domenica 25 settembre 2011

IL COPIONE


Atto primo. Scena 3
La scena è divisa in due parti. Ciascuna rappresenta l’interno di una casa (due stanze con porte e finestre). Uno spazio al centro deve dare l’idea della distanza tra le due abitazioni.
In scena vi sono due donne (Lucia e Mara). Una per ciascuna casa. Entrambe giovani.
La prima seduta sul divano compone un numero sulla tastiera del telefono, l’altra sta cercando un libro sullo scaffale.
Suona il telefono della seconda casa, la donna lascia i libri e prende il cordless dalla parete e ritorna verso la libreria parlando al telefono.
- pronto
- ciao Mara, sono Lucia
- ah ciao, che voce! Anche tu raffreddata?
- eh sì, che vuoi, con questo tempo matto, ma devo dirtelo subito, se no scoppio!
- cosa?
- una bomba!
- per carità, sembra già una questione di stato
- beh, senti un po’ questa e poi mi dirai: sai chi si è portata a letto Sonia?
- chi?
- Marco!
- cosa?
- non te l’aspettavi eh?
- no non ci credo, Marco è partito
- macchè era una finta, guarda li ho colti sul fatto io, non più di un’ora fa.
Mara riattacca. Appoggia il telefono. Gira per la stanza e si copre il volto con le mani.
Lucia cerca di continuare la conversazione.
- pronto? pronto?
In quel momento suona alla porta. Lucia apre entra una terza donna.
- Mara?
- ciao, come stai?
- Mara? ma non è possibile! ho appena parlato con te al telefono, a casa tua, o avevi messo la derivata sul cellulare?
- ma che derivata, guarda con me non hai proprio parlato, chissà chi avrai chiamato!
- oddio! chi sarà stata? tutti i nomi sembravano coincidere e le voci con il raffreddare.
- beh ....
Lucia scoppia a ridere. Anche l’altra donna ride.
- ma tu non sai cosa gli ho raccontato!
Ridono ancora.
La seconda stanza esce di scena (scorrendo su dei binari) con le voci che si attenuano, mentre ridono e proseguono a parlare sempre ridendo, con voci e risa a smorzare.
- ma credevi di parlare con me
- sì, sì con te
- beh racconta anche a me allora
Intanato nella prima stanza, rimasta sola in scena, Mara cammina, scuotendo la testa. E coprendosi ripetutamente il viso. Un’espressione incredula e severa al contempo. Poi riprende il cordless in mano e telefona. Il telefono risponde occupato.
Riprova, ripetutamente.
- porco… schifoso… e quella vipera – dice mentre cammina e si tormenta i capelli tra una chiamata e l’altra.
Intanto, al posto della casa appena uscita di scena, sull’altra metà del palco, entra in scena un ufficio con un uomo in piedi (Marco), che sta raccogliendo dei disegni tecnici ed è già vestito, come pronto per uscire. Altre persone sono sedute ai tavoli di lavoro.
Una sta parlando al telefono.
- sì …. sì …. Ok…..va bene, restiamo d’accordo così … grazie a lei a risentirci.
Riattacca, subito il telefono suona di nuovo. E’ Mara.
- Studio Newprojects, buongiorno
- buongiorno sono Mara Bentivoglio, c’è Marco
- sì un attimo solo …
Coprendo la cornetta con la mano
- Marco è per te: Mara
- ah sì, arrivo
Riappoggia i disegni, va alla scrivania e prende il telefono. Con voce allegra.
- ciao Mara
Lei molto secca:
- ciao, non sei partito?
- sto partendo adesso, è successo un gran casino
- ah sì non c’è dubbio
- guarda, roba da matti
- so tutto
- sai tutto? e come è possibile?
- Sonia è là con te?
- Sonia, no, perché dovrebbe …
- ah già, scommetto che oggi non l’hai neanche vista
- no, infatti, ma sarà una settimana che …
- ti odio, non ti voglio vedere mai più.
Mara riattacca.
- ma cosa stai dicendo, ma sei impazzita anche tu? Pronto, pronto? Maledizione, anche questa ci voleva.
Marco riattacca la cornetta. La persona dal tavolo con aria divertita mal dissimulata:
- non so cosa stia succedendo, ma se non ti sbrighi ad andare perdi l’aereo.
- sì, sì adesso vado.
Sospira. Raccoglie di nuovo i disegni stacca un cellulare dal carica batterie ed esce componendo un numero.
- ciao a tutti, arrivederci
Gli altri contraccambiano.
Marco esce. Il telefono di Mara suona, ma Mara non risponde. E’ seduta sul divano a fissare nel vuoto. Poi alza la cornetta e spegne il telefono.

Brava, proprio brava. Pensava Giovanni, argomentando nella sua mente con le più erudite considerazioni tecniche che la sua mente agitata dal ribollire degli ormoni e la sua conoscenza sommaria della recitazione riuscisse ad elaborare. Ma questo fervore professionale riusciva a mala pena a mettere in secondo piano il pensiero più profondo: bella, bellissima.
In effetti Elena Mattiazzi era assolutamente deliziosa e affascinante e in più aveva ancora dalla sua parte tutta la forza, la freschezza e la grazia della giovinezza. E nonostante la giovane età era già un’attrice affermata.
Certo per lei le cose erano state più facili, perché oltre alle generose doti datele da madre natura proveniva da una famiglia liberale e amante dell’arte, in cui la sua vocazione era stata apprezzata e sostenuta in tutti i modi. Lo stesso non si poteva dire per lui.
Giovanni viveva ancora in una duplice angoscia, pur essendo passato quasi un anno da quando aveva abbandonato la casa paterna. Da una parte per il litigio con il padre artigiano, che avrebbe ovviamente voluto, che il suo unico figlio lo affiancasse nella sua avviata attività di tappezziere per poi rilevare la ditta e non poteva quindi accettare questa pazzia della carriera teatrale.
Giovanni comprendeva il punto di vista del padre e ne era sinceramente addolorato, ma non era disposto, così pensava lui, a sprecare la propria vita per accontentare qualcuno che, magari da lì a pochi anni, se ne sarebbe andato da questo mondo, lasciandogli l’eredità insostenibile di un lavoro odioso.
D’altra parte Giovanni desiderava ardentemente una rivincita. Desiderava il successo, che avrebbe dimostrato a suo padre chi avesse ragione e avrebbe dato a lui quelle soddisfazioni che, se non altro la sua passione, meritava.
Quel momento però, semmai fosse stato scritto nel fato, era ancora lontano. Dopo un paio di apparizioni come semplice comparsa, questa era la prima vera parte da attore, seppur piccola. Due entrate in scena e una ventina di battute. La commedia non era un certo un classico, anzi, un autore nuovo, poco noto e con tutta probabilità destinato a restare per sempre marginale, se non ad essere un giorno del tutto dimenticato. Ma la compagnia non era male e il tour che si sarebbe aperto da lì ad un paio di mesi, li avrebbe portati nei più importanti teatri nazionali.
E poi c’era lei: Elena Mattiazzi. No fermo, calma. Non pensare troppo a lei: è così stupenda, meravigliosa, che il rischio di innamorarsi è davvero grande. E che speranze può mai avere un attorucolo spiantato alle prime armi, con una diva come lei? Pensa alla commedia Giovanni, la tua occasione è lì, sul palcoscenico lascia perdere i sogni irrealizzabili. Certo che è un bel sogno.
Ah se fosse vero! Ma io chi sono? Uno scimmione senza ragione, senza ragione, fuggiresti, fuggiresti - si ritrovò a cantare mentalmente Giovanni. Il paragone era in verità ingeneroso, perché Giovanni aveva un bel fisico longilineo, muscoloso, ma senza eccessi da culturista, e un viso dolce seppur non effeminato, occhi azzurri e capelli biondo oro, insomma aveva dei bei numeri, anche per piacere alle donne. Ma del resto nel cantare la vecchia canzone del Banco Giovanni non pensò assolutamente a questo paragone, era perfettamente conscio delle proprie doti fisiche e mentali, come dei propri difetti.
Una delle sue peculiarità era sicuramente, nel bene e nel male, la capacità di concentrarsi nei propri pensieri astraendosi dal mondo circostante e dagli eventi contingenti, quasi perso in una realtà a parte, ma proficua di concetti e decisioni importanti, anche nella vita pratica reale, una volta chiuso il ragionamento.
Così perso nei suoi pensieri, si accorse appena del proseguo delle prove e si ritrovò nel tangibile mondo materiale quando ormai la giornata lavorativa della compagnia volgeva al termine. Il regista diede lo stop. Elena si ritirò nel suo camerino seguita, come al solito da metà degli sguardi maschili presenti e anche tutti gli altri fecero fagotto e tornarono da soli o a gruppi ai propri alloggi.
Giovanni si era sistemato in città da più di 6 mesi. Aveva preso in affitto un piccolo monolocale arredato in periferia. Per mantenersi, date le scarse rendite di attore, prima di quest’ultimo ingaggio, aveva sperimentato un po’ tutte le forme di arte di strada: il mimo, la statua vivente, il clown, il musicista (per la precisione chitarra e voce).
Al di là degli introiti non sempre sufficienti, questo peregrinare tra le varie forme d’arte era stata una precisa scelta di Giovanni. La poliedricità per un attore è importante, se sei sconosciuto è vitale. Giovanni tornando verso casa in tram e rivedendo vari luoghi che erano stati teatro alle sue performance ripensava con soddisfazione ed orgoglio a quella scelta: ancora non ne aveva avuto beneficio, ma in futuro, in futuro …

Atto primo. Scena 6
La scena è interamente occupato da due stanze della casa di Mara: la sala e l’ingresso. In scena c’è solo Mara. Mara è in soggiorno e studia. Suona il campanello di casa. Mara alza la testa, fa un espressione scocciata e sbuffa, poi si alza e va ad aprire.
- ciao, posso entrare?
- certo prego. Di qua.
Entra un giovane (Gilberto) e i due passano in soggiorno.
- beh, siediti
- grazie
Lui si siede, lei resta in piedi di fronte a lui.
- scusami tanto, so che ci conosciamo, ma guarda proprio …
- no, no, scusami tu ci siamo visti solo una volta, io sono Gilberto
- Gilberto! Ah sì sì. Già ora ricordo, Gilberto: l’amico del verme
- sì, cioè no, l’amico di Marco che non …
- e ti ha mandato lui vero? nemmeno il coraggio di presentarsi di persona!
- ma non è qui, come ben sai è partito per l’Inghilterra e tu ti neghi al telefono
- o mi credi proprio scema anche tu!
Lei si gira e si allontana di alcuni passi, lui si alza e le si avvicina.
Improvvisamente Gilberto si inciampa, cade batte la testa.

No, no, non è possibile, questo non deve succedere. Giovanni cerca di riprendere il controllo. Sono troppo nervoso, è solo una prova, solo una prova.

Gilberto si rialza con l’aiuto di Mara. Si massaggia la fronte.
- scusa, scusa
- ma di cosa ti scusi? ti sei fatto male piuttosto?
- no, no, non è niente.

Giovanni si guarda intorno: vede il regista, tutti gli aiutanti di scena. Nessun movimento, le luci nel teatro non si riaccendono, né si abbassano quelle di scena.

- sei sicuro di star bene?

La scena non sembra essersi interrotta.

Lei gli tocca il viso si avvicina per controllare la fronte.
- io, io, non capisco
balbetta lui
- cosa non capisci? hei non farà mica parte del piano di Marco questa sceneggiata
replica lei abbozzando un sorriso amaro

Giovanni capisce che, per qualche strano motivo stanno ancora recitando, chissà come mai?

- mh, mi sembra che non sia grave, anche se ti sta già uscendo il bernoccolo

Lei gli è vicina, Giovanni non sa più cosa fare, è stordito, lei è là, profumata, dolcissima, si lascia trasportare dall’emozione, il cuore è impazzito, che ho da perdere?

Giovanni stringe all’improvviso Mara e la bacia sulla bocca

- Dio mio, ma sei matto cosa stai facendo!

Giovanni si scosta. Lei lo guarda sorpresa e dice
- no no, un momento ora sono io che non capisco. Sei con Marco o contro di lui?

- Ok basta per oggi, sono stanco - disse il regista - non era affatto male, ma ci sono un paio di cose da sistemare. Domani ricominciamo da questo punto.
Le luci si riaccesero.
- Signori buonasera, a domani.
Tutti si allontanarono, anche Elena. Solo Giovanni restò immobile sul palco. Stupito si chiedeva cosa significasse tutto ciò. Poi reagì, corse a prendere il copione, trovò la scena:

- Ma non è qui, come ben sai è partito per l’Inghilterra e tu ti neghi al telefono
- o mi credi proprio scema anche tu!
Lei si gira e si allontana di alcuni passi, lui si alza e le si avvicina.
Improvvisamente Gilberto si inciampa, cade batte testa.
Gilberto si rialza con l’aiuto di Mara. Si massaggia la fronte.
- scusa, scusa
- ma di cosa ti scusi? ti sei fatto male piuttosto?
- no, no, non è niente.
Gilberto si guarda intorno come stordito, come se avesse perso la memoria.
- sei sicuro di star bene?
Lei gli tocca il viso si avvicina per controllare la fronte.
- io io, non capisco
balbetta lui
- cosa non capisci? hei non farà mica parte del piano di Marco questa sceneggiata
replica lei ridendo, mm mi sembra che non sia grave, anche se ti sta già uscendo il bernoccolo
Gilberto all’improvviso stringe Mara e la bacia sulla bocca
Dopo alcuni secondi lei si scosta. Lei lo guarda sorpresa e dice:
- no no, un momento ora sono io che non capisco. Sei con Marco o contro di lui?
- Marco, chi è Marco?

Giovanni chiuse il copione. Era sconvolto, ciò che stava accadendo era assurdo, contrario ad ogni logica. Non potevano esserci spiegazioni. Era un sogno? Un’allucinazione? Cercò di calmarsi. Si analizzò: era sveglio, lucido, sano di mente.
Eppure il copione era cambiato, seguendo la sua involontaria improvvisazione.
Giovanni fermò un altro attore, che stava uscendo:
- Scusa hai il tuo copione?
- Sì certo.
- Me lo presti un attimo?
- Se vuoi, ma hai il tuo in mano!
- Sì, certo è che … è solo che l’ho rovinato, sì, ho versato del caffè su una pagina e non leggo più bene alcune parole.
- Sì, sì, va bene, tieni
Con aria ancora dubbiosa estrasse il copione dalla borsa e lo porse a Giovanni. Giovanni appariva in effetti decisamente alterato, come febbricitante o drogato. Trovò la pagina, lesse.
Non sono pazzo. Sospirò, sorrise al collega e gli restituì il copione:
- grazie
- figurati
E’ successo davvero, è successo davvero – si ripeteva dentro di sé.
Uscì dal teatro e prese il tram per tornare a casa. Si chiedeva il senso della cosa e non poteva trovare risposta. Poi pian piano cominciò a realizzare: che importanza ha il perché, che importa se sembra irreale? Sta accadendo ed è una cosa meravigliosa per me. Una grande occasione, anzi due grandi occasioni. Due sì, con la commedia e con Elena!
A casa, ancora agitatissimo, riaprì con ansia il copione:
- Marco, chi è Marco?
- Gilberto
- Gilberto, chi è Gilberto?
Lei si gira e guarda verso il pubblico, sorride
- non può essere vero. E’ troppo bello!
Riunisce le mani battendole con entusiasmo.
Lui si gratta la testa. Lei si gira di nuovo verso di lui.
- scusa, come hai detto che ti chiami?
- mi chiamo, mi chiamo …
- P per V?
- P per V uguale NRT
- grandioso, uaho, un caso da manuale. Come mi chiamo?
- Mara, ma scusa, scusa un attimo, sono confuso, io come mi chiamo?
- Gilberto, ti chiami Gilberto e hai appena perso la memoria, o meglio una parte di essa, scusa se te lo dico, ma per una studentessa di psicologia è un fatto meraviglioso.
- oh mio Dio.
- coraggio, il trauma non dovrebbe essere stato forte, si tratta quasi sicuramente di un fenomeno transitorio, ma è meglio che andiamo all’ospedale a controllare.
- Mara, tu sei la mia ragazza?
- no, no, almeno non ancora.
Ride prende Gilberto sottobraccio ed escono dalla scena.

Bene, molto bene. Pieno di speranza Giovanni lesse velocemente tutto il copione. La scena successiva tornava ad occuparsi di Marco e Giovanni la scorse velocemente.
La scena era ambientata all’ospedale, Gilberto ritrovava la memoria, confessava la sua infatuazione per Mara, ma anche l’innocenza di Marco a questo punto Mara se ne convinceva.
Poi Gilberto scompariva per tutto il secondo atto e solo alla fine della commedia ricompariva con poche battute come testimone di Marco alle nozze.
Non era male, no rispetto alla partitura originaria. Ma Giovanni già immaginò di aumentare ancora il suo ruolo, poteva diventare il protagonista maschile, perché no bastava improvvisare. Avrebbe funzionato ancora. Doveva solo fare una prova per esserne sicuro.
Fin quasi all’alba immaginò il nuovo tentativo di cambiamento, che avrebbe fatto il giorno dopo e poi la commedia intera, nella sua personale versione.

Sulla scena il regista chiese un bacio un po’ più appassionato:
- … e deve essere Mara che si allontana, non Gilberto. Ok?
ok
risposero ad una voce Elena e Giovanni. Giovanni esultò dentro di sé, meglio di così, e calcolò rapidamente il da farsi.
Elena era molto professionale, come sempre. Giovanni, non cessava di tenerla nel suo campo visivo, anche se ostentava indifferenza e per questo non la guardava troppo apertamente.
Iniziò la prova della scena e giunse finalmente il momento cruciale:

Gilberto all’improvviso stringe Mara e la bacia sulla bocca.

Giovanni baciò molto appassionatamente Mara, che da parte sua ricambiò il bacio senza ritrarre la lingua, anzi.

Dopo diversi secondi lei si scosta.

Significherà qualcosa il suo bacio o è solo recitazione, si domandò Giovanni in un lampo: no, no significa! Poi si riconcentrò sulla parte. Così proseguirono a recitare.

- coraggio, il trauma non dovrebbe essere stato forte, si tratta quasi sicuramente di un fenomeno transitorio, ma è meglio che andiamo all’ospedale a controllare.
- Mara, è terribile sono così confuso, meno male che ci sei tu, è una fortuna in un evento simile poter contare sulla propria ragazza?
- la propria ragazza?
- sì, la mia ragazza. – e con aria particolarmente sorpresa e sconsolata - non sei la mia ragazza?
- no, temo di no, almeno, almeno non ancora.
Mara ride, prende Gilberto sottobraccio ed escono dalla scena.

Le luci si alzarono:
- il bacio ora va bene, ma per il resto ieri avevate recitato meglio, soprattutto tu Giovanni, più spontaneo, ma si vede che sei stanco, hai dormito stanotte?
- Poco, per la verità, ma stasera rimedio.
- Ecco bravo.
Elena guardò Giovanni e gli fece l’occhiolino. Un’esplosione atomica nel cuore di Giovanni, un’espressione sfacciatamente colpevole e soddisfatta, poi l’occhiolino di risposta sopra un sorriso a 36 denti (non che ne avesse così tanti ovviamente, ma nel sorriso ce n’erano di più che nella bocca).
Sì, sì, c’è qualcosa, c'è qualcosa. E’ perfetto è tutto perfetto. Giovanni era giustamente euforico. Per scrupolo controllò il copione: era nuovamente cambiato in seguito alla sua piccola variazione.
Bene, bene ed ora torniamo a giocare sull’altro tavolo. L’altro tavolo ben inteso era quello su cui già immaginava di stendere Elena per una rovente scena d’amore, ma certo non nella finzione scenica.
Giovanni si avvicinò ad Elena per recitare la sua scena madre, il problema era che le battute le aveva scritte lui stesso e come autore l’autostima di Giovanni non era ancora così elevata. Per questo dentro di sé era agitatissimo.
Ha riso, sì, una risata spontanea, convinta. La battuta era stupida, ma originale e le era piaciuta. L’inizio era buono. Attento a non esagerare, non devi sembrare un buffone. Giovanni analizzava rapidissimamente le risposte di Elena e vi adattava le sue battute programmate. Stava diventando un grande improvvisatore. O almeno così pensava lui.
In realtà Elena non si era affatto montata la testa, nonostante la notorietà, né era chi sa quale raffinata pensatrice, ma soprattutto era molto ben disposta nei confronti di Giovanni ed era più che disposta a prendere positivamente le facezie, i complimenti e gli ammiccamenti. Quel miscuglio inconoscibile di sensazioni inconsce olfattive, epidermiche, forse spirituali che è ciò che veramente conta per la nascita di un amore giocavano a favore dei due giovani attori. Così in breve si instaurò un rapporto amichevole e fissarono addirittura un appuntamento per bere qualcosa insieme per la sera successiva:
- se hai voglia potremmo andare a bere qualcosa dopo le prove
- volentieri, ma stasera non posso, devo scappare, facciamo domani ti va?
- domani è un altro giorno – facendo finta di contare sulle dita – sì, ci conto
- a domani allora – scuotendo la testa divertita.

Ed è sempre domani e se il cielo verrà – canticchiava Giovanni tornando a casa - o non verrà, non verrà, non verrà , non verrà – cantò poi a piena voce, finché si accorse dell’espressione spaventata della vecchina seduta di fronte a lui sul tram.
- Verrà, verrà – le disse e le fece l’occhiolino. L’anziana signore, rincuorata dall’espressione amichevole di Giovanni non si lasciò sfuggire l’occasione e ben presto sommerse il malcapitato sotto un fiume di chiacchiere.

A casa Giovanni trangugiò rapidamente un paio di confezioni ampiamente scadute senza accorgersi non dico della data di scadenza, ma del contenuto delle buste. Fu quasi un caso se riuscì a scaldare ciò che andava mangiato caldo.
Non che avesse bisogno di scaldarsi. Al contrario il suo copro bruciava quasi quanto la sua mente. Perciò, dopo un breve sonno, in mutande e canottiera Giovanni si mise al lavoro. Prese un blocco per gli appunti ancora bianco, spaccò il copione in due alla fine della sua prima entrata in scena e si preparò a scrivere più e più volte Gilberto e Mara.
Lavorando tutta la notte e arrivando a scrivere sul retro delle buste usate, dopo aver scritto e stracciato tutta la carta bianca disponibile in casa, Giovanni riuscì a concludere la commedia con il matrimonio di Gilberto e Mara. Più che un copione quello che realizzò quella notte fu in effetti un canovaccio che si limitava ad abbozzare gli avvenimenti e le scene, ma tanto bastava. Il resto si sarebbe scritto in scena.

Giovanni incominciò a immaginarsi non solo attore, ma anche autore di successo. Al contempo però il dubbio che alla fine la sua commedia si rivelasse un fiasco si era affacciato alla sua mente e già aveva cominciato a disturbare con una certa insistenza i suoi sogni di gloria. Ma all’arrivo in teatro la realtà gli offrì una sorpresa ben più dura.
Il custode gli sbarrò il passo:
- mi spiace signore, ma l’ingresso è riservato agli artisti.
- cosa e io chi sono? Non mi riconosce.
- no davvero.
- oh santo cielo, beh meno male che c’è il regista, buon giorno capo, vuole spiegare a quest’uomo che sono anch’io della compagnia.
Il regista lo guardò, come si guarda un pazzo:
- se non se ne va, chiami la polizia – disse rivoltò al custode, che da parte sua sorrise beffardo e compiaciuto a Giovanni, o meglio al suo cadavere deambulante.
Giovanni infatti sentì franargli il mondo sotto i piedi, si era abituato all’idea che le cose più assurde possono realizzarsi, perciò questa volta non faticò a convincersi che anche questa follia stesse realmente accadendo.
Provò ancora per un po’ a salutare i colleghi che arrivavano. Poi si arrese. Non era più Gilberto, non aveva più parte in quella commedia. Si allontanò barcollando dal teatro.
Poi improvvisamente l’illuminazione: il copione! Aveva spezzato in due il copione. Partì di corsa verso casa. Quando fu completamente senza fiato e forse solo un attimo prima che il suo cuore esplodesse, si fermò. Si guardò intorno, mentre riprendeva fiato. Il copione, il copione!
Aveva voluto troppo e aveva perduto tutto, nessuno più lo riconosceva, sicuramente nemmeno Elena. Tutto, tutto, aveva perso proprio tutto. Che idiota? Ma come immaginare una cosa simile? che ne sapeva lui di come vanno le cose irrazionali, le stregonerie? Ed era poi vero? Era stata la rottura del copione a cambiare così radicalmente le cose?
Stava ritrovando un minimo di calma. Raggiunse la più vicina fermata del tram. Nel viaggio verso casa, si sforzò di non fare ulteriori congetture e si ritrovò a pensare alla faccia triste e severa di suo padre. Il rischio di risultare sconfitto era di nuovo reale, più che mai.
Entrò a casa lentamente, timoroso delle scoperte che poteva fare. Raccolse dal tavolo il primo pezzo del copione e lo sfogliò: bianco! Completamente bianco. Raccolse poi da terra il secondo pezzo: altrettanto bianco. Chiuse gli occhi, respirò profondamente, si sedette. Ed ora?
Riflettè a lungo, ma non era facile. Da una parte il tormento della situazione, dall’altra l’assurdità di tutta la vicenda.

Alla fine prese ago e filo e ricucì meticolosamente i due lembi. Li chiuse, incollò bene la rilegatura sul dorso. Poi provò a riaprire il copione. Niente da fare. La carta era divenuta come un blocco di marmo. Perché? Perché? E cosa significa?
Giovanni imprecava, pregava, girava come un carcerato, come un pazzo nella sua cella di manicomio.
Stremato crollò sul letto. Era febbricitante. Si addormentò. Si risvegliò, si alzò, tento di aprire nuovamente invano il copione. Tornò a dormire. Sognò di suicidarsi. Si sveglio ancora sull’orlo del deliro. Quando, con l’esaurirsi delle energie, ritrovò un minimo di lucidità e di equilibrio era ormai quasi sera. Fece una doccia caldissima. Mangiò un boccone con estrema fatica. E uscì.
Arrivò davanti al teatro che era ormai buio, le prove erano finite.
- oh eccolo qui, ah ma stai male, per questo non sei venuto oggi?
La voce di Elena fu un nuovo colpo di bacchetta magica. Si girò di scatto, non pensò a nulla, ma il cuore gli si riempì di gioia:
- Elena – sussurrò. Incominciò a riprendersi davvero:
- sì, non sto bene infatti, ma come vedi non ho voluto mancare al nostro appuntamento
Elena sorrise compiaciuta:
- bene bene vuol dire che non stai così male dunque?
- oh adesso che ti vedo sto molto meglio
- che dolce, hai ancora una brutta cera però, dai andiamo a bere qualcosa
Lo prese sotto braccio e lo portò nel bar all’angolo.
Parlarono un attimo della giornata di prove, poi lui le chiese di veder il copione. Lei un po’ stupita lo accontentò.
Le mani di Giovanni tremavano visibilmente ed Elena lo guardava preoccupata, ma Giovanni aveva occhi solo per il copione. Lo aprì, lo sfogliò rapidamente. In un attimo si rese conto che tutto era tornato nella versione originale.
Stranamente la cosa lo sollevò, basta stranezze. Si rilassò un altro po’. Ma non è un sogno, qualcosa è rimasto: io sono qui con Elena. Sorrise.
- Giovanni, sei davvero allucinato, ma cosa ti succede, hai ancora la febbre alta – lo toccò sulla fronte.
- no, no, sono freddo vero?
- sì, ma a cosa pensi?
- ma niente vedi è solo che questo pomeriggio, mentre dormivo, con la febbre, ho fatto uno strano sogno.
- dai racconta
- ho sognato che la scena sesta del primo atto era diversa, e nel sogno durante la scena ti baciavo
Elena, strizzò gli occhi:
- prima cadi, poi ti rialzi e mi baci.
- sì, era proprio così, ma come lo sai? Leggi nei miei sogni?
- ma non so, non so. Davvero non so nemmeno io, quando me l’hai detto ho avuto un deja vu, mi è sembrato di aver recitato davvero la scena con il bacio, forse l’ho sognato anch’io. E’ possibile?
- Si è possibile, perché no, il mondo è strano a volte, davvero strano. E com’era nel sogno il bacio?
- mh niente male - rise lei
- come questo – rispose subito Giovanni avvicinandosi.
Si baciarono a lungo.
- no questo è molto meglio
- sì, molto meglio.

domenica 18 settembre 2011

ORAZIONE FUNEBRE


Don Mansueto passeggiava su e giù tra la stufa calda e la finestra appannata. Di tanto in tanto si massaggiava il mento come era solito fare quando era nervoso. Per fare questo si passava il breviario dalla mano destra alla sinistra per poi ripassarselo tra le due mani. Ormai da un pezzo aveva rinunciato a leggere. Con la mano sentiva l'ispido della barba mal rasata. Non per incuria, ma per la scarsa qualità dei rasoi che comprava per risparmiare e utilizzare i soldi per i più bisognosi. La pelle del suo viso era dura, temprata dal freddo, come succede alla gente di montagna all'approssimarsi dell'età della pensione. L'odore era lo stesso odore di fumo di legna che pervadeva la cucina, locale in cui in pratica l'anziano sacerdote passava l'inverno. Era sempre stato freddoloso, data la sua corporatura longilinea e la sua origine marinara, ma con l'avanzare degli anni in quello sperduto paese di alta montagna le cose erano peggiorate, anche perché gli inverni stessi erano divenuti più lunghi e rigidi.
Al cruccio della morte improvvisa di un parrocchiano che era per lui anche un amico si aggiungeva il tormento di dover decidere la predica per il rito funebre.
Lo scandalo in paese era stato enorme. Lorenzo Schiocchet era il farmacista del paese e inoltre era da sempre membro del Consiglio Pastorale e dirigente dell'opera caritativa San Vincenzo De Paoli. Era una persona stimata e onorata. Era anche felicemente sposato da venticinque anni e padre affettuoso di quattro figli due maschi e due femmine tra i 22 e i 14 anni. Nessuno in paese e nemmeno nella sua famiglia avrebbe mai immaginato che una cosa simile potesse capitare a lui. Solo Don Mansueto, come confessore, conosceva il segreto che da alcuni mesi tormentava la coscienza dell'amico, riempiendo al contempo la sua vita di gioia.
Lorenzo fin da bambino era stato buono e tranquillo e l'educazione che aveva ricevuto aveva esaltato le sue naturali inclinazioni caratteriali. Prima i genitori, poi il parroco, infine gli insegnanti del liceo privato annesso al seminario diocesano, che aveva frequentato, gli avevano insegnato che la vera gioia non è nel ricevere, ma nel donare.
Ed egli aveva sperimentato la veridicità di tale affermazione in prima persona votando la sua vita al servizio del prossimo. Dopo la laurea in farmacia aveva fatto i 2 anni di volontariato all'estero all'epoca alternativi al servizio obbligatorio di leva. Poi si era dedicato alla famiglia e al lavoro, che per un farmacista di un piccolo centro di montagna è forse più gratificante, ma anche più impegnativo di quanto non sia per un collega cittadino. E non aveva certo trascurato la comunità, che aveva servito in vari ruoli, da quello di volontario della protezione civile a quello di assessore comunale, da quello di consigliere pastorale parrocchiale a quello di semplice amico. Amici ne aveva tanti. In quel paese era cresciuto e si era fatto volere bene da tutti.
Nastascia Vladic era arrivata dalla Slovacchia un anno prima come badante della signora Irma per volere del figlio che abitava a Milano. La signora Irma, vedova Burigo, aveva superato non senza un generale appannamento un leggero ictus. Il figlio però non si fidava più a lasciarla sola, non poteva raggiungerla per motivi professionali, né era riuscito a convincerla a lasciare il paese natio in cui aveva trascorso tutta la sua vita.
Nastascia era giovane, dolce e premurosa e non aveva faticato ad entrare nelle grazie della vecchina. Aveva in realtà fatto breccia in molti cuori nel paese. Era infatti una bellissima ragazza, con un fisico da star del cinema e un volto angelico. Ma nessuno dei pochi giovani era riuscito a far colpo su di lei che restava fedelmente al fianco della sua assistita tutte le sere e si concedeva oltre alle uscite di servizio, per fare la spesa e le altre commissioni solo delle brevi passeggiate domenicali nei boschi. Non frequentava la Chiesa non essendo neppure battezzata, ma Don Mansueto stava cercando di convertirla. La ragazza si mostrava disponibile ad ascoltare, ma non mostrava grande entusiasmo per la cosa.
Già da diversi anni, da quando era rimasta vedova, Lorenzo, che era stato grande amico del figlio e poi con l'attenuarsi delle differenze generazionale al crescere dell'età di entrambi amico della stessa Irma, era solito andarla a trovare spesso e aveva intensificato le visite dopo la malattia. Nessuno in paese perciò prestava attenzione alle frequenti visite del farmacista in casa dell'anziana signora.
Ma negli ultimi mesi le visite nella casa avevano come obiettivo la giovane badante. Tra i due dopo poche settimane di frequentazione era scoccata la scintilla e ora i due approfittavano delle frequenti lunghe dormite della signora Irma per appartarsi nella camera della giovane.
E nel letto di Nastascia un arresto cardiaco aveva stroncato la vita del farmacista. Il referto del medico legale aveva confermato l'ipotesi che i carabinieri avevano già formulato visto ciò che avevano potuto constatare. Il cuore di Lorenzo aspettava solo uno sforzo particolare per fermarsi per sempre.
La vedova Schiocchet, con i due figli più piccoli, aveva raggiunto a Torino, dove studiavano, i due figli maggiori alla vigilia del funerale, non senza qualche perplessità da parte dei figli, che però avevano saggiamente reputato più importante stare vicino alla madre in un momento così difficile che onorare la memoria del padre, pure al momento così deprezzata, essendo comunque ormai solo una memoria.
Nastascia era arrivata dal suo paesino di campagna assieme ad una altra mezza dozzina di ragazze tutte carine se non decisamente bella. E lei era senza dubbio la più dotata sia fisicamente sia intellettivamente. L'agente, per non dire il trafficante di bianche, che le aveva reclutate le aveva condotte a Milano, dove abitava Corrado Burigo, manager di una grossa azienda meneghina con svariate succursali esteri.
Il figlio della signora Irma era da poco ritornato in Italia dopo un lungo giro di affari in Asia ed era andato a farsi un paio di birre alla sua birreria di fiducia. Si era seduto in fondo al bancone nel suo solito posto con la testa persa nel problema di trovare una badante alla madre, ma era stato subito distratto dalla scoperta della nuova cameriera.
"Ciao ingegnere" aveva detto Mario, il proprietario e gestore della birreria "ben tornato, sei stato via un bel po' questa volta"
- ciao oste, come te la passi?
- bene, ma sempre qua, io, tu invece dove sei stato di bello?
- in tanti posti, troppi forse, ma di ragazze belle come la tua nuova cameriera non ne ho mica viste!
- Nastascia ! Si nota subito eh ?- aveva ribattuto con grande allegria - in effetti più di uno si beve una birra in più solo per restare a rimirarsela un po'
- Ci credo, ma dove l'hai trovata?
- qui alla discoteca
- in discoteca ? non ti facevo un discotecaro
- no infatti, ci sono andato solo per bere qualcosa, io chiudo e loro aprono, appena aperto è ancora tranquillo ed è il posto più vicino in cui bere un bicchierino a quell'ora e io avevo bisogno di rilassarmi un attimo prima di andare a dormire, sai com'è?
- si lo so, prima dell'alba a te non viene sonno
- beh più o meno, comunque lei era lì al bancone che serviva e io gli chiedo una sambuca con mosca e ghiaccio. Lei mi guarda inorridita e mi fa: tu vuoi una mosca in sambuca? Così sono scoppiato a ridere, poi ci siamo messi a parlare e alla fine le ho proposto di venire a lavorare da me ed eccola qui.
In effetti la storia era sostanzialmente questa. Mario aveva spiegato che mosca significa chicco di caffè e Nastascia avevo sorriso sollevata.
- meno male, per me prendere mosca era difficile, ma per te bere era bleah.
Quando era tornata con la sambuca Mario si era buttato.
- da quanto lavori qua
- un po' di mesi
- e ti piace?
- qui è meglio di là - aveva risposto guardando verso i cubi.
In effetti sui cubi non c'era mai salita, era riuscita subito e nonostante le proposte del suo "agente" slovacco a chiarire con il proprietario del locale che lei non voleva ballare e quello vuoi perché era di luna buona quel giorno vuoi perché le era piaciuto il coraggio oltre che l'aspetto della ragazza, l'aveva assunta come cameriera di sala. Prima aveva solo raccolto i vuoti, poi era passata a servire i tavolini e infine aveva raggiunto il bancone. Una carriera rapida, ma senza ulteriori prospettive.
- anch'io ho un bar, ma molto più tranquillo, potresti venire a lavorare da me
Nastascia aveva già dato una confidenza inusuale a quell'uomo sia per la situazione divertente, sia per l'orario insolito e l'atmosfera rilassata, sia perché gli ispirava fiducia, con il suo faccione tondo, il sorriso cordiale e la voce calma, ma quell'offerta improvvisa l'aveva lasciata per un attimo basita. Poi come suo solito aveva riassemblato velocemente le idee. Era una possibilità da valutare con prudenza, ma da valutare - dimmi nome di tuo bar e dammi l'indirizzo.
Così un paio di giorni dopo lei era andato a veder il locale, aveva trovato Mario,avevano parlato di paga, orari, permesso di soggiorno e di alloggio. E quando Mario aveva offerto il mini appartamento nel palazzo di fronte, a prezzo di favore, perché tanto lui da quando era sposato preferiva andare a dormire a casa, anche se era un po' lontana, lei aveva accettato.
- e tua moglie? - Aveva ridacchiato Corrado
- sospettosa, Mario, sospettosa
- vuoi dire gelosa?
- e diciamo gelosa, ma tanto non so quanto resterà qua.
- perché ha nostalgia di casa? A proposito non mi ancora detto da dove viene
- è slovacca
- e vuole ritornarci ?
- no qui guadagna bene, credo che mantenga tutta la famiglia con i suoi risparmi, è che lei viene dalla campagna e qui a Milano proprio non ci si vede.
- ma dai!
- che c'è di strano?
- no , sai è che oggi mi ha telefonato un amico, che è anche farmacista e segue mia madre al mio paese e mi ha detto che bisognerebbe trovarle una badante, volevo proprio chiedere a te, che conosci tanta gente, ma adesso … il fatto è che mia madre vive in un piccolo paese di montagna in mezzo alle Dolomiti.
- Ghe sboro sei Veneto?
- Bellunese, mica veneziano, ma tanto ormai ho perso l'accento da anni.
- E sì ormai sei proprio milanese
- allora a vederla così, sembra un angelo …
- Accidenti a te, me la vuoi portar via! Però sì in effetti è proprio un ragazza tranquilla, volonterosa, riservata, gli affiderei anch'io mia madre, se fosse ancora viva. E credo che anche Nastascia potrebbe essere contenta
- e anche tua moglie
- ma va a da via i ciapp! Nastascia, vieni qui un attimo per favore.
La trattativa era andata bene. Nastascia aveva già assistito una vecchia nonna e la dolcezza del suo carattere era palpabile, aveva già perfezionato il suo italiano, sembrava perfetta. Da parte sua Nastascia, che anelava ad una vita più tranquilla, anche più solitaria, purchè più vicina alla natura, aveva accettato volentieri di lasciare la città tentacolare per il paesetto di montagna e il locale pubblico per la calma di una casa privata.
Così una settimana più tardi era partita con Corrado verso la montagna veneta.
La madre di Corrado l'aveva accolta con esultanza:
- finalmente ti sei trovato una fidanzata e proprio carina, molto molto carina
- ma no mamma non è la mia fidanzata
- ma se non ti sposi con una così bella figliola allora non c'è proprio speranza - e lo aveva guardato bieca, con uno sguardo che lui ben conosceva.
- eh dai, quante volte devo ripeterti che non sono omosessuale.
- va beh, va beh
La signora Irma come spesso accade non era per nulla curiosa di sapere della ragazza, ma ansiosa di parlare di sé e del suo passato e la ragazza sapeva ascoltare.
Nel fine settimana e nel lunedì successivo, che Corrado si era preso per verificare il buon esito dell'operazione badante, Nastascia aveva conquistato la vecchia signora a tal punto che quando il figlio l'avvertì che lui partiva, ma la ragazza sarebbe rimasta, la madre sbottò - e vorrei ben vedere che te la portassi via, o te la sposi o non esce da questa casa.
Il farmacista passava ogni giorno a trovare la signora Irma e le somministrava le varie pastiglie di cui abbisognava. Già in precedenza, prima dell’ictus, passava spesso a trovarla essendole legato per via dell’amicizia infantile e giovanile con il figlio, adesso che era divenuta meno lucida, diabetica e cardiopatica aveva intensificato i controlli nel timore che scordasse di prendere le medicine. Dopo la visite in genere utilizzava il tempo rimastogli prima di aprire la farmacia per il turno pomeridiano per una passeggiata nel bosco. La casa della signora Irma era l'ultima casa del paese e un sentiero attraversava un campo sfalciato per poi inerpicarsi sul pendio alberato
Naturalmente Lorenzo aveva notato subito la bellezza della ragazza, ma non aveva nemmeno immaginato di potere essere interessato a lei. Aveva più o meno l’età dei suoi figli e soprattutto lui si era preoccupato di studiare la sua efficienza come badante pensando poi di rarefare anche le sue visite.
Poi piano piano i suoi modi gentili e l’affetto che aveva presto dimostrato per la vecchina, la sua riservatezza e un certo acume che dimostrava nei suoi rari e brevi discorsi avevano incominciato a far nascere in lui una profonda simpatia. E quasi altrettanto si può dire di lei per lui.
Le prime conversazioni avevano poi rivelato una certa concordanza di pensieri ravvivata dalla diversità di cultura, di età, di sesso.
Poi un giorno quasi per caso e improvvisamente lui aveva scoperto il profumo della sua pelle. Lì era scattato qualcosa nel suo cuore, nel suo cervello, sebbene lui stesso non se fosse reso subito conto. Così un po’ alla volta aveva scoperto di essersi innamorato, lei lo aveva subito capito nonostante il suo tentativo di dissimulazione e le cose erano presto precipitate. Le visite alla signora Irma ormai sempre più spesso addormentata si erano trasformate in incontri d’amore appassionato.
Il farmacista ne aveva subito parlato con l’amico Mansueto in confessione. Sapeva di agire male se ne vergognava, si dispiaceva per la moglie che continuava ad amare e per i figli, per la stessa Nastascia che non poteva certo avere un futuro adeguato dalla relazione con un uomo sposato. Si proponeva di interrompere quella folle relazione, ma non vi riusciva. Era innamorato come un ragazzino.
Lo stesso Don Mansueto non aveva saputo trovare argomenti migliori di quelli che l’amico stesso avanzava contro sé stesso e aveva anzi in un angolo del suo cuore apprezzato la forza del sentimento nato tra i due, pur avendo cercato di aiutare l'amico a cavarsi da quell'impiccio. Ma ora di fronte a quell’evento inopinato doveva prendere una posizione pubblica non più come amico e sacerdote, ma come pastore della sua comunità.
La pendola suonò e scosse Don Mansueto dai suoi pensieri. Era ormai ora di raggiungere la chiesa. Si intabarrò bene e a passi veloci attraversò la piazzetta che separava la canonica dalla sagrestia. Il vento era gelido e a tratti violento. Il sagrestano era già al suo posto. "Buon giorno padre". "Buon giorno Ignazio, buon giorno". "La chiesa sta già riempiendosi" "Bene bene" Rispose con scarso entusiasmo e convinzione. Ma se lo aspettava. Tutti volevano sapere qualcosa di più su quell'avvenimento così sconvolgente. E non si trattava di semplice curiosità, ma del bisogno di ritrovare un orientamento dopo un trauma, per questo tutti guardavano al parroco, che era un'indiscussa autorità morale, non tanto per l'abito che portava, quanto per la vita veramente da santo che conduceva, in virtù del totale disinteresse personale, dell'amore per gli altri e della serenità e semplicità dei suoi comportamenti. Il prete da parte sua non ragionava in questi termini, le parole valevano per lui più dell'esempio. L'emozione era grande per tutti, dunque era un momento favorevole per fare passare dei messaggi forti. Don Mansueto se ne rendeva conto e per questo sentiva la responsabilità di non sprecare una simile occasione. Per il bene delle anime dei suoi parrocchiani.
Arrivò la bara e il funerale iniziò regolarmente, ma il clima non era improntato alla consueta mestizia, ma vi era un'attesa gravida di tensione. E finalmente giunse il momento del sermone. Don Mansueto si mise di fronte al microfono. Si schiarì la voce, passò in rassegna nella scarsa luce della chiesa i volti sgomenti dei suoi fedeli che la gremivano. Deglutì e poi iniziò, parlando come di sua abitudine a braccio:
"La morte è sempre un momento triste e difficile, che ci pone di fronte ai dilemmi dell'esistenza. La speranza della vita eterna, attenua, ma non cancella il dolore di perdere la compagnia di una persona cara. E Lorenzo era per me, ma so di certo anche per molti di voi, un caro amico. Tutti noi ricordiamo la sua gentilezza, la sua generosità e la sua affabilità, il suo zelo e il suo impegno di uomo e di cristiano nella vita della nostra comunità, la sua competenza professionale nel difficile ruolo di farmacista. Penso che ciascuno di noi possa attingere nella sua memoria vari episodi che attestano tutto ciò. Permettetemi però di ricordarlo qui soprattutto come amico e come padre di famiglia. Un amico sempre pronto e disponibile, un amico sempre interessante e stimolante. Un padre e un marito che in tanti anni nulla ha fatto mancare alla sua famiglia e che io sempre ho considerato esemplare. E ancor oggi lo ribadisco: Lorenzo è stato un marito e un padre esemplare."
A Don Mansueto parve di vedere ondeggiare i suoi parrocchiani e l'impressione non era lontana dal vero.
"Ma" e qui fece ad arte una breve pausa "Ma la sua morte, non nascondiamocelo non è sta in linea con la vita virtuosa che noi abbiamo conosciuto. La speranza che noi abbiamo è che il Signore abbia concesso a Lorenzo il tempo di chiedere perdono, perdono che nella sua immensa misericordia Dio mai nega ai peccatori. Ma la luce sinistra del peccato che avvolge le ultime ore di vita di Lorenzo, di un uomo così retto, devono essere per noi un grave monito. Nessuno, nemmeno il più giusto degli uomini è libero dal rischio del peccato. Il diavolo è sempre in agguato pronto a ghermirci con le sue tentazioni. Solo Cristo l'unico vero giusto può preservarci da esse. Perciò preghiamo per noi e per Lorenzo."
La voce grave, tremò per un attimo sotto il peso dell'emozione e della commozione nel pronunciare il nome di Lorenzo. Avrebbe voluto urlare: "Lorenzo è di sicuro in paradiso, perché nel suo grande amore, il Signore non può averlo perso così, al termine di un'intera vita al suo fianco". Ma aveva deciso per la sferzata educativa e per di più ora le forze gli venivano meno.
Il prete si girò e iniziò a salire i gradini dell'altare, ma all'improvviso un dolore acuto lo fece fermare. Vacillò e poi stramazzò a terra stroncato a sua volta da un infarto. Nessuno osava muoversi dal suo posto. Solo il sagrestano corse verso il suo parroco. Lo scosse poi alzò il viso sconsolato. Il maresciallo dei carabinieri, che stava al terzo banco, arrivò in quel momento. Tastò il collo di Don Mansueto poi si alzò e scosse la testa. Un brivido passò lungo la chiesa e un attimo dopo un pensiero balenò nella testa di tutti i presenti: di quale peccato si era dunque macchiato Don Mansueto perché Dio lo abbattesse così?
Don Mansueto però già conosceva la risposta a quella falsa domanda. Già in quel momento infatti rivedeva tutta la sua vita, poi le vite precedenti con l'evoluzione del suo Karma sempre più libero dall'inganno delle passioni terrene e ora alla fine, alla fine di quest'ultima vita da santo curato, del tutto libero dall'inganno di Maya era riconfluito in Dio, in Krishna. In effetti Don Mansueto era già di nuovo Dio, era di nuovo Krishna e sorrideva dei suoi parrocchiani e al vitellino che in una stalla del paese stava nascendo e in cui l'anima di Lorenzo stava reincarnandosi.


domenica 11 settembre 2011

IL DILEMMA DELLA FARFALLA


Il panorama era immobile. Pietrificato. L'aria stessa era densa, quasi solida. Un muro caldo e umido. La pattuglia di ronda si muoveva lentamente ansimando nel brodo denso dell'aria rovente e pregna di umidità. Le divise blu e l'obbligo di tenerle allacciate rendevano il supplizio ancora peggiore. Uno era alto e macilento, l'altro piccolo e nervoso, ma entrambi trascinavano i piedi senza alzare le ginocchia e lasciavano cadere le braccia lungo i fianchi come appendici pendule. Giravano gli occhi intorno con rassegnazione, come a cercare un qualche impossibile refrigerio, apparentemente totalmente privi di ogni desiderio di controllare, come invece gli imponeva il servizio che svolgevano.
Del resto nella calura del primo pomeriggio il parco era semi-deserto. Niente pensionati, niente badanti, nemmeno un bambino in bicicletta. Una coppietta di ragazzini se ne stava acquattata nella corta ombra di un ippocastano tramortita dalla vampa di calore. Erano seduti sull'erba, con la schiena appoggiati al tronco, spalla contro spalla, le mani che si sfioravano, alcune lattine vuote erano distese ai loro piedi e l'aria sopra di esse vibrava per il calore che esse irradiavano. Lui sembrava dormire, ma dal mezzo sorriso sulla bocca e dalle labbra di lei che si muovevano appena percettibilmente si poteva intuire una flebile conversazione. Un signore di mezza età dall'aria distinta, nonostante la tenuta da turista in un paese tropicale, con un giornale spiegazzato in mano, cercava di riprendere le forze per arrivare fino a casa. Il suo sguardo stanco e stupito sembrava domandare conto di quell'afa insopportabile all'aria di fronte a lui.
Quel caldo intenso, prolungato e del tutto anomalo stava mettendo in ginocchio l'intera regione. I pochi che osavano od erano costretti a muoversi avevano un'aria sconvolta e allucinata. I loro cervelli non erano solamente affaticati e rallentati dal vacillare delle normali funzioni biologiche erano impegnati ad elaborare quella situazione senza via di uscita. Cercavano una ragione, una soluzione, un sistema per trasformare in positivo l'avversità climatica, ovviamente invano.
Si rese conto che in quel modo i suoi concittadini stavano sperimentando seppur in modo sfumato il suo abituale disagio. Pensieri ossessivi che si dipanavano senza riuscire a sgorgare da nessuna parte e si riavvolgevano su se stessi ostruendo ogni angolo della mente, mentre i segnali del mondo esterno entravano prepotentemente senza controllo fino a far ribollire ogni sua fibra. In quei giorni invece la calma inusuale della sua psiche rendeva quel caldo assurdo non solo tollerabile, ma persino piacevole. Ogni cosa era placidamente al suo posto, nessuna tensione, nessuna fretta. Gli stimoli erano contenuti e lui era in grado di elaborarli ad uno ad uno o di scartarli completamente. Sedeva su una panchina in penombra. Si sentiva bene. Da tempo non era stato così lucido, così cosciente di sé e della propria individualità, così consapevole dello scorrere del tempo, così attento al mondo. Si godeva questo stato di grazia, aiutato anche dalla calma dell'ambiente circostante. La cappa che opprimeva i suoi concittadini, obbligandoli a tapparsi in casa, liberava lui dagli stimoli eccessiva che la normale vita frenetico di una città riversava senza pietà nel suo fragile cervello, nella sua psiche tormentata. Si rendeva conto di come fosse per lui eccezionale l'essere così tranquillo anche se non era in grado di dire cosa esattamente ci fosse di diverso e quale fosse il suo stato abituale.
Raccolse una foglia da terra. Era una foglia grande, appena più piccola della sua mano. Ovale, un po’ oblunga. Di un verde chiaro, tra il pisello e il cinabro, ma opaco. Il bordo era regolare. Il picciolo era lungo e proseguiva in una marcata venatura centrale, da dove si dipartivano innumerevoli nervature via via sempre più esili. Percorse con lo sguardo la nervatura centrale dal picciolo fino alla punta della foglia. Poi girò a sinistra lungo il bordo fino a tornare alla base ripercorse la nervatura centrale e giunto in cima si ritrovò a tornare sul bordo già noto, anche se avrebbe voluto esplorare l'altro. Ripeté il giro alcune volte, infine riuscì a sfuggire lungo una nervatura laterale a metà foglia, giunse ad un bivio, poi ad un altro e ad un altro ancora. Si confuse un po'. Si ritrovò sulla nervatura principale. Tornò lentamente su quella laterale, ma forse era un altro canalino linfatico. Proseguì ugualmente fino al bordo. Era come un intrico di strade, ma alla fine si arrivava sempre al bordo. E questo era molto rassicurante. Risalì di nuovo la nervatura centrale. Notò come fosse incavata. Decisamente incavata. Come un canale, un canale di scolo. Ma gli scoli si riempiono d'acqua e quelle minuscole pareti potevano essere difficili da risalire per chi fosse stato così minuscolo da percorrere quel canale. L'idea lo disturbava, ma riuscì a fuggire frantumando lo sguardo in tutte le direzioni lungo i vasi linfatici della foglia. Al tatto era liscia sul lato superiore, ma non su quello inferiore. Sotto era felpata, forse pelosa, sì minuscoli peli che la rendevano, non scabrosa, ma nemmeno così scorrevole come l'altra faccia. Il picciolo era duro, ma stringendolo cedeva rivelandosi carnoso. Dal picciolo si poteva far muovere tutta la foglia. Incominciò a concentrare la sua attenzione sul movimento. La foglia girava, mostrando alternativamente le 2 facce, simili, ma diverse: una più chiara e vagamente luminescente, una più scura con una tonalità pastello. Si sentiva il rumore dell'aria spostata dalla foglia nel suo girare. E la foglia girava e girava. La foglia, la foglia girava. Girava. La foglia. La foglia, la soglia. La soglia girava. Si scioglieva la foglia. La foglia, la figlia. La figlia di chi? Di chi era figlia? Chi era ? La figlia ? Non la conosceva. Beh conosceva poche donne in effetti. No, non conosceva le donne. Lasciò cadere la foglia. Faceva un po' caldo su quella panchina in verità. Ed era ormai l'imbrunire.
Intanto i poliziotti staccavano dal turno dopo aver compiuto stoicamente il loro dovere andando a presidiare la gelateria all'angolo, dove il gelato non era proprio al top, ma l'aria condizionato funzionava a meraviglia!
Il crepuscolo cedeva il passo alla notte. Il crepuscolo del suo dio: la normalità. Sì era stata una bella giornata normale, come può passarla un qualsiasi pensionato solitario. Già. Lui però era un po' giovane per essere un pensionato.
Eppure non ricordava neppure più il suo ultimo giorno di lavoro. Non ricordava praticamente più nulla. Ricordava chiaramente solo un episodio molto lontano, della sua prima infanzia: quella donna che lo chiamava: bambino mio. Dov'era? Perché se ne era andata via proprio adesso che ne aveva bisogno lasciandolo con tutta quella gente stupida che non faceva altro che ridere o piangere e si muoveva tutt'intorno e lo toccava senza motivo. Ma in effetti non era un episodio reale, bensì solo una costruzione della sua fantasia che si era ricavata un suo piccolo spazio nella memoria. Non ricordava invece quell'ultimo giorno in ufficio.
"Le avevo detto che doveva essere tutto pronto per le nove di questa mattina, sono le dieci e lei non ha neppure cominciato. Ciò è molto grave, adesso però non ho tempo, ma stia certo che la cosa avrà conseguenze" Prese la pratica dal suo tavolo e la diede al suo collega: "Ci pensi lei Cavicchioli, prima possibile, mi raccomando, l'aspetto nel mio ufficio". Cavicchioli si tuffò sulla pratica, ma appena il dirigente ebbe richiuso la porta si girò verso di lui e ghignò: "non russare troppo forte tu, perché io devo lavorare, io". Una vampata di rabbia gli salì dallo stomaco fino alla testa e poi discese nelle braccia fino a fargli ribollire le mani. Afferrò la scrivania e la rovesciò. Lo schermo del PC si frantumò in migliaia di schegge e poi dopo una breve fiammata restò a fumare sul pavimento. Il portapenne in ceramica mescolò i suoi cocci con i vetri, mentre le gomme rimbalzarono sulle pareti prima di fermarsi. Penne e matite scomparvero sotto la scrivania di Cavicchioli, insieme al Cavicchioli stesso. La sua proscrizione dal mondo dei normali era cominciata così. Le visite psichiatriche era iniziate il giorno stesso con conseguente ricovero. Il licenziamento non si era fatto attendere a lungo. In realtà già prima aveva manifestato segni di squilibrio, ma mai diagnosticati, come reale disagio psichico.
Disagio psichico che invece dopo quell'episodio era risultato conclamato e come se questa epifania fosse stata un segnale di partenza il suo stato mentale si era rapidamente e progressivamente allontanato da una condizione accettabile dalla nostra società. E in tale stato di alienazione aveva bruciato un decennio della sua vita, giacché i pur non infrequenti e non brevi momenti di lucidità vi erano rimasti incastonati dentro come delle mere interruzioni, senza restituirgli una autentica normalità.
Tra le varie ossessioni che lo avevano posseduto quella che aveva resistito di più era la convinzione di non essere più se stesso di essere stato sostituito con una copia, di essere dunque solo una copia, una copia malfatta, e per questo piena di problemi, il suo cervello artificiale era difettoso e l'unica salvezza era ritrovare l'originale nascosto dagli alieni. Impresa non facile in verità a cui nessuno era disposto a partecipare per aiutarlo. Farmaci e terapie psicologiche avevano rimosso quell'idea, ma solo per sostituirla con un'altra non meno singolare. E il processo si era ripetuto varie volte.
Intanto ora si stava invece rendendo conto di essere accaldato e sudaticcio. Si toccò le braghe. Sentendo l'umido fu preso da un dubbio fastidioso. Sfregò una mano e poi l'annusò. No era soltanto sudore. Non si era dunque allontanato dalla realtà e dalla coscienza al punto da non controllare neppure più le funzioni fisiologiche, come se ne rendeva ora ben conto a volte gli capitava. Tornò lentamente verso casa. Percorrendo la zona pedonale sentiva il rombo lontano della auto sulle strade principali. Tanti piccoli frigoriferi mobili con le persone intirizzite dentro a "godersi" l'aria condizionata per rischiare poi la sincope nei pochi metri allo scoperto prima di tuffarsi nella climatizzazione dell'ufficio, del negozio o di casa. C'era un po' di follia in ciò. Da che pulpito si disse. L'autoironia era un ottimo segnale, gli aveva detto Ugo il suo assistente sociale.
Entrato nell'atrio del condominio si incrociò con gli anziani vicini del piano di sopra che lo salutarono cordialmente, ma con un'aria un po' stupita. "A me piace il caldo" disse. "O a noi anche" rispose l'uomo. "abbiamo vissuto per 25 anni in Sudafrica" aggiunse lei. "davvero!" esclamò "deve essere un posto incredibile". E così conversarono per una ventina di minuti. Poi lo invitarono a bere il the il pomeriggio successivo. Parlarono molto del Sudafrica e con sua grande soddisfazione quasi nulla di lui.
Rimase colpito dalla loro visione sociologica.
oh per carità, no non siamo razzisti, non abbiamo alcun problema ad ammettere che anche i neri sono esseri umani. Ma chi potrebbe dire che gli italiani sono uguali agli svedesi, o i boscimani agli zulù. E allora che senso ha dire che bianchi e neri sono uguali?”
oh certo il Sudafrica è un paese ricco, ma ce n'è davvero abbastanza perché tutti siano ricchi? E poi i neri non hanno la cultura né le attitudini per fare gli affari dei bianchi”
Andrà a finire come in molti altri paesi africani, dopo aver scannato i bianchi si massacreranno tra di loro, ci sarà la guerra perpetua e così vivranno peggio, molto peggio che sotto l'aparthaid”
Il fatto che ciò non si stesse affatto verificando nonostante il passare dei decenni era per loro solo un'anomalia temporanea cui non prestar fede.
Il ragionamento gli ricordò le argomentazione di un sostenitore della società classista per il quale i poveri non avevano le capacità oppure difettavano della voglia per migliorare il loro status. Invece lui, che non veniva da una famiglia benestante, aveva studiato e iniziato una carriera che poteva portarlo in alto. Poi a bloccare tutto era sopraggiunta la malattia. Ma questa non era parte di lui, era un accidente che si poteva anche rimuovere, bastava trovare la cura giusta.
Con i 2 però si limitò a fare domande senza esprimere un opinione per evitare di urtarli ed essi non sospettarono nemmeno che lui potesse non condividere il loro modo di pensare. Imparò persino alcune parole di Afrikaans.
Alla sera quando l'anello della scatola di ceci gli restò in mano scoprì di non possedere un apriscatole. Visto il nuovo rapporto di buon vicinato che aveva instaurato si sentì legittimato ad andare a chiedere un apriscatole in prestito. Trovò un altra coppia più giovane e una ragazza ancora più giovane con loro.
"Scusatemi non volevo disturbare, solo ho rotto l'apertura a strappo di una scatoletta e non trovo l'apriscatole così, ho pensato che voi certamente ne avete uno e dato la vostra gentilezza potreste prestarmelo un attimo" E mostrò loro la scatola di legumi. "E' la vostra cena?" disse la signora con un tono molto delicato. "Oh praticamente, il piatto forte della mia cena". Tutti sorrisero. I coniugi si scambiarono un'occhiata di intesa dopo aver valutato le espressioni dei loro ospiti. "Possiamo fare di meglio che prestarle un apriscatole". "Sì abbiamo prenotato per sei alla trattoria all'angolo, ma siamo rimasti in 5" "un'emergenza lavorativa" "Perché non ci fa compagnia" "Come nostro ospite s'intende" duettarono, come loro solito i vicini di casa. La ragazza gli sorrise e questo bastò convincerlo ad accettare. Nel breve tragitto fino alla trattoria incontrarono diverse persone, che si godevano la prima serata di fresco dopo la vampa di calore tropicale, quasi tutte salutavano i suoi vicini sì accorse così con stupore di quanti particolari sconosciuti c'erano in quel mondo che vedeva quotidianamente, ma di norma filtrato da deliri. Bene era giunto il momento di appropiarsi del proprio quartiere oltre che della propria vita.
Al ristorante riuscì a glissare con eleganza le domande su di lui adducendo ad una vita noiosa e proponendo invece di parlare del Sudafrica, cosa che scatenò subito la vena narrativa dei suoi vicini e al contempo accrebbe l'interesse della ragazza che non osò interrompere la conversazione fino a che non fu servito il pranzo. Questa volta fu ancora più abile e ribaltò sulla sua interlocutrice la richiesta di informazioni personali. Nemmeno lei poté parlare a lungo perché l'attenzione di entrambi fu richiesta dagli altri commensali a giudicare i propri piatti. Mentre il discorso si perdeva su altre strade si concentrò sul piatto fumante che gli stava dinnanzi. Arrotolò gli spaghetti, alzò la forchetta verso la bocca. Si fermò un attimo con la bocca già socchiusa ad osservare il rotolino di spaghetti imbrattati di ragù. I campi di grano gli si tuffarono negli occhi, le spighe mature piegate dal vento e poi recise dalla mietitrebbia in un urlo di liberazione Le mandrie corsero dietro attraverso la pampa e irruppero nella sua testa. Anche i canti degli avventizi senegalesi che raccoglievano i pomodori del sorrentino si mescolarono alle grida dei gauchos. Intanto le macine del mulino trituravano i chicchi di frumento in un frastuono infernale di metallo e pietra. Sotto il sole abbacinante decine di contadine, operai, mandriani raccontavano le loro storie di dolori, amori, rancori e piaceri fisici. Sospirò. Troppe voci, troppe voci. Chiuse gli occhi. Poi gli riaprì. Ecco la sua pasta. Buona, ma fredda. Si chiese come mai. Si girò intorno. Il cameriere stava servendo il caffè. Dov’era finito il tempo? Sapeva che non era corso così veloce se non per lui. “Avete finito” chiese. I commensali sorrisero imbarazzati. “Si è freddata? Vuole che la faccia riscaldare?” chiese premuroso il cameriere. “No no lasci, meglio che la finisca così o rischio di distrarmi di nuovo. E poi è buona anche fredda, grazie”. Questo era il massimo di normalità possibile per lui. Sentì una punta di amarezza nell’accarezzare questo pensiero vellutato. "Ecco svelato il mistero della mia vita" disse guardandola negli occhi. Lei abbassò lo sguardo per quella curiosità che sentiva ora inopportuna e lui vi lesse invece la delusione per la sua condizione di malato di mente e la fine di ogni speranza che tra loro avvenisse qualcosa, ma le fu grato per il successivo sorriso che era comunque un atto di accettazione della sua persona. Si stupì nel rendersi conto di come una parte di sé l'avesse già posseduta, non solo, vi avesse già condiviso molti anni della sua vita. Questo pensiero era rimasto accartocciato in quella zona di confine tra conscio e inconscio, che normalmente è solamente virtuale, ma in lui aveva invece un'estensione fisica non indifferente. Dopo cena uscirono a passeggiare. Finirono per parlare lui e lei da soli e lui le raccontò quel poco che poteva della sua strana vita. Lei gli svelò i retroscena di anormalità nella sua normalissima vita. Si avvicinarono così oltre ogni ragionevole aspettativa.
Tornati sotto casa dopo i normali convenevoli lei sussurrò: “ci rivedremo presto?” “non ti farei nemmeno andar via” Lei sorrise “so dove trovarti”. Intanto la coppia di amici, con cui era giunta in macchina, le fece cortesemente fretta così per tagliar corto disse a voce più alta: “se mi cerchi devi solo chiedere a loro, che sono autorizzati a darti tutti gli estremi per contattarmi" “passo subito da voi” disse “ma certo” risposero e tutti si salutarono.
Con in mano il foglietto con indirizzo e telefono restò a fissare la porta del suo appartamento che aveva appena richiuso.
Ripensare a quella serata era impossibile, ma non pensarci altrettanto, le emozioni gli si avventarono contro trascinandolo in una tempesta
Era contento e spaventato, confuso come è chiunque si stia innamorando, ma questa ebbrezza gli riapriva connessioni cerebrali che avrebbero dovuto restare chiuse. Se ne rendeva conto e cercava di calmarsi di pensare ad altro, ma la paura di perdere il controllo lo portava proprio a perdere il controllo. Così inesorabilmente la finta realtà della sua mente iniziò a farsi spazio nella sua coscienza. Le luci dell'appartamento cominciarono a ondeggiare. Sono tanto trista - e rideva. Luci abbaglianti gli martoriavano gli occhi. Gli occhi i suoi occhi. O no ! gli avevano rubato gli occhi. Si vide con i propri occhi ed era chiaro: il ladro dei suoi occhi gli stava ancora lì davanti tenendo i suoi occhi in mano e per questo lui si vedeva così senza occhi. Irruppe una torma di qualcosa o di qualcuno. Qualcuno lo chiamava: Mario, Mario.
Non poteva rispondere, era già uno sforzo ricordare il suo nome. Sì chiamavano proprio lui. Poi pensò: chi è Mario? conosceva qualcuno con quel nome una volta. io non sono Mario io sono Giovanni.
In televisione parlavano di lui. Era chiaro. Adesso mostravano le mandrie al pascolo solo per confondere un po le acque per dissimulare, ma ce l'avevano proprio con lui. E perché? Non aveva fatto niente! O aveva fatto qualcosa? Forse aveva fatto qualcosa di male, era possibile. Si era possibile perché non ricordava. Da quanto tempo aveva dimenticato?
Ma no non aveva dimenticato: lei era stata gentile. Profumava e la sua mano era calda mentre toccava il dorso della sua mano. Uscì dal treno. Salimmo per molte ore. Cadendo giù dal pavimento. Volavi così densamente. Uscì dal treno.
Il cavallo sbranò il suo biondo eroe e questo fu l’inizio. Disteso nell’erba s’addormentò e fu la fine. Ma prima trovò l’uomo buono, che gli mostrò la sua strada. E la seguì, rimpiangendo le vecchie frustate, ridendo nell’aria ghiacciata il sapore di libertà. In fondo trovò l’uomo buono, che gli mostrò la sua strada. E il suo biondo padrone pregava; lo inghiottì senza fretta, senza odio, pensando solo a dormire.
Lassù nel cielo bave di cioccolato sfilavano urlando ebbre di gioia, sfilacciando presagi neri che crescevano in un’oscurità accecante. Giovanni andava su e giù , su e giù, su e giù, in preda all’angoscia. . Si chiede da quanto tempo sia là: sono passate notti e giorni, forse settimane, mesi, anni. No, è solo un’impressione, un’allucinazione, deve esserlo perché spazio e tempo si rincorrono in una giostra umida, che non era prevista, non era prevista, né voluta. Risate sadiche e carezze morbide e colorate sui visceri annodati.
La ragazza dagli occhi tristi, cercando di sorridere: vieni, andiamo, partiamo. Dalla parte che vuoi, voglio solo morire, presto o tardi, non fa differenza.
Dissi: vedi, sono già morto, non spero più, ho bruciato il mio cuore, addio.
Ha capito io credo: la ragazza dagli occhi tristi non tornò più.
La mia quieta disperazione ha bisogno di un angolo oscuro in cui rannicchiarsi per crescergli dentro e avvelenarti il sangue. Una gabbia di terrore da cui non potrà uscire, perché non vedi più nulla, oltre la nicchia del tuo dolore e credi che esista solo la solitudine di cui lei si ciba. E così è. Giovanni va su e giù in dolorosa asincronia con la testa che gli scoppia, pensando di essere lì, in mezzo all’oceano, solo da qualche minuto, in preda ad un’allucinazione. Il cielo esplode in frammenti acuminati di tempo, in un rombo di fuoco affamato. Le corse sui prati aguzzi di cristalli di allumino con i piedi arroventati sul maglio del vecchio mulino diroccato e semi carbonizzato. Oceani di silenzi assordanti precipitano sulle taciturne groppe dei pachidermi traslucidi incolonnati in fila tronca dentro la nebbia armonica.
Un’ansia sottile gira e rigira su se stessa avviluppandosi come filamenti di acidi nucleici di un virus nel cuore di una cellula, come edera affamato sul tronco stanco di un vecchio albero, come i pensieri leggeri di un cuore giovane attorno alla luce verde di una corsia di ospedale. Così spendo il mio tempo, così rubo il tuo tempo da questi fogli inutili.
Uscì dal treno. Le luci dell'appartamento erano strane? Tu guarderai ma forse quando certo ancora .

L'aria la tazza la neve vielleicht enjoi cest la vie aber nicht so laut bitte, nur nicht so laut o dear! hombre che dici? ...... grakzxkssssgaarrrhhhh aaaaaahhh

Poi improvvisamente i suoni le parole le frasi che turbinavano ovunque si fermarono e cominciarono lentamente a scendere e a depositarsi per terra formando una coltre morbida e spessa di materia eterogenea.

Fu in quel preciso istante che si rese conto di non essere Giovanni, di non esserlo, mai stato, ma di essere me.
E ora che so chi sono mi nascono nuovi dubbi: non circa il mio nome, no quello ormai lo conosco bene è solo il vecchio dilemma dell'uomo addormentato e della farfalla: sono uno scrittore che si finge folle o uno psicotico che si immagina scrittore?