest.
Le guardie e il loro capo malvagio, confusi dalla nebbia e assordati dal rumore della tempesta partirono all’inseguimento di questa.
Così il pastore riuscì a fuggire e abbandonò l’idea di prendere moglie e fu perciò l’ultimo pastori di nubi.
Per questo da quel giorno le nuvole sono tornate tutte selvatiche e corrono libere per il cielo lasciando cadere pioggia, grandine e neve a loro piacimento e senza troppa considerazione per i desideri degli uomini e degli animali.