domenica 11 settembre 2011

IL DILEMMA DELLA FARFALLA


Il panorama era immobile. Pietrificato. L'aria stessa era densa, quasi solida. Un muro caldo e umido. La pattuglia di ronda si muoveva lentamente ansimando nel brodo denso dell'aria rovente e pregna di umidità. Le divise blu e l'obbligo di tenerle allacciate rendevano il supplizio ancora peggiore. Uno era alto e macilento, l'altro piccolo e nervoso, ma entrambi trascinavano i piedi senza alzare le ginocchia e lasciavano cadere le braccia lungo i fianchi come appendici pendule. Giravano gli occhi intorno con rassegnazione, come a cercare un qualche impossibile refrigerio, apparentemente totalmente privi di ogni desiderio di controllare, come invece gli imponeva il servizio che svolgevano.
Del resto nella calura del primo pomeriggio il parco era semi-deserto. Niente pensionati, niente badanti, nemmeno un bambino in bicicletta. Una coppietta di ragazzini se ne stava acquattata nella corta ombra di un ippocastano tramortita dalla vampa di calore. Erano seduti sull'erba, con la schiena appoggiati al tronco, spalla contro spalla, le mani che si sfioravano, alcune lattine vuote erano distese ai loro piedi e l'aria sopra di esse vibrava per il calore che esse irradiavano. Lui sembrava dormire, ma dal mezzo sorriso sulla bocca e dalle labbra di lei che si muovevano appena percettibilmente si poteva intuire una flebile conversazione. Un signore di mezza età dall'aria distinta, nonostante la tenuta da turista in un paese tropicale, con un giornale spiegazzato in mano, cercava di riprendere le forze per arrivare fino a casa. Il suo sguardo stanco e stupito sembrava domandare conto di quell'afa insopportabile all'aria di fronte a lui.
Quel caldo intenso, prolungato e del tutto anomalo stava mettendo in ginocchio l'intera regione. I pochi che osavano od erano costretti a muoversi avevano un'aria sconvolta e allucinata. I loro cervelli non erano solamente affaticati e rallentati dal vacillare delle normali funzioni biologiche erano impegnati ad elaborare quella situazione senza via di uscita. Cercavano una ragione, una soluzione, un sistema per trasformare in positivo l'avversità climatica, ovviamente invano.
Si rese conto che in quel modo i suoi concittadini stavano sperimentando seppur in modo sfumato il suo abituale disagio. Pensieri ossessivi che si dipanavano senza riuscire a sgorgare da nessuna parte e si riavvolgevano su se stessi ostruendo ogni angolo della mente, mentre i segnali del mondo esterno entravano prepotentemente senza controllo fino a far ribollire ogni sua fibra. In quei giorni invece la calma inusuale della sua psiche rendeva quel caldo assurdo non solo tollerabile, ma persino piacevole. Ogni cosa era placidamente al suo posto, nessuna tensione, nessuna fretta. Gli stimoli erano contenuti e lui era in grado di elaborarli ad uno ad uno o di scartarli completamente. Sedeva su una panchina in penombra. Si sentiva bene. Da tempo non era stato così lucido, così cosciente di sé e della propria individualità, così consapevole dello scorrere del tempo, così attento al mondo. Si godeva questo stato di grazia, aiutato anche dalla calma dell'ambiente circostante. La cappa che opprimeva i suoi concittadini, obbligandoli a tapparsi in casa, liberava lui dagli stimoli eccessiva che la normale vita frenetico di una città riversava senza pietà nel suo fragile cervello, nella sua psiche tormentata. Si rendeva conto di come fosse per lui eccezionale l'essere così tranquillo anche se non era in grado di dire cosa esattamente ci fosse di diverso e quale fosse il suo stato abituale.
Raccolse una foglia da terra. Era una foglia grande, appena più piccola della sua mano. Ovale, un po’ oblunga. Di un verde chiaro, tra il pisello e il cinabro, ma opaco. Il bordo era regolare. Il picciolo era lungo e proseguiva in una marcata venatura centrale, da dove si dipartivano innumerevoli nervature via via sempre più esili. Percorse con lo sguardo la nervatura centrale dal picciolo fino alla punta della foglia. Poi girò a sinistra lungo il bordo fino a tornare alla base ripercorse la nervatura centrale e giunto in cima si ritrovò a tornare sul bordo già noto, anche se avrebbe voluto esplorare l'altro. Ripeté il giro alcune volte, infine riuscì a sfuggire lungo una nervatura laterale a metà foglia, giunse ad un bivio, poi ad un altro e ad un altro ancora. Si confuse un po'. Si ritrovò sulla nervatura principale. Tornò lentamente su quella laterale, ma forse era un altro canalino linfatico. Proseguì ugualmente fino al bordo. Era come un intrico di strade, ma alla fine si arrivava sempre al bordo. E questo era molto rassicurante. Risalì di nuovo la nervatura centrale. Notò come fosse incavata. Decisamente incavata. Come un canale, un canale di scolo. Ma gli scoli si riempiono d'acqua e quelle minuscole pareti potevano essere difficili da risalire per chi fosse stato così minuscolo da percorrere quel canale. L'idea lo disturbava, ma riuscì a fuggire frantumando lo sguardo in tutte le direzioni lungo i vasi linfatici della foglia. Al tatto era liscia sul lato superiore, ma non su quello inferiore. Sotto era felpata, forse pelosa, sì minuscoli peli che la rendevano, non scabrosa, ma nemmeno così scorrevole come l'altra faccia. Il picciolo era duro, ma stringendolo cedeva rivelandosi carnoso. Dal picciolo si poteva far muovere tutta la foglia. Incominciò a concentrare la sua attenzione sul movimento. La foglia girava, mostrando alternativamente le 2 facce, simili, ma diverse: una più chiara e vagamente luminescente, una più scura con una tonalità pastello. Si sentiva il rumore dell'aria spostata dalla foglia nel suo girare. E la foglia girava e girava. La foglia, la foglia girava. Girava. La foglia. La foglia, la soglia. La soglia girava. Si scioglieva la foglia. La foglia, la figlia. La figlia di chi? Di chi era figlia? Chi era ? La figlia ? Non la conosceva. Beh conosceva poche donne in effetti. No, non conosceva le donne. Lasciò cadere la foglia. Faceva un po' caldo su quella panchina in verità. Ed era ormai l'imbrunire.
Intanto i poliziotti staccavano dal turno dopo aver compiuto stoicamente il loro dovere andando a presidiare la gelateria all'angolo, dove il gelato non era proprio al top, ma l'aria condizionato funzionava a meraviglia!
Il crepuscolo cedeva il passo alla notte. Il crepuscolo del suo dio: la normalità. Sì era stata una bella giornata normale, come può passarla un qualsiasi pensionato solitario. Già. Lui però era un po' giovane per essere un pensionato.
Eppure non ricordava neppure più il suo ultimo giorno di lavoro. Non ricordava praticamente più nulla. Ricordava chiaramente solo un episodio molto lontano, della sua prima infanzia: quella donna che lo chiamava: bambino mio. Dov'era? Perché se ne era andata via proprio adesso che ne aveva bisogno lasciandolo con tutta quella gente stupida che non faceva altro che ridere o piangere e si muoveva tutt'intorno e lo toccava senza motivo. Ma in effetti non era un episodio reale, bensì solo una costruzione della sua fantasia che si era ricavata un suo piccolo spazio nella memoria. Non ricordava invece quell'ultimo giorno in ufficio.
"Le avevo detto che doveva essere tutto pronto per le nove di questa mattina, sono le dieci e lei non ha neppure cominciato. Ciò è molto grave, adesso però non ho tempo, ma stia certo che la cosa avrà conseguenze" Prese la pratica dal suo tavolo e la diede al suo collega: "Ci pensi lei Cavicchioli, prima possibile, mi raccomando, l'aspetto nel mio ufficio". Cavicchioli si tuffò sulla pratica, ma appena il dirigente ebbe richiuso la porta si girò verso di lui e ghignò: "non russare troppo forte tu, perché io devo lavorare, io". Una vampata di rabbia gli salì dallo stomaco fino alla testa e poi discese nelle braccia fino a fargli ribollire le mani. Afferrò la scrivania e la rovesciò. Lo schermo del PC si frantumò in migliaia di schegge e poi dopo una breve fiammata restò a fumare sul pavimento. Il portapenne in ceramica mescolò i suoi cocci con i vetri, mentre le gomme rimbalzarono sulle pareti prima di fermarsi. Penne e matite scomparvero sotto la scrivania di Cavicchioli, insieme al Cavicchioli stesso. La sua proscrizione dal mondo dei normali era cominciata così. Le visite psichiatriche era iniziate il giorno stesso con conseguente ricovero. Il licenziamento non si era fatto attendere a lungo. In realtà già prima aveva manifestato segni di squilibrio, ma mai diagnosticati, come reale disagio psichico.
Disagio psichico che invece dopo quell'episodio era risultato conclamato e come se questa epifania fosse stata un segnale di partenza il suo stato mentale si era rapidamente e progressivamente allontanato da una condizione accettabile dalla nostra società. E in tale stato di alienazione aveva bruciato un decennio della sua vita, giacché i pur non infrequenti e non brevi momenti di lucidità vi erano rimasti incastonati dentro come delle mere interruzioni, senza restituirgli una autentica normalità.
Tra le varie ossessioni che lo avevano posseduto quella che aveva resistito di più era la convinzione di non essere più se stesso di essere stato sostituito con una copia, di essere dunque solo una copia, una copia malfatta, e per questo piena di problemi, il suo cervello artificiale era difettoso e l'unica salvezza era ritrovare l'originale nascosto dagli alieni. Impresa non facile in verità a cui nessuno era disposto a partecipare per aiutarlo. Farmaci e terapie psicologiche avevano rimosso quell'idea, ma solo per sostituirla con un'altra non meno singolare. E il processo si era ripetuto varie volte.
Intanto ora si stava invece rendendo conto di essere accaldato e sudaticcio. Si toccò le braghe. Sentendo l'umido fu preso da un dubbio fastidioso. Sfregò una mano e poi l'annusò. No era soltanto sudore. Non si era dunque allontanato dalla realtà e dalla coscienza al punto da non controllare neppure più le funzioni fisiologiche, come se ne rendeva ora ben conto a volte gli capitava. Tornò lentamente verso casa. Percorrendo la zona pedonale sentiva il rombo lontano della auto sulle strade principali. Tanti piccoli frigoriferi mobili con le persone intirizzite dentro a "godersi" l'aria condizionata per rischiare poi la sincope nei pochi metri allo scoperto prima di tuffarsi nella climatizzazione dell'ufficio, del negozio o di casa. C'era un po' di follia in ciò. Da che pulpito si disse. L'autoironia era un ottimo segnale, gli aveva detto Ugo il suo assistente sociale.
Entrato nell'atrio del condominio si incrociò con gli anziani vicini del piano di sopra che lo salutarono cordialmente, ma con un'aria un po' stupita. "A me piace il caldo" disse. "O a noi anche" rispose l'uomo. "abbiamo vissuto per 25 anni in Sudafrica" aggiunse lei. "davvero!" esclamò "deve essere un posto incredibile". E così conversarono per una ventina di minuti. Poi lo invitarono a bere il the il pomeriggio successivo. Parlarono molto del Sudafrica e con sua grande soddisfazione quasi nulla di lui.
Rimase colpito dalla loro visione sociologica.
oh per carità, no non siamo razzisti, non abbiamo alcun problema ad ammettere che anche i neri sono esseri umani. Ma chi potrebbe dire che gli italiani sono uguali agli svedesi, o i boscimani agli zulù. E allora che senso ha dire che bianchi e neri sono uguali?”
oh certo il Sudafrica è un paese ricco, ma ce n'è davvero abbastanza perché tutti siano ricchi? E poi i neri non hanno la cultura né le attitudini per fare gli affari dei bianchi”
Andrà a finire come in molti altri paesi africani, dopo aver scannato i bianchi si massacreranno tra di loro, ci sarà la guerra perpetua e così vivranno peggio, molto peggio che sotto l'aparthaid”
Il fatto che ciò non si stesse affatto verificando nonostante il passare dei decenni era per loro solo un'anomalia temporanea cui non prestar fede.
Il ragionamento gli ricordò le argomentazione di un sostenitore della società classista per il quale i poveri non avevano le capacità oppure difettavano della voglia per migliorare il loro status. Invece lui, che non veniva da una famiglia benestante, aveva studiato e iniziato una carriera che poteva portarlo in alto. Poi a bloccare tutto era sopraggiunta la malattia. Ma questa non era parte di lui, era un accidente che si poteva anche rimuovere, bastava trovare la cura giusta.
Con i 2 però si limitò a fare domande senza esprimere un opinione per evitare di urtarli ed essi non sospettarono nemmeno che lui potesse non condividere il loro modo di pensare. Imparò persino alcune parole di Afrikaans.
Alla sera quando l'anello della scatola di ceci gli restò in mano scoprì di non possedere un apriscatole. Visto il nuovo rapporto di buon vicinato che aveva instaurato si sentì legittimato ad andare a chiedere un apriscatole in prestito. Trovò un altra coppia più giovane e una ragazza ancora più giovane con loro.
"Scusatemi non volevo disturbare, solo ho rotto l'apertura a strappo di una scatoletta e non trovo l'apriscatole così, ho pensato che voi certamente ne avete uno e dato la vostra gentilezza potreste prestarmelo un attimo" E mostrò loro la scatola di legumi. "E' la vostra cena?" disse la signora con un tono molto delicato. "Oh praticamente, il piatto forte della mia cena". Tutti sorrisero. I coniugi si scambiarono un'occhiata di intesa dopo aver valutato le espressioni dei loro ospiti. "Possiamo fare di meglio che prestarle un apriscatole". "Sì abbiamo prenotato per sei alla trattoria all'angolo, ma siamo rimasti in 5" "un'emergenza lavorativa" "Perché non ci fa compagnia" "Come nostro ospite s'intende" duettarono, come loro solito i vicini di casa. La ragazza gli sorrise e questo bastò convincerlo ad accettare. Nel breve tragitto fino alla trattoria incontrarono diverse persone, che si godevano la prima serata di fresco dopo la vampa di calore tropicale, quasi tutte salutavano i suoi vicini sì accorse così con stupore di quanti particolari sconosciuti c'erano in quel mondo che vedeva quotidianamente, ma di norma filtrato da deliri. Bene era giunto il momento di appropiarsi del proprio quartiere oltre che della propria vita.
Al ristorante riuscì a glissare con eleganza le domande su di lui adducendo ad una vita noiosa e proponendo invece di parlare del Sudafrica, cosa che scatenò subito la vena narrativa dei suoi vicini e al contempo accrebbe l'interesse della ragazza che non osò interrompere la conversazione fino a che non fu servito il pranzo. Questa volta fu ancora più abile e ribaltò sulla sua interlocutrice la richiesta di informazioni personali. Nemmeno lei poté parlare a lungo perché l'attenzione di entrambi fu richiesta dagli altri commensali a giudicare i propri piatti. Mentre il discorso si perdeva su altre strade si concentrò sul piatto fumante che gli stava dinnanzi. Arrotolò gli spaghetti, alzò la forchetta verso la bocca. Si fermò un attimo con la bocca già socchiusa ad osservare il rotolino di spaghetti imbrattati di ragù. I campi di grano gli si tuffarono negli occhi, le spighe mature piegate dal vento e poi recise dalla mietitrebbia in un urlo di liberazione Le mandrie corsero dietro attraverso la pampa e irruppero nella sua testa. Anche i canti degli avventizi senegalesi che raccoglievano i pomodori del sorrentino si mescolarono alle grida dei gauchos. Intanto le macine del mulino trituravano i chicchi di frumento in un frastuono infernale di metallo e pietra. Sotto il sole abbacinante decine di contadine, operai, mandriani raccontavano le loro storie di dolori, amori, rancori e piaceri fisici. Sospirò. Troppe voci, troppe voci. Chiuse gli occhi. Poi gli riaprì. Ecco la sua pasta. Buona, ma fredda. Si chiese come mai. Si girò intorno. Il cameriere stava servendo il caffè. Dov’era finito il tempo? Sapeva che non era corso così veloce se non per lui. “Avete finito” chiese. I commensali sorrisero imbarazzati. “Si è freddata? Vuole che la faccia riscaldare?” chiese premuroso il cameriere. “No no lasci, meglio che la finisca così o rischio di distrarmi di nuovo. E poi è buona anche fredda, grazie”. Questo era il massimo di normalità possibile per lui. Sentì una punta di amarezza nell’accarezzare questo pensiero vellutato. "Ecco svelato il mistero della mia vita" disse guardandola negli occhi. Lei abbassò lo sguardo per quella curiosità che sentiva ora inopportuna e lui vi lesse invece la delusione per la sua condizione di malato di mente e la fine di ogni speranza che tra loro avvenisse qualcosa, ma le fu grato per il successivo sorriso che era comunque un atto di accettazione della sua persona. Si stupì nel rendersi conto di come una parte di sé l'avesse già posseduta, non solo, vi avesse già condiviso molti anni della sua vita. Questo pensiero era rimasto accartocciato in quella zona di confine tra conscio e inconscio, che normalmente è solamente virtuale, ma in lui aveva invece un'estensione fisica non indifferente. Dopo cena uscirono a passeggiare. Finirono per parlare lui e lei da soli e lui le raccontò quel poco che poteva della sua strana vita. Lei gli svelò i retroscena di anormalità nella sua normalissima vita. Si avvicinarono così oltre ogni ragionevole aspettativa.
Tornati sotto casa dopo i normali convenevoli lei sussurrò: “ci rivedremo presto?” “non ti farei nemmeno andar via” Lei sorrise “so dove trovarti”. Intanto la coppia di amici, con cui era giunta in macchina, le fece cortesemente fretta così per tagliar corto disse a voce più alta: “se mi cerchi devi solo chiedere a loro, che sono autorizzati a darti tutti gli estremi per contattarmi" “passo subito da voi” disse “ma certo” risposero e tutti si salutarono.
Con in mano il foglietto con indirizzo e telefono restò a fissare la porta del suo appartamento che aveva appena richiuso.
Ripensare a quella serata era impossibile, ma non pensarci altrettanto, le emozioni gli si avventarono contro trascinandolo in una tempesta
Era contento e spaventato, confuso come è chiunque si stia innamorando, ma questa ebbrezza gli riapriva connessioni cerebrali che avrebbero dovuto restare chiuse. Se ne rendeva conto e cercava di calmarsi di pensare ad altro, ma la paura di perdere il controllo lo portava proprio a perdere il controllo. Così inesorabilmente la finta realtà della sua mente iniziò a farsi spazio nella sua coscienza. Le luci dell'appartamento cominciarono a ondeggiare. Sono tanto trista - e rideva. Luci abbaglianti gli martoriavano gli occhi. Gli occhi i suoi occhi. O no ! gli avevano rubato gli occhi. Si vide con i propri occhi ed era chiaro: il ladro dei suoi occhi gli stava ancora lì davanti tenendo i suoi occhi in mano e per questo lui si vedeva così senza occhi. Irruppe una torma di qualcosa o di qualcuno. Qualcuno lo chiamava: Mario, Mario.
Non poteva rispondere, era già uno sforzo ricordare il suo nome. Sì chiamavano proprio lui. Poi pensò: chi è Mario? conosceva qualcuno con quel nome una volta. io non sono Mario io sono Giovanni.
In televisione parlavano di lui. Era chiaro. Adesso mostravano le mandrie al pascolo solo per confondere un po le acque per dissimulare, ma ce l'avevano proprio con lui. E perché? Non aveva fatto niente! O aveva fatto qualcosa? Forse aveva fatto qualcosa di male, era possibile. Si era possibile perché non ricordava. Da quanto tempo aveva dimenticato?
Ma no non aveva dimenticato: lei era stata gentile. Profumava e la sua mano era calda mentre toccava il dorso della sua mano. Uscì dal treno. Salimmo per molte ore. Cadendo giù dal pavimento. Volavi così densamente. Uscì dal treno.
Il cavallo sbranò il suo biondo eroe e questo fu l’inizio. Disteso nell’erba s’addormentò e fu la fine. Ma prima trovò l’uomo buono, che gli mostrò la sua strada. E la seguì, rimpiangendo le vecchie frustate, ridendo nell’aria ghiacciata il sapore di libertà. In fondo trovò l’uomo buono, che gli mostrò la sua strada. E il suo biondo padrone pregava; lo inghiottì senza fretta, senza odio, pensando solo a dormire.
Lassù nel cielo bave di cioccolato sfilavano urlando ebbre di gioia, sfilacciando presagi neri che crescevano in un’oscurità accecante. Giovanni andava su e giù , su e giù, su e giù, in preda all’angoscia. . Si chiede da quanto tempo sia là: sono passate notti e giorni, forse settimane, mesi, anni. No, è solo un’impressione, un’allucinazione, deve esserlo perché spazio e tempo si rincorrono in una giostra umida, che non era prevista, non era prevista, né voluta. Risate sadiche e carezze morbide e colorate sui visceri annodati.
La ragazza dagli occhi tristi, cercando di sorridere: vieni, andiamo, partiamo. Dalla parte che vuoi, voglio solo morire, presto o tardi, non fa differenza.
Dissi: vedi, sono già morto, non spero più, ho bruciato il mio cuore, addio.
Ha capito io credo: la ragazza dagli occhi tristi non tornò più.
La mia quieta disperazione ha bisogno di un angolo oscuro in cui rannicchiarsi per crescergli dentro e avvelenarti il sangue. Una gabbia di terrore da cui non potrà uscire, perché non vedi più nulla, oltre la nicchia del tuo dolore e credi che esista solo la solitudine di cui lei si ciba. E così è. Giovanni va su e giù in dolorosa asincronia con la testa che gli scoppia, pensando di essere lì, in mezzo all’oceano, solo da qualche minuto, in preda ad un’allucinazione. Il cielo esplode in frammenti acuminati di tempo, in un rombo di fuoco affamato. Le corse sui prati aguzzi di cristalli di allumino con i piedi arroventati sul maglio del vecchio mulino diroccato e semi carbonizzato. Oceani di silenzi assordanti precipitano sulle taciturne groppe dei pachidermi traslucidi incolonnati in fila tronca dentro la nebbia armonica.
Un’ansia sottile gira e rigira su se stessa avviluppandosi come filamenti di acidi nucleici di un virus nel cuore di una cellula, come edera affamato sul tronco stanco di un vecchio albero, come i pensieri leggeri di un cuore giovane attorno alla luce verde di una corsia di ospedale. Così spendo il mio tempo, così rubo il tuo tempo da questi fogli inutili.
Uscì dal treno. Le luci dell'appartamento erano strane? Tu guarderai ma forse quando certo ancora .

L'aria la tazza la neve vielleicht enjoi cest la vie aber nicht so laut bitte, nur nicht so laut o dear! hombre che dici? ...... grakzxkssssgaarrrhhhh aaaaaahhh

Poi improvvisamente i suoni le parole le frasi che turbinavano ovunque si fermarono e cominciarono lentamente a scendere e a depositarsi per terra formando una coltre morbida e spessa di materia eterogenea.

Fu in quel preciso istante che si rese conto di non essere Giovanni, di non esserlo, mai stato, ma di essere me.
E ora che so chi sono mi nascono nuovi dubbi: non circa il mio nome, no quello ormai lo conosco bene è solo il vecchio dilemma dell'uomo addormentato e della farfalla: sono uno scrittore che si finge folle o uno psicotico che si immagina scrittore?

Nessun commento:

Posta un commento