domenica 30 ottobre 2011

AMORE A LIETO FINE


Fai quello che ti pare, non mi importa un cazzo di te, di troie come …
Il rumore della pesante porta di ferro e il rimbombo nella spoglia stanzetta coprirono le altre parole e anche il gemito del ciclostile contro cui si abbatteva il suo pugno. Sapeva che non sarebbe più tornata. La sedia si schiantò contro il muro con un secco suono di legno spezzato.
Si asciugò il sudore freddo dalla fronte, vuotò una mezza lattina di birra sgasata, lasciandosi cadere per terra. La tensione nervosa lo fece presto rialzare. Meccanicamente tornò al ciclostile.
Non ricordava nemmeno perché lo stesse facendo, ma concentrandosi sui fogli freschi d’inchiostro, incominciò a riprendere il controllo di sé.
In quel momento la porta si aprì, non fece in tempo a girarsi, non vide neppure il lampo. Pezzi del suo cervello volarono all’intorno.
Lo portarono subito fuori e lo infilarono in un sacco sopra al cadavere di lei. Finalmente, dopo tanto tempo rimasero insieme senza litigare.
Più tardi il vento disperse la ceneri dei loro corpi bruciati.

domenica 23 ottobre 2011

L'ODORE DELLA PIOGGIA


Nell'aria, questa sostanza - e già la parola sostanza ci dice di qualcosa di fisico, anche se impalpabile, ammesso che qualcuno abbia mai cercato di palpare l'aria - invisibile, se non quando, nelle giornate luminose guardando il cielo, si provi a mettere a fuoco vicino agli occhi, si noterà allora un confuso movimento oscillante di riflessi di luce, grazie al quale è possibile intuire il sottostante agitarsi delle molecole d'aria in frenetici movimenti browniani, ma anche questo non è esattamente vedere l'aria bensì un suo riflesso, ma coscienza più precisa della fisicità dell'elemento si ha quando viene a mancare, si sente allora nei propri polmoni il bisogno furioso di ciò di cui, fino a prima, non ci si accorgeva neppure dell'esistenza e anche qui in realtà vi è un inganno dei sensi poiché ciò di cui avvertiamo realmente la deprivazione è l'ossigeno, che dell'aria è solo una componente, per giunta minoritaria e non senza ironia, l'unica aggressiva e nociva, per i viventi, nell'aria c'era, nel luogo e nel momento che poi specificheremo - secondo le ordinarie coordinate spazio temporali, che nonostante la loro relatività sono le uniche utili alla reciproca comprensione, che è ciò che qui in fondo interessa. Nell'aria, dunque, c'era odore di pioggia. Pioggia è una parola vaga. Dovrebbero esistere tanti vocaboli differenti per designare le varie tipologie di pioggia e le loro combinazioni. La pioggia fredda, tiepida o calda, grossa media o sottile, fitta o rada, verticale o inclinata dal vento in vari gradi e in una o in varie direzioni, mista a neve o a grandine, piena di sabbia del deserto, acida o radioattiva. Ma nel nostro caso si può parlare semplicemente di pioggia generica, indefinita, perché, in effetti, di pioggia non ve ne era ancora. L'odore, però, proprio odore non profumo o puzza, perché anch'esso vago e indefinito, come tutto ciò che richiama il futuro, ma, ugualmente e paradossalmente, potremmo anche dire sapore tanto era pregnante e facilmente avvertibile e coinvolgente, l'odore parlava di pioggia d'autunno, il che era alquanto singolare, alla fine del mese di marzo.
La pioggia di primavera mi avrebbe fatto venire in mente Bonn, le placide rive del Reno, le lunghe piste ciclabili, che sotto filari di alberi si inerpicano sulle colline, le vie del centro affollate di pedoni e quelle di Poppelsdorf dominio degli studenti, entrambe ben popolate dei miei ricordi. Il mercato al mattino prima dell'inizio degli affari, il rumore delle chiatte che ruggiscono nascoste dalla nebbia, il bidello a torso nudo che spazza le foglie davanti al dipartimento di chimica in pieno inverno o magari solo quel giovane biondo che vidi appena tre volte. La prima subito fuori della stazione centrale sulla via che porta alle piazze, seduto per terra, ascoltava divertito la predica di una distinta signora attempata che lo invitava a tornare a casa. La seconda su una panchina di fronte alla cattedrale in compagnia di altri barboni, più vecchi, ma non meno ubriachi di lui. La terza accampato con una coperta contro il muro di una strada del centro, tra il flusso fluido dello shopping, insieme a due bambini, una femmina e un maschio, apparentemente tra i quattro e i sei anni. Una coppia di poliziotti si era già fermata e gli parlava, mentre io passavo oltre.
Ma trattandosi di pioggia di autunno il pensiero mi corse a Newcastle.
A Newcastle viveva Sue. La madre di Sue era di Taiwan, ma si era fermata a lavorare come biologa all'Università di Newcastle dopo esservi arrivata con la prima borsa di studio post-laurea. Aveva sposato un inglese dal quale aveva avuto Sue. Quando la bimba aveva 11 anni lui se ne era andato con un'altra donna in una città del sud. In seguito anche la madre si era trasferita negli USA, lasciando Sue , secondo i suoi desideri, a Newcastle, dove iniziava il collage. Poco dopo Sue che aveva conosciuto Robert l'anno prime, era andata a vivere con lui.
Dopo un primo periodo felice il loro rapporto aveva cominciato a incrinarsi e con il passare dei mesi i momenti di concordia erano divenuti sempre più radi e i litigi sempre più frequenti e violenti.
Quella mattina Robert l'aveva afferrata alle spalle e le aveva premuto un coltello sul collo, non dalla parte della lama, ma ugualmente con la punta l'aveva leggermente scalfita, provocandole l'uscita di un filo di sangue, prima di liberarla dalla stretta.
Mente Sue terrorizzata tamponava con la mano la micro ferita Robert le aveva detto: è meglio che te ne vai, è meglio per te.
Sue aveva cominciato subito a fare le valige, mentre Robert del tutto indifferente guardava la televisione e in breve, carica all'inverosimile, era uscita di casa, senza parlare, senza voltarsi indietro.
Era salva! Salva da Robert, ma ora dove poteva andare?
Cercò di immaginare chi potesse ospitarla. Si accorse di aver ormai perso il contatto con tutte le sue amiche e amici e certo gli amici di Robert non potevano esserle d'aiuto, anche loro temevano Robert. Si chiedeva anche perché fosse restata così a lungo con Robert. perché non aveva mai pensato lei ad andarsene? Aveva paura di Robert o aveva paura di restare da sola? Di riprendere il controllo della sua vita?
Arrivata in Sant Marys Place fece il giro in senso orario passando davanti Sant Nicholas la chiesa Anglicana per fermarsi poi a mangiare un pastry e un paio di pies al negozio di fronte all'ingresso della metro, all'angolo con Northumberland Street.
Attraversata la strada trascinò i bagagli fino alla bacheca fuori della caffetteria e incominciò a cercare gli annunci di alloggi.
Selezionò con cura quelli rivolti a sole ragazze. Quindi afferrò il primo telefono pubblico a disposizione e iniziò a chiamare.
- Ciao sono Sue, telefono per la stanza
- sì sono 90$ al mese, ma devi dare 2 mesi di caparra, che perdi se te ne vai con un preavviso inferiore ai due mesi, poi devi contribuire alle spese per i detersivi, naturalmente avrai i tuoi turni per la pulizia delle parti comuni, il bagno, la cucina, il ...
Sue riattacò. La voce era antipatica, il prezzo era alto e poi che modi, non aveva neppure salutato.
Al secondo numero della lista non rispondeva nessuno. Al 3° nemmeno. Il 4° posto risultò essere già occupato. La quinta telefonata fu la più sgradevole.
- ciao sono Sue, ho letto l'annuncio della camera libera
- ciao sono Allison, posso farti qualche domanda?
- sì certo.
- che fede professi?
- scusa, in che senso
- di che religione sei?
- nessuna per la verità
- ah capisco, e per chi voti.
- per chi voto? ma non so , non ho idee precise, dipende dai candidati.
- capisco, ma senti, sei di razza bianca?
- no, cioè non del tutto
- beh, senti mi dispiace, ma credo che non siamo compatibili.
- sì lo credo anch’io, grazie lo stesso.
- addio
- addio
Dunque esisteva ancora della gente così? Sue provò il 6° numero, senza fortuna: nessuno in casa. Possibilità ancora aperta certo, ma Sue aveva fretta.. Era una bella giornata, ma dormire all'aperto non era pensabile e non voleva buttar via soldi dormendo in un albergo. Aveva appena incassato il sussidio, ma il suo conto era già al minimo e non voleva proprio chiamare la madre per avere un versamento anticipato dei soldi che lei trimestralmente le mandava.
- Come mai vivendo con Robert era sempre a corto di soldi?
Si ripromise di rifletterci su
- ciao sono Sue. Ho letto il tuo annuncio, la stanza è ancora libera?
- ciao sono Maggie e anche se mi sono da poco laureata in medicina se vieni a stare con me prometto che non ti curerò a meno che tu non sia veramente molto grave
Sue sorrise, finalmente un buon inizio.
- io sono al 3° anno di psicologia e se vengo a stare con te prometto di non sottoporti a più di 2 test al giorno.
- vuoi venire a vedere il posto?
- anche subito
- Ok ti spiego la strada.
Sue era speranzosa e timorosa. Ma molto più che al futuro pensava ancora al passato. Il passato con Robert. Il pensierio che Robert appartenesse al passato la confortò. L'aveva scacciata! Meglio così, se era lui a non volerla più non la avrebbe più cercata. Si sorprese a scoprire quanto la cosa la tranquillizasse. Il paesaggio del Tyne le parve una sorta di simbolo di cambiamento, il passaggio sul mar Rosso. Rise nell'immaginare Robert che affogava nel fiume. Ma non glielo augurava veramente. Ormai era libera e poteva pensare a lui con commiserazione.
Il piccolo cottage di Maggie, circondato da un giardino angusto e mal curato era alla periferia sud in una verde zona residenziale.
Sue arrivò con lo zaino in spalla, la sacca a tracolla, un’enorme valigia da aereo tirata con una mano, e l'altra piena di sporte di plastica e di cartone stracolme e molte già al limite della rottura. Il cancelletto era aperto. Sue raggiunse la porta, appoggiò le sporte per terra e suonò. Da dentro la voce allegra di Maggie rispose:
-arrivo, arrivo
La porta si aprì.
-ciao sono Sue
Maggie era una rossa di media statura, di corporatura robusta, con dei lineamenti molto dolci, i capelli raccolti in lunghe trecce, una anonima tuta da ginnastica grigia e un paio di zoccoli piuttosto malconci.
- Ciao, ma tu giri sempre con tutta questa roba o hai già deciso di trasferirti
trillò Maggie sorridendo bonariamente
- Sì questa è tutta la mia roba, è che sono praticamente su una strada
- allora entra, così rimediamo subito.
La porta dava direttamente nel soggiorno. Maggie prese le borse e aiutò anche Sue a togliersi lo zaino.
Appoggiarono tutti i bagagli attorno alla porta di ingresso.
- Vieni ti faccio vedere subito la casa
- ok
- per prima cosa il bagno, così se ti vuoi fermare...
- non serve, ma grazie del pensiero.
Il bagno era luminoso, grazie ad un'ampia finestra e nonostante il colore blu scuro ed opaco della moquette. Il box doccia era quasi lussuoso, il lavabo più modesto era sormontato da un grosso specchio e da un tubo al neon. Sui lati due armadietti di plastica bianchi e gialli che spiccavano sulle piastrelle azzurrine con fili psichedelici rosa e arancione
- bello
- vieni ti mostro la tua stanza, è sfitta già da molto tempo è davvero ora che ricominci anche lei a vivere.
La stanza era completamente verde: moquette, tappezzeria, letto, armadio, scrittoio e sedie, comodino.
Il letto era sotto una delle due finestre, sotto l'altra di fronte alla porta c'ero lo scrittoio, mentre alla parete di fronte alla prima finestra era appoggiato l'armadio a tre ante.
La porta era al centro dell'ultima parete, che per il resto era completamente libera. La stanza era ampia e risultava decisamente sotto-ammobiliata. Alla finestra non c'erano tende.
- Che ne dici?
- magnifica
- bene bene, sono contenta, mancano le tende sono vecchie ma ci sono e possiamo rimetterle o se preferisci puoi prenderne di nuove. Vieni ti mostro anche la mia camera.
La stanza di Maggie aveva le stesse dimensioni ma sembrava più piccola per via del letto a due piazze dell'armadio a quattro ante, del comò, dei due tavolini, delle tre sedie, del piccolo scaffale. I pochi tratti di parete libera erano coperti di stampe con foto in bianco e nero di musicisti jazz. I colori dei mobili sfumavano dal noce al giallino. L'impressione generale era di una stanza vivace e ordinata. Solo le pesanti tende lavorate risultavano un po' opprimenti. L'aspetto della stanza rafforzò la buona considerazione di Sue per Maggie. Parlarono brevemente di un paio di stampe poi attraverso il corto corridoio ritornarono nel soggiorno. La pianta della case era estremamente semplice. Dal lato opposto a quello delle camere si entrava in un’ariosa cucina con il tavolo al centro. dalla cucina su un lato si accedeva ad uno stanzino ad uso ripostiglio, dall'altro si usciva sul giardino dietro al cottage che risultava più ampio di quanto apparisse dalla visione frontale del cottage. Nella parete in fondo cerano lavello e fornelli. Delle piccole e graziose credenze erano sulle pareti laterali di fianco alle porte insieme ad un grosso frigorifero con congelatore.
- E' ora di pranzo hai fame?
- Sì abbastanza, ho già mangiato qualcosa ma trasportare tutti quei bagagli mi ha messo appetito.
- lo credo, nel frigo ci sono dei sandwich, serviti tu.
Sue prese una confezione di sandwich al pollo, mentre Maggie si aprì una confezione di sandwich assortiti
Dopo aver mangiato scaldarono il caffè e uscirono in giardino.
Maggie accese un mangiacassette sul davanzale e al pallido sole primaverile e nonostante un vento pungente restarono lì un'oretta ad ascoltare Muddy Waters, a guardare il cielo e a chiacchierare del più e del meno.
- in quale reparto lavori?
- obitorio
- oh Gesù!
- ti fa impressione?
- un po', sì un po’.
- allora non scavare mai in giardino, c'è qualche pezzo sepolto qua e là, sai ogni tanto mi porto il lavoro a casa
Sue guardò Maggie sbigottita
Maggie rise sonoramente.
- ma no, lavoro in pediatria, è solo che mi piace scherzare. Personalità distorta?
- credo proprio di sì, dovrò psicanalizzarti a fondo
- bene bene. Non ne abbiamo ancora parlato Sue, ma se vuoi puoi fermarti qui qualche giorno come mia ospite, così vedi se ti piace.
- Fantastico. sei un tesoro! Come potrei rifiutare?
- bene bene. Allora ti aiuto a portare in camera la tua roba. Puoi utilizzare anche il mobile del soggiorno dove trovi posto.
Dopo essersi sistemata ed aver fatto una doccia Sue si sentiva decisamente meglio. Che fortuna aver trovato Maggie. Tutto sembrava sistemarsi così velocemente. Poteva dimenticarsi in fretta anche di Robert.
Maggie la portò in un vicino pub. Un bel locale in cui si mangiava anche discretamente e a prezzi equi.
Sue bevve un paio di pinte di Boddington, mente Maggie bevve solo un drink analcolico, poi tornarono allegre a casa.
Qui Maggie tirò fuori una bottiglia di vino.
- Festeggiamo il tuo arrivo
Sue bevve un paio di bicchieri, mentre Maggie si dichiarò astemia, cosa che contrariò un po’ la sua nuova ospite.
- Non mi piace bere da sola, mi fa sentire un’alcolista.
- Scusami, mi piacerebbe tanto bere insieme a te, ma davvero non posso.
- ok, se vuoi farmi bere troveremo qualche compagno di bevute, così potrai farmi scoppiare il fegato per poi curarmi. E’ questo a cui miri?
- non ci avevo pensato, ma sai che è un’ottima idea. Posso chiederti invece, come ti è successo di ritrovarti su una strada?
- niente di particolare. Vivevo col mio ragazzo, col mio ex-ragazzo. Era da un po’ che non andavamo più d’accordo e stamattina mi ha buttato fuori di casa.
- hai voglia di parlarne?
- non tanta
- ok allora andiamo a dormire
- sono d’accordo, è stata una giornata dura
- ti lascio il bagno
- no vai pure prima tu
- ti conviene approfittarne è il bonus di buon arrivo, da domani è lotta spietata
- allora vado
Sue andò in camera, si mise in maglietta e si diresse verso il bagno. Nel corridoio incontrò Maggie.
- non porti il reggiseno?
- no, mi dà fastidio
- eh anche a me, ma con queste tette, non posso farne a meno
Maggie si sollevò la maglietta e prendendosi i possenti seni sorretti da un robusto reggiseno in mano li sballottò un po’ su e giù.
- mi fai vedere le tue?
Sue rise, poi si sollevò la maglietta mostrando i suoi piccoli seni sodi
- deliziose
- cosa?
- le tue tette, sono bellissime
- ah grazie
Sue incominciava a essere perplessa e Maggie se ne avvide immediatamente.
- non ti ho detto una cosa?
Maggie sorrideva palesemente divertita.
Sue aspettava con aria interrogativa. Il silenzio incominciò a infastidirla
- cosa?
- sono lesbica?
- lesbica?
- sì e mi sto innamorando di te
Sue, che era molto stanca e un po’ alticcia, sentì un capogiro afferrarle la testa.
Maggie si mosse con agilità e velocità insospettabili, la spinse contro il muro e la baciò sulla bocca.
Sue sgusciò via
- no ti prego
- scusa, mi è scappato, non lo faccio più se non vuoi
- sì, credo sia meglio
- buonanotte
Maggie sparì ridendo in camera sua.
- oh merda, ma non è possibile.
Sue si sentì di nuovo depressa.
- Gesù, cosa sta succedendo alla mia vita?
Non sapeva più che fare, infine cedendo alla stanchezza andò a letto e subito si addormentò come un sasso.
Quando si svegliò, la mattina seguente, si accorse che le stavano venendo le mestruazioni e naturalmente non aveva assorbenti.
Un’altra bella giornata? - Si chiese
Stava per infilarsi una felpa prima di uscire, condizionata dal pensiero di essere vista da Maggie
- al diavolo se voglio restare qua devo potermi muovere liberamente.
E uscì così com’era, in maglietta e mutande
Maggie era in cucina.
- bacon & eggs, caffè e spremuta d’arancia vanno bene?
- benissimo, grazie, scusa hai degli assorbenti?
- no mi spiace non gli uso.
- non gli usi?
- ultimamente no, sono al 4° mese.
- cosa?
Maggie atteggiò le braccia come a sorreggere un bimbo e lo cullò accennando una ninna nanna.
- un bimbo. Un ometto piccolo piccolo sai?
- è un altro dei tuoi scherzi?
- no sul serio
Sue guardò Maggie. In effetti la sua gravidanza era evidente, si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima, ma certo era un po’ sconvolta dagli eventi recenti.
- sei bisessuale?
Maggie rise
- no sono etero, solo etero. Ieri ti stavo prendendo in giro. Non avevo mai baciato una donna prima e credo proprio non lo farò mai più. E’ stato divertente, ma solo come scherzo
- io non sono uno psichiatra, solo una studentessa di psicologia, ma ti assicuro che sei matta
- sì, hai ragione scusa. Se esagero con i miei scherzi non farmela passare liscia, Però di solito non sono così esagerata. E’ che sono un po’ in crisi. Capisci con Curt andava tutto bene, anche se lui era strano, ma strano davvero, molto più di me. Era un chimico, ma del suo lavoro non mi ha mai detto altro, se non che lavorava nella sezione di biochimica del dipartimento di chimica dell’Università. In realtà ho saputo da una persona che lo vedeva spesso, lavorando in un magazzino vicino, che lavorava anche per un laboratorio privato, di cui però nessuno sa nullo, su cosa lavori o per chi, voglio dire. Io non gli ho mai fatto domande perché era inutile. In questi casi ti diceva cose del tipo: “Mi hai chiesto se potevi farmi questa domanda? Beh non potevi. Io non volevo che me la facessi, adesso tu vorresti la risposta e io non te la do. Uno pari. Fine della partita.” E non riuscivi più a parlargli. E più insistevi più lui restava muto. E per ritorsione non ti parlava più per ore. Così non sapevo nulla del suo passato, né della sua famiglia. Però con lui potevi parlare di 1000 cose, perché lui si interessava di tutto: cinema, letteratura, pittura, musica, sport, scienza e tecnica, politica, religione. Prendeva raramente posizione, ma sapeva un’infinita di cose, conosceva veramente un po’ di tutto, anche delle cose più strane e specialistiche. Credo che per questo nessuno gli facesse mai domande personali, ti travolgeva parlandoti, con competenza, di tutto lo scibile umano. Con me poi era dolce, comprensivo, disponibile, paziente. Mi confortava, mi esortava, mi capiva. Era praticamente perfetto. Anche nell’intimità. Poi nel periodo della laurea io sono stata un po’ sotto pressione, ho pasticciato con la pillola e sono rimasta in cinta.
Non ero sicura di come avrebbe reagito, ma non mi aspettavo certo che si sarebbe infuriato. E invece si è arrabbiato come mai prima di allora., mi ha accusato di averlo fatto apposta e mi ha subito proposto di abortire. Quando io mi sono opposta ha detto che non voleva avere nulla a che fare con il bambino e mi ha piantato in asso. Non si è più fatto vedere né sentire. Né io l’ho mai cercato, anzi farò di tutto per evitarlo se dovessi solo sentirne l’odore. Non è facile affrontare una gravidanza così, ma ora sono contenta, anche se ogni tanto ho ancora un po’ bisogno di sfogarmi con qualche scherzetto. Bella storia eh?
- oh Maggie
- già. Beh immagino che non avevi previsto di finire con una ragazza madre. Mi rendo conto che quando nascerà il bimbo, ah a proposito è proprio un maschio, sai? Quando sarà qui potrebbe disturbarti. Ma durante il giorno sarai tutto il giorno al dipartimento, qui è troppo fuori mano per andare e tornare, più di una volta al giorno, ma la notte quando il piccolo piangerà come farai? Se vorrai andartene capirò. Ma mi farebbe davvero piacere che tu ti fermassi con me almeno qualche giorno. Sai mi sento un po’ sola e con te mi trovo proprio bene.
- beh anch’io mi trovo bene con te. Mi fermerò e penso proprio non solo per qualche giorni, ma attenta agli scherzi, io ci casco sempre.
- ok
Si abbracciarono.
- posso farti una domanda personale?
- spara
- cos’era la cosa peggiore del tuo ex-ragazzo?
- la cosa peggiore?
- sì quella che non potevi sopportare? Per me era che Curt quando eravamo soli tirava dei rutti disgustosi,
- ma dai
- da vomitare ti assicuro.
- la cosa peggiore era quando perdeva il Newcastle
- è un tifoso?
- dei peggiori, un vero hooligan. Va a vedere tutte le partite, ma quando perdono o si ubriaca e torna a casa strisciando, e a me toccava curarlo e pulire i disastri che faceva oppure tornava cattivo. E allora faceva veramente pura. Non mi ha mai fatto niente anche perché io gli stavo ben lontano, perché solo a guardarlo si vedeva che per un nonnulla era pronto ad esplodere. L’ho visto fare a botte un paio di volte e credo sia in grado di uccidermi con due dita.
- spero tu non gli abbia dato questo indirizzo?
- non c’è davvero questo pericolo.
- andavi mai alle partite con lui?
- no, a me il calcio non piace e lui non aveva piacere di portarmi, per lui era come andare in guerra, una cosa da uomini
Finita la colazione si congedarono come due vecchie amiche e Sue uscì di casa per andare a lezione passando prima a comprare gli assorbenti. Per fortuna non era incinta. L’idea di avere un figlio da Robert la disgustava e la spaventava.
Era un po’ frastornata dagli eventi delle ultime 24 ore, ma soprattutto ora pensava a Maggie.
- che tipo incredibile
Intanto cominciava a piovere. La classica piogerellina del North Umbria, con il suo tipico odore sottile, odore di vecchio. A Sue venne in mente l’odore ben diverso, pieno e vitale, della pioggia dello Iowa, che aveva sentito l’estate prima, prima quando era andata a trovare sua madre.
La pioggia grossa, ruomorosa e profumata di natura dello Iowa.
Fuori dal Saloon Greg guardava la pioggia. Osservava nella tenue luce del piazzale le grosse goccie che si frangevano al suolo. La scena era rischiarata ad intermittenza dalla scritta The big house. Il rumore dei goccioloni sulla grondaia aveva un ritmo musicale che sembrava completare il suono ovattato della musica che usciva dall'interno del locale. Il paesaggio agreste era nascosto nel buio e un leggero chiarore indicava la presenza sullo sfondo della cittadina, che era l'unico centro abitato nel raggio di molte decine di miglia. Erano molti anni che non si vedeva un marzo così piovoso nello Iowa. Greg scrutava nel buio cercando inconsciamente di cogliere un presagio per il futuro. La sua vita, dopo l'incidente, era divenuta estremamente lineare. Il padre di Greg era un meccanico, la madre contadina aveva ereditato dal padre l'azienda agricola. Greg aveva studiato ingegneria, specializzandosi poi in meccanica agraria per lavorare infine come ricercatore presso l'università dello Iowa. Alla morte dei genitori in un incidente stradale era tornato a casa rilevando l'azienda e continuava collaborare con l'università solo sporadicamente testando nella sua azienda nuove soluzioni tecnologiche.
Fu distolto dal suo vagare nell'oscurità dal rumore di un motore. Dal suono riconobbe la macchina quando ancora non poteva vedere che la luce dei fari.
- ciao Joshua
- ciao Greg
- da dove arrivi?
Il pastore infatti non arrivava dalla città e dunque nè da casa nè dalla chiesa.
- sono stato da Lucy Connell
- sta di nuovo per morire? di cosa stavolta: sbadiglio fulminante?
sorrise prima di rispondere - ci seppellirà tutti probabilmente
Greg annuì. Restarono in silenzio a guardare il buio dietro il quale si nascondevano gli sconfinati campi di mais
Joshua pensava ancora ai Connells. Il marito di Lucy era morto in Vietnam quando la figlia non era ancora svezzata. Lucy non si era mai rassegnata e secondo l'opinione generale era andata fuori di testa. Nonostante ciò aveva condotto da sola il negozio di mercerie che aveva aperto insieme al marito e sempre da sola aveva allevato la figlia. La figlia cresciuta senza padre ora negava l'esistenza di Dio, padre celeste, mentre la madre, che conviveva da moltissimi anni con l'idea della morte, ossessionata come era dal ricordo del marito, aveva sviluppato una forte forma di ipocondria e temeva il giudizio di Dio dopo la sua imminente -così credeva- morte, pur avendo condotto una vita esemplare. Ma se Dio le aveva tolto il bene più caro qualche colpa doveva pur averla, così le aveva detto e non c'era stato verso di convincerla del contrario. Un bell'intreccio psico-religioso familiare. Queste meditazioni durarono solo un paio di secondi. Poi Joshua pensò a Greg che era lì al suo fianco. Ma prima che potesse iniziare una conversazione tra loro l'attenzione di entrambi fu catturata dal rumore e dalla luce di un auto che giungeva dalla città. Era il pick up di Zed, ma tirò dritto verso casa?
- tu che fai qui fuori, aspetti Molly? chiese joshua
- sì è dai Bells.
- un'altra crisi asmatica del piccolino?
- già
I Bells avevano due figli. Due dei tre che avevano generato. Il più grande a soli 14 anni era infatti deceduto in seguito ad un incidente. Era caduto da cavallo ed era stato portato in ospedale. Lì il giorno successivo all'incidente era subentrata una paralisi agli altri inferiori causata da una bolla dell'aorta che premeva sul midollo spinale. Il problema non era stato diagnosticato in tempo utile e così mentre correvano in sala operatoria l'aorta era scoppiata e il ragazzo era morto. Per questo ora i Bells diffidavano degli ospedali. Avevano invece fiducia in Molly. la fidanzata di Greg che aveva risolto malattie mai curate dal vecchio medico del paese e si era comportata egregiamente in alcuni casi di incidenti guadagnandosi la fiducia della comunità nonostante o forse in fondo proprio grazie alla sua giovinezza e al fatto di venire da lontano, da Pittsburg dove aveva vissuto e da Chicago dove aveva studiato, ma ancor più dall'India dove era nati i suoi genitori, che l'avevano chiamata Yasoda, nome che però nella sua nuova comunità nessuno usava più.
- tutto pronto per il grande giorno?
- a me basta che sia pronto tu
- figurati, non è mica il primo matrimonio che celebro, ma non chiedevo di te ma di Molly.
- lei non sarebbe mai pronta - rise Greg - se avesse 1000 anni di tempo arriverebbe al giorno prima con ancora qualcosa da fare!
Intanto arrivarono i fratelli Johansonn che presero Joshua quasi a forza e lo portarono dentro.
Joshua aveva affiancato il vecchio pastore malato quando era ancora un giovane appena uscito dal seminario. Il vecchio pastore era anche direttore della scuola .
La figlia neo laureata in pedagogia era poi tornata prendendo la direzione della scuola dove nel frattempo anche Joshua aveva cominciato ad insegnare. Il matrimonio tra il nuovo pastore e sua figlia aveva chiuso il cerchio religioso-educativo nel paese con soddisfazione di tutti. Alla gente del posto piacevano l'ordine e la semplicità e le gestioni familiari erano per loro quanto di meglio si potesse avere.
Intanto Greg rimasto fuori da solo stimolato dalla battuta di Joshua sull'imminente matrimonio pensava alla celebrazione del matrimonio e al viaggio di nozze in India.
Respirò profondamente l'aria umida della notte.
Che odore avrà la pioggia in India?
La pioggia cadeva in grosse gocce tiepide sul corpo di Bhima Dushasana Bhaktivedanta.
Gocciolava dai sui lunghi capelli neri sulla terra ormai melmosa, scorreva sul suo viso e sul suo torace nudo in piccoli rivoli, rigando la sua pelle secca come fosse una superficie oleata, per finire nelle braghe bianche ormai madide. Bhima Dushasana Bhaktivedanta era del tutto insensibile a tutto ciò come al resto: al fumo acre che proveniva da un vicino fuoco di sterco, ai rumori della folla che andava e veniva tutt'intorno affaccendata al mercato o impegnata nei riti sul fiume sacro, che scorreva anch’esso imperturbabile davanti allo yoghi.
Bhima Dushasana Bhaktivedanta era assorto in profonda meditazione. E in quello stato di parziale semi incoscienza ebbe una visione. La visione di uno stregone australiano bianco.
Liham guardava le nubi addensarsi nel cielo e già pregustava lo strabiliante fiorire del deserto dopo la pioggia. Steli avvizziti che si inturgidivano e reinverdivano a vista d'occhio emettendo germogli e sopratutto fiori. Migliaia di fiori che quasi fossero consci della loro durata effimera impiegavano ogni energia nello sfoggiare l'aspetto più sgargiante e lussureggiante in modo da attirare gli impollinatori, che in verità non parevano mancare poiché insieme alle piante anche gli insetti parevano nascere direttamente dal fango e moltiplicarsi istantaneamente riempiendo l'aria del balenio delle loro ali e del loro ronzio. Lontano sullo sfondo si stagliava la sagoma dell'Eyes Rock.
Liham si era appassionato al free climbing e più ingenerale all’arrampicata fin da giovane. L’Australia però offre scarsa soddisfazioni ai rocciatori, così Liham appena poteva, cioè non appena i suoi risparmi raggiungevano un ammontare sufficiente, si prendeva una lunga vacanza e in giro per il mondo dava sfogo alla sua passione.
In uno di questi viaggi era giunto nelle Dolomiti. Dopo aver già affrontato alcune delle vie classiche aveva sfidato, insieme con due rocciatori locali, con i quali nel frattempo aveva fatto amicizia, la grande parete del Burel.
La Val Di Piero, dopo un paio di acquazzoni estivi, era in grado di entusiasmare chiunque, tanto più un australiano abituato al clima secco della sua terra. L’acqua scendeva da ogni parte lungo le alte pareti a strapiombo formando innumerevoli cascate, cascatelle, rivoli, gocciolamenti. I piccoli o piccolissimi terrazzamenti erbosi disseminati sulle pareti risplendevano alla luce forte del sole di mille tonalità di verde conferendo alla valle un aspetto lussureggiante, traboccante di vita.
Il torrente rumoreggiava giù in fondo increspandosi nella sua rapidissima e tumultuosa discesa, mentre poche decine di metri sopra il sentiero, tra gli stretti bordi della valle il blu del cielo inondava l’intero orizzonte.
Liham saltellava sullo stretto sentiero in uno stato di estatica esaltazione. Poi inoltrandosi nella valle, dove il sentiero si allontana dal torrente per nascondersi nel bosco ritrovò la calma e la concentrazione necessarie alla scalata.
La vista della superba parete lo riempì ancor più di gioia e quando raggiunse la vetta con i suoi compagni si sentiva padrone del mondo, del tempo, di ogni cosa. Poteva l’ebbrezza di Dio quando creò il cosmo essere maggiore della sua?
La discesa dalla vetta ruppe l’incantesimo e non solo, lacerò indelebilmente la vita stessa di Liham.
Una scarica di sassi colse infatti la cordata in un punto della parete in cui era impossibile ripararsi e lì Liham lasciò il suo piede destro. Le altre ferite erano lievi e guarirono rapidamente, ma l’arto di plastica restò a lungo una ferita aperta.
Per una ragione che nemmeno lui fu mai in grado di comprendere appieno una volta uscito dall’ospedale Liham non volle tornare a casa.
Forse interpretando l’accaduto come un segno del destino, forse per non allontanarsi dal suo piede che aveva ceduto alla montagna, forse per un bisogno di ritrovare lì nel luogo dell’incidente un nuovo equilibrio o qualche forma di rivalsa, forse per la paura di riprendere la vita normale ora che non era più normale, forse per tutto questo e per altro ancora o forse per tutt’altro, fatto sta che Liham si fece arrivare la buona pensione di invalidità che aveva stipulato in Australia e si fermò a Belluno.
Trovò un appartamentino in Via Feltre e cominciò a fare la tipica vita del pensionato bellunese. Giro dei bar, chiacchiere sul Liston, cene in trattoria o in pizzeria, con l’aggiunta di qualche avventura galante, che un giovane bello e straniero non fatica certo a trovare.
Si dedicò per brevi periodi alla scrittura, alla musica , alla fotografia e ad altri vari hobbies, ma poi un po’ alla volta tornò a camminare in montagna.
Poi riprese ad arrampicare e infine ritornò in cima al Burel.
A quel punto 15 anni dopo la menomazione subita superò il trauma psicologico, accettò la sua nuova condizione e se ne tornò in Australia.
Qui cominciò a fare la guida turistica, accompagnando i turisti sull’Eyes Rock. Fu durante questa attività che cominciò a frequentare una tribù di aborigeni con cui strinse una amicizia sempre più stretta fino al punto di abbandonare la sua attività per andare a vivere con loro. Imparò la loro lingua, le loro usanze, si adattò in tutto al loro stile di vita. Divenne persino l’aiutante dello stregone.
Fu a quel punto che si ricordò di essere un medico. Rinfrescò le sue conoscenze mediche e iniziò con grande abilità e moderazione ad infilare qualche rimedio moderno nei riti curativi tradizionali. Investì la sua pensione nell’acquisto di pannelli solari, di un generatore di corrente, di un frigorifero e nell’attrezzare un curioso ambulatorio medico-stregonesco.
Quando lo stregone morì ne prese il posto e incominciò ad insegnare ad alcuni ragazzi della tribù la sua nuova originale medicina.
Così ora alla soglia degli ottanta anni poteva sedere tranquillo sulla sua sedia a dondolo fuori dalla capanna a guardare le nuvole.
Gli tornò in mente quando sedeva sui tavolini del Casinet a sorseggiare birra e a guardare la pioggia. Si ricordò allora dell’odore della pioggia di Via Feltre.
Lo stesso odore che si respirava in quel momento in Via Feltre, anche se la pioggia doveva ancora arrivare.
Certo una via Feltre già molto cambiata dai tempi di Liham e in cui l’australiano avrebbe cercato invano la finestra del forno a cui bussare per avere il pane prima dell’orario di apertura, la macelleria di cui era grande cliente, i banchi del mercato ortofrutticolo.
Da quel giorno, in cui poi alla fine la pioggia non arrivò nemmeno, la via è ancora cambiata, ma molte cose sono ancora come una volta qui in via Feltre, come quel giorno, che - pensandoci bene – non è neppure necessario specificare meglio perché in fondo era un giorno come tanti altri e che io ricordo solo per quell’odore della pioggia. Lo stesso di oggi. Adesso infatti piove.

domenica 16 ottobre 2011

IL GIUDIZIO


Adolfo Stalino era un uomo. E qui, non volendo parlare male di lui, bisognerebbe chiudere il discorso. Egli era, infatti, sotto ogni aspetto, una persona spregevole. Era dotato invero di una buona dose di senso dell'umorismo, ma le sue battute erano quasi sempre offensive per gli ascoltatori e comunque triviali e spesso decisamente stupide.
Adolfo Stalino era stato un ragazzo di una certa prestanza fisica, anche se non bello. Lo sguardo apparentemente gioviale rivelava però presto lo spirito meschino, approfittatore e vendicativo che lo muoveva. Ciò nonostante, poiché esistono fanciulle in età da marito, che paiono non poter resistere al fascino dei farabutti, mentre cercano un uomo onesto che le ami sinceramente, anche Adolfo Stalino ebbe le sue avventure giovanili.
Ben presto però trovò più soddisfacente appagare i suoi sensi disturbando solo il portafogli. La totale mancanza di scrupoli che distingueva ogni sua azione, in congiunzione con il capitale ereditato dal padre, lo portò infatti a raggiungere rapidamente un benessere economico, che lungi dal soddisfare la sua ingordigia di denaro e di potere, gli consentì di poter spendere senza troppi riguardi per i suoi piaceri. Per altre cose, del resto, a parte gli investimenti richiesti dai suoi affari, non spendeva certo soldi.
La fattoria in cui viveva, non brillava certo né per pulizia né per cura dei fabbricati. Le ultime manutenzione apportate erano in pratica ancora quelle effettuate dal padre. Facevano eccezione le nuove stalle per i maiali, che erano però in massimo grado spartane e trascuravano del tutto il benessere degli animali per dare invece il massimo profitto ad Adolfo Stalino. Altre nuove costruzioni fatte edificare da Adolfo Stalino erano il nuovo macello e lo stabilimento di lavorazione dei prosciutti.
Adolfo Stalino, pur essendo divenuto da semplice allevatore di maiali un vero e proprio industriale e un commerciante nel settore dei prosciutti, di quando in quando si dedicava, personalmente alla macellazione. Egli infatti traeva un piacere immenso dalla vista delle carni squartate, dall’odore del sangue, ma sopra ogni cosa, dalle urla disperate dei maiali, consci della propria misera fine, resa ancora più atroce dalle sofferenze, che volutamente Adolfo Stalino infliggeva loro per poter godere del loro dolore.
Adolfo Stalino era crudele come con gli animali così anche con le persone, come sapevano molto bene i suoi dipendenti. Si divertiva ad umiliarli ed era maestro nell’arte della diffamazione, che esercitava equamente verso tutte le persone con cui aveva a che fare: dipendenti, fornitori, clienti, funzionari pubblici.
Amici non ne aveva proprio, anche se nei suoi giri per le osterie trovava sempre qualche tristo figuro disposto a tenergli compagnia nella sbornia pur di avere la propria bevuta pagata .
Turpiloquio e bestemmie erano il suo modo usuale di esprimersi, del resto i suoi argomenti di conversazione erano assolutamente limitati.
Una sera, all’età di 56 anni, mentre piuttosto ubriaco cercava nella nebbia una prostituta disposta a subire ogni sorta di maltrattamenti, incontrò un platano. L’impatto fu violento e istantaneamente si trovò completamente sobrio, ma in qualche modo molto più stordito di quanto fosse mai stato in vita sua, a guardare il proprio corpo riverso nell’abitacolo con il cranio fracassato.
Subito si fermò un’auto. Adolfo Stalino, gridò ai soccorritori: “No non lui, io sono qui”. Ma nessuno sentì il suo richiamo. In quell’istante realizzò la situazione: “Sono morto! Sono morto e ... sono vivo”.
Si sentì come risucchiato, l’immagine dell’incidente svanì in una nebbia più impenetrabile di qualsiasi muro.
Si ritrovò in un turbine di niente. Un turbine di niente? Non aveva senso, ma Adolfo Stalino non avrebbe saputo definirlo in altro modo. Le parole che conosceva, non potevano certo descrivere l’aldilà. Il tempo fluiva in modo strano, fluiva sì, ma non era misurabile.
Ad un certo punto una voce, dotata di un’autorità opprimente, si rivolse a lui:
Adolfo Stalino preparati, il tuo karma si è esaurito è giunto il momento del Giudizio. Preparati a vedere il volto di Dio, l’Onnipotente, il Creatore di ogni cosa, l’Eterno e il Giusto.”
Dopo una leggera vertigine Adolfo Stalino si ritrovò su un prato. Anzi su una prateria. L’erba era alta e verdissima, l’aria era deliziosamente profumata e una musica soave vi scorreva placidamente. Alberi stracarichi di frutti contornavano laghetti blù e ruscelli cristallini. Gruppi eterogenei di animali stavano sdraiati nell’erba, si bagnavano, camminavano o correvano felici. Alci, zebre, marmotte, scimmie, gazzelle, orsi, giraffe, uomini.
Adolfo Stalino si accorse che anche gli uomini erano nudi come gli animali. Si guardò: lui indossava una lunga veste rossa.
Avanzò, come attratto da una forza, da una luce, da un suono, da qualcosa che non poteva, né veder, né sentire, né percepire, ma che solo lo spaventava e lo costringeva ad avanzare. Cavalli, vacche, pecore, visoni, ermellini, anatre e polli. Man mano che avanzava gli animali più familiari ad Adolfo Stalino salivano di numero.
Poi incominciò a vedere i maiali. Sempre più numerosi, sempre più preponderanti. Infine su una piccola altura meravigliosamente fiorita vide un enorme verro. La voce che già conosceva parlò nuovamente:
Inginocchiati davanti a Dio, il Signore dell’Universo, l’Onnisciente, il Perfetto, l’Eterno e il Giusto.” Adolfo Stalino crollò letteralmente a terra.
Ascolta la tua sentenza: tu hai avuto molte vite e sempre hai mostrato la tua malvagità, non hai mai avuto nessuna pietà degli altri esseri, credi dunque che Dio debba avere pietà di te?”.
Adolfo Stalino piangendo disse:
Signore io non sapevo, non sapevo, non capivo.”
E Dio parlò:
Tu non volevi capire e non volevi sapere, molte volte ti sei rivolto a me, interpretando correttamente quello che è il mio aspetto preferito, ma vi era scherno nelle tue parole. Ai miei figli prediletti poi, coloro che più mi somigliano, hai riservato il più atroce dei trattamenti. Dovrei Io avere pietà di te?”
Sì, sì, tu mi hai fatto così, tu mi hai fatto incline al male, ma tu sei il rifugio dei peccatori, tu sei il clemente e il misericordioso”.
No, io sono il Giusto, se tu avessi riconosciuto ora le tue iniquità sarei stato clemente e misericordioso e non ti avrei imputato i tuoi innumerevoli peccati, ma poiché anche al mio cospetto, non ammetti la tua colpa e mi accusi, Io ti condanno”.
Un tormento lacerante incominciò a scuotere, senza più abbandonarlo, il corpo di Adolfo Stalino, che si ritrovò nudo in un orrido deserto di sassi aguzzi, dall’insopportabile fetore di putrefazione battuto dal vento, dalla grandine e da aliti improvvisi di calore rovente.
Cani, gatti, tigri, leoni, varani e uomini vagavano urlando, mentre un suono angoscioso e snervante riempiva la semioscurità dell’inferno. Un enorme e orrendo uccello, simile ad un avvoltoio, gli si avvicinò:
Sii tu maledetto Adolfo Stalino, soffri il castigo di Dio per l’eternità”.

domenica 9 ottobre 2011

IL SOSIA


Glauco da un po’ si sentiva inquieto. E non riusciva a capire perché.
Il rapporto con la moglie era come sempre al limite della perfezione. Il lavoro gli stava dando discrete soddisfazioni, non ultimo, anche sul piano finanziario, e la sua squadra di calcetto si era classificata al terzo posto dell’ultimo torneo. Lui era stato anche il capocannoniere della squadra. Era popolare tra gli amici e ben voluto anche dai vicini di casa.
Eppure sentiva che qualcosa non andava. Era come un presagio, ma non rivolto al futuro, non era paura che qualcosa accadesse, no, qualcosa stava già accadendo era già accaduto. Ma non sapeva dire cosa.
Aveva provato ad accennarlo alla moglie, ma lei l’aveva scambiato per uno scherzo. Uno scherzo un po’ strano e non troppo divertente, cui non aveva dato peso.
La sensazione di disagio aumentava progressivamente e Glauco temeva cominciasse a trasparire sotto forma di scortesia o di altri comportamenti per lui inusuali. Temeva anche che la perduta serenità lo portasse a compiere errori sul lavoro, a diminuire le prestazione sportive sociali e quant’altro.
Insomma da quell’ansia indefinita derivava sempre più un’ansia reale e ben dettagliata. Ancora nessuno pareva notarlo e Glauco combatteva una grande battaglia interna, perché così continuasse ad essere, in attesa di capire cosa stesse succedendo. Perché qualcosa c’era, qualcosa di terribile e nascosto.
Un giorno in autobus sentì dei brandelli di conversazione, che gli restarono impressi. Per ciascuna persona esistono cinque sosia. Cinque persone identiche o quasi, magari diverse solo per un piccolo particolare.
Quella sera si accorse che il suo malessere misterioso e segreto si acuiva quando parlava o guardava la moglie.
Il mattino dopo la moglie gli sembrò strana. Un paio di sere dopo vide la moglie che usciva dalla doccia con quella sua piccola voglia a forma di grappolo d’uva sul gluteo destro.
Sì, sul gluteo destro! Ma la voglia che vedeva stava sulla natica sinistra. Dunque quella non era sua moglie!. Un sosia, un maledetto sosia si era sostituito a sua moglie. E di sua moglie che ne era? Doveva ritrovarla, salvarla.
Glauco pensò che la cosa migliore da fare fosse far finta di niente e cercare di indagare.
Cominciò così a interrogare il sosia, prima in modo velato poi sempre più direttamente, Finché lei non sbottò:
ma insomma Glauco che ti prende? Mi stai facendo una sfilza di domande su cose che sai benissimo per non parlare delle domande assurde, dove vuoi andare a parare?
Allora Glauco strappò la corda di una tenda, saltò addossò all’impostore e stringendole il collo incominciò ad urlare: Dov’è Cinzia? Dov’è? E tu chi sei? che ne hai fatto di lei? Cosa vuoi? Dov’è Cinzia?
Lei rantolava cercando di divincolarsi e certo non poteva dire niente, mentre stava soffocando.
Dov’è? Dov’è? Dov’è?
Insisteva lui. Lei però essendo ormai morta non poteva proprio più rispondere.
Glauco gettò il cadavere dalla finestra e iniziò a spaccare tutto sempre urlando - dov’è?
I poliziotti faticarono a bloccarlo e solo quando il sedativo che gli fu iniettato dal medico del servizio psichiatrico fece effetto Galuco si calmò.
Per molti giorni Glauco restò calmo solo sotto sedazione farmacologica. Finché al risveglio non vide la moglie.
La moglie tornò a trovarlo tutti i giorni durante tutti gli otto mesi che Glauco trascorse in psichiatria. Poi lo riportò a casa.
In breve Glauco si tranquillizzò del tutto e tornò a fare la sua vita di prima, ma non fu mai più proprio come prima. Rimase come svuotato di qualcosa, quasi come una copia, una copia mal riuscita dell’uomo che era e, strana cosa, non riuscì più a distinguere chiaramente tra la destra e la sinistra. Soprattutto si confondeva del tutto quando guardava quella graziosa voglia a forma di grappolo d’uva.

domenica 2 ottobre 2011

GUSTAVO


I primi radi passanti s’affrettavano, pur assonnati, verso il monotono lavoro quotidiano, ma con l’animo un po’ più leggero del solito, condizionati dal tiepido sole primaverile, che finalmente tornava ad asciugare le ormai immense pozzanghere.
Solo Gustavo era completamente incosciente di ciò. Sprofondato in sé stesso percepiva unicamente il vuoto e il freddo al suo interno. Non ricordava chiaramente come, ne dove, avesse passato la notte, vuoi per gli interminabili bicchieri di whisky, vuoi perché le sue nottate e le sue giornate si susseguivano identiche le una alla altre, come i grigi e logori palazzi della via, confondendosi tra di loro.
Trascinato dall’abitudine rientrò a casa. Incominciò a girare tra la cucina, il bagno, la camera senza fare niente per più di qualche secondo di seguito. Accese la televisione e passò in rassegna i molti canali, che pur trasmettendo programmi diversi, erano assolutamente uguali.
Dopo aver quasi dormito, davanti al video, per un tempo indefinito, passò alla musica. Prese un disco a caso e anche se il rock picchiava con forza contro le sue orecchie, non poté fare a meno di pensare. Già da molto tempo era riuscito a rimanere inerte, come un vegetale, senza decidere niente. In quel momento si accorse che quella sospensione era inutile, perché lui continuava a vivere.
Prese un pezzo di carta e cominciò a scrivere:
Cara Marta,
ti scrivo per salutarti, perché ho deciso di partire per l’America per studiare ingegneria genetica e perfezionarmi presso qualche ricercatore amorale di laggiù, prima di mettermi in proprio.
Sai, non m’importa che tu non mi ami, perché, quando sarò tornato, saprò clonare gli esseri umani , e otterrò da te un clone accelerato: gli insegnerò ad amarmi come tu non hai mai imparato. No, non sarà proprio come avere te, perché non potrà pensare esattamente come te, ne dire le cose che tu sai dire, ma sarà una persona autonoma e mi amerà, così anch’io l’amerò. La chiamerò Marta.
Non so come farò a farmi amare da lei, se ci riuscirò, ma non posso fermarmi, avere dubbi, devo continuare, realizzare questo progetto, l’ultimo che la realtà mi offre.
Tu aspettami. E se non hai voglia di aspettarmi fermerò il tempo qua da voi, così quando sarò tornato tu sarai ancora come ora e starai ancora leggendo questa lettera.
E sei come allora e stai ancora leggendo questa lettera, mentre io sono già troppo vecchio.
Addio”
Appoggiò il foglio sul tavolo. Accanto ai barbiturici.
Non spedì mai quella lettera