domenica 29 aprile 2012

ROSPI


- amore?
- sì cara?
- cosa ti piace di me?
- le tue cosce lunghe
- e poi?
- la tua pelle vellutata
- e poi?
- la tua bocca larga
- mmh! E cosa ti piace che faccia?
- mi piace come muovi la lingua
- come?
- velocissima, lunghissima
- e?
- e non manchi mai una mosca
- ok. Vuoi sapere cosa mi piace di te?
- dimmi
- le tue verruche
- sì
- le tue macchie gialle sulla pelle verde
- e soprattutto come gonfi le guance quando gracidi
- cra cra
- papà, mamma
- sì?
- che c'è?
- posso guardare la TV?
- che programma?
- un documentario sui serpenti australiani
- oddio ma mangiano i rospi
- come siete simpatici
- attento a te girino
- ve ne andate di là?
- va bene
- non tenere il volume troppo alto
Passarono in cucina e chiusero la porta
- ah oggi ha chiamato la banca
- per i titoli in scadenza?
- sì
- riesci a passare tu?
- dopodomani
- perfetto quanto ti voglio bene smack
- ehi lasciami o non rispondo delle mie azioni
- scatenati
Lui l'abbracciò da dietro, la spinse contro il piano della cucina, infilò le mani sotto la maglietta e le palpò i seni. Lei lo carezzò sul collo. Allora lui le aprì il reggiseno e raggiunse i capezzoli. Quando li sentì induriti scese con una mano e le massaggiò la vulva. Quindi con un dito incominciò a stimolarla. La sentì mugolare e con l'altra mano le abbassò i calzoncini e le mutande e fece lo stesso con i propri vestiti e la penetrò delicatamente.
Raggiunto l'orgasmo lei lo spinse fuori, si girò e lo fece sdraiare con la schiena sul tavolo. Poi gli montò sopra e cominciò a muoversi prima lentamente poi via via sempre più convulsamente. Infine cessò di spingere con le anche e con i soli muscoli vaginali iniziò a farlo entrare sempre più profondamente in lei. Lo tirò dentro completamente risucchiando prima il bacino poi le gambe, il tronco, le braccia e infine la testa. Solo un ciuffo di capelli restò fuori. Continuò a stritolarlo con forza in un orgasmo lungo e violentissimo riducendolo in poltiglia. Si rilassò e i suoi abbondanti umori lo drenarono fuori.
Vedendo come l'aveva fatta godere la sua eccitazione divenne parossistica e per alcuni secondi pensò che il pene sarebbe esploso. Invece eiaculò, ma con una tale potenza che lo sperma perforò l'utero, i visceri, i polmoni, il cuore, la gola, il cervello, il cranio. Bucò il soffitto e il tetto e dopo pochi istanti si conficcò nella luna fino al centro, dove esplose.
La luna deflagrò in miliardi di frammenti che cadendo sull'atmosfera terrestre si accesero come un gigantesco fuoco d'artificio tremolante.
Lui gonfiò le guance e gracidò soddisfatto prima di immergersi nello stagno. Lei restò con la testa sopra il pelo dell'acqua a rimirare il cielo senza luna.
Al chiarore esagerato delle stelle vide passare una zanzara e la catturò con un movimento repentino della lingua. Poi sparì anche lei nell'acqua nera dello stagno.

domenica 22 aprile 2012

L'ASCENSORE


Giusto un saluto. Gli ospedali non gli erano mai piaciuti. Ma a chi piacciono? La sua era però una vera e propria fobia e per quanto considerasse una nobile occupazione il visitare gli ammalati, aveva sempre per quanto possibile evitato di praticarla. In questo caso non gli era possibile. In fondo era il suo miglior amico. 
Personalmente poi aveva avuto la fortuna di non essere mai stato ricoverato. 
Entrò nell'ospedale già preventivamente contratto e subito sentì crescere la sensazione di disagio, fino al punto di pensare di tornare indietro. L'aria stessa gli pareva infetta ed era sicuro che non avrebbe trovato le parole giusta per consolare e distrarre l'amico che si ritrovava in quel luogo spaventoso: una sorte di carcere per innocenti, una prigione in cui le torture erano non solo ammesse, ma obbligatorie. Si fece forza.
Si orientò un po' a fatica grazie all'intricata segnaletica e imboccò un lungo corridoio che portava all'ala ovest del nosocomio. In fondo si trovavano gli ascensori per salire ai reparti. Si mise davanti al primo ascensore e controllò l'indicatore luminoso. Stava scendendo seppur lentamente. Terzo piano, secondo primo. Di nuovo secondo. Che sfortuna. Controllò gli altri due ascensori. Stavano tutti salendo.
Aspettò un po’, sempre controllando gli indicatori. Sembrava che tutti si muovessero da un piano all'altro senza mai decidersi a scendere al livello terra. Sbuffò e decise di salire per le scale anche se doveva salire fino al settimo piano. Si girò e fu colto da una fortissima vertigine. Le scale non c'erano più. Le aveva notate entrando nell'atrio, ma ora erano sparite, anzi era sparita persino l'entrata. Non c'erano che gli ascensori e i muri.
Non fidandosi dei propri occhi si mosse tutt'intorno alla stanza, ma niente: non c'era un'apertura nè una porta escluse quelle chiuse degli ascensori. Com'era possibile? Forse distrattamente era entrato in un grosso montacarichi con varie uscite? Ma tasti per piani non c'erano e poi sopra ogni porta scorrevano numeri di piano differenti. Stava sognando? Stava avendo un'allucinazione?
Si ricordò di aver letto di una malattia che provocava la deprivazione del sonno, da cui derivavano allucinazioni vigili, ma era una malattia rarissima e per di più ereditaria. Poi lui ultimamente aveva dormito benissimo. Perché aveva deciso di venire all'ospedale? Ma che c'entrava? Questo non era l'ospedale era un posto assurdo, un incubo. forse era capitato in una sorta di candid camera. "Basta, fatemi uscire" "non è un bello scherzo ed è durato anche troppo" "Tiratemi fuori prima che decida di denunciarvi tutti". Non c'era risposta.
Si sedette per terra chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Quando gli riaprì nulla era cambiato. Si mise a cercare un varco nel muro tastandolo. Urlò e strepitò. Si comportava come un folle? Ma era la situazione folle! Cercò di nuovo un varco con calci sparati qua e là sui muri. Batté con i pugni sulle porte degli ascensori. Provò a stare in silenzio cercando un qualche rumore. Analizzò con cura con lo sguardo ogni centimetro dei muri, del soffitto e del pavimento. Si accorse che pur essendoci luce diffusa non c'era un'apparente sorgente luminosa. Cominciava a sentirsi spossato. Non aveva neppure un orologio. Da quanto tempo era lì dentro? Avesse almeno avuto il cellulare, ma era scarico e l'aveva lasciato in macchina. Ma tanto quasi sicuramente lì dentro non avrebbe preso. Forse non era nemmeno un luogo quello in cui si trovava, ma solo un angolo della sua mente. Si sdraiò tentando di dormire. Era affamato e assetato. Sarebbe morto di sete? Si consolò pensando che lo stimolo della sete e della fame passavano velocemente a quanto dicevano. Si sarebbe via via indebolito, avrebbe perso conoscenza e sarebbe morto dolcemente senza soffrire. No! Non voleva morire aveva ancora tante cosa da fare. E poi che razza di storia era questa? Si perse in pensieri via via più confusi. Si svegliò tutto ammaccato. Il pavimento era duro. Si accorse che la barba era cresciuta. Provò ad aprire con le mani le porte degli ascensori, ma senza riuscire a smuoverle nemmeno di un millimetro.
Riprovò in tutti i modi a farsi sentire, ad aprire un varco, ispezionò ogni millimetro a vista al tatto, con l'udito. Pensò e ripensò a come era finito lì. Cercò in tutti i modi di pensare ad una possibilità per cambiare la situazione. Aveva fame, aveva sete, doveva andare in bagno. Quanto poteva sopravvivere senza bere?
Si disperò e si calmò più volte. Dormì.
E alla fine si arrese e decise di aspettare la morte. Cercò di allietare l'attesa con i ricordi più belli, ma alla fine ripercorse tutta la sua vita, momenti belli e momenti brutti fino ad arrivare di nuovo lì. A quel punto i suoi pensieri divennero nuovamente confusi e si addormentò per l'ultima volta.

domenica 15 aprile 2012

OCCHIATE


La guardò di sfuggita, ma intensamente “che gnocca! questa sì me la farei”.
Lei notò lo sguardo “gli piaccio” e non poté trattenere un luccichio dell’occhio mentre lo ruotava altrove “anche tu non sei male” concluse in un sospiro interiore, pieno di desiderio.
L’istinto animale avrebbe voluto che ciascuno affidasse i suoi geni all’altro senza aspettare. Ma decine di migliaia di anni di sviluppo intellettivo e raziocinante, e di ipocrisia, vincono a mani basse partite ben più dure che impedire una fecondazione umana in un marciapiede affollato di una strada del centro nell’ora di punta.
Nessuno rallentò il suo passo, nessuno si voltò, nessuno fermò quel pensiero per un istante, un altro misero istante.
... quella dannata ditta! se domani non consegnano hanno chiuso per sempre...” “... e già che passo in farmacia per lo sciroppo prendo un po’ di magnesia ...” “... se continua così...” “... sempre in ritardo ...”
L’auto, l’autobus, il cancello, l’ascensore, la porta. “ciao, come stai?” “...tra pochi minuti, dopo la pubblicità”. E via.
Una sera qualunque, una settimana, un mese, un anno. Anni, eventi, gioie, dolori, amori, morte.
Se si fossero fermati! Quanti milioni di persone, lungo i secoli, avrebbero visto la luce grazie a quel seme di vita. E non saranno mai. Ogni vita ha un debito infinito verso il nulla.
Se incroci uno sguardo, non ti fermare: stai cancellando milioni di vite, stai evitando di pagare il tuo debito al nulla e magari anche una risposta scortese o, nella migliore delle ipotesi, una denuncia per atti osceni in luogo pubblico.

giovedì 5 aprile 2012

IL RAMO PIÙ ALTO


C’era una volta un vecchio melo, che faceva ancora delle mele belle, grosse e saporite. Un inverno, mentre dormiva coperto di neve, perse il suo ramo più alto. Il vento cattivo dell’est si accanì gelido contro quel ramo appesantito dalla neve fino a spezzarlo.
Il vecchio melo, che come tutti gli alberi era molto paziente, non badò un gran che alla cosa e a primavera emise una nuova gemma. Subito un tenero rametto cominciò a crescere verso il cielo. Il nuovo ramo godeva in pieno della luce del sole e crebbe rapidamente.
Sotto di sé poteva vedere tutti gli altri rami ed era molto orgoglioso della sua posizione dominante e privilegiata, a lui nessun altro ramo faceva mai ombra. Il giovane ramo vide anche come gli altri rami più vecchi producevano i fiori e poi li trasformavano in frutti.
Anche lui, la primavera seguente, provò a fare i fiori, ma ne uscirono solo spine e ciò lo indispettì molto. Il vecchio melo sorrise: “Abbi pazienza, figliolo, sei ancora giovane, a suo tempo farai anche tu i fiori e poi le tue belle mele”. Il giovane ramo, si tranquillizzò e, pieno di vigore, crebbe altissimo verso il sole.
Dopo un paio di anni invece delle spine anche il giovane ramo si coprì di bellissimi fiori bianchi. Purtroppo però quell’anno, durante l’estate, venne la grandine e i fiori del ramo più alto, così esposti alle intemperie, furono completamente distrutti. Il ramo era fuori di sé dalla rabbia e di nuovo il vecchio melo lo rasserenò parlandogli di tutti gli anni a venire. Il ramo così non si perse d’animo e crebbe ancora fino all’autunno.
Dormì per tutto l’inverno e a primavera produsse dei nuovi fiori, da cui nacquero le mele, che in autunno cominciarono a divenire grosse e rosse. Quando giunsero i contadini, il ramo gongolava, dandosi grande importanza e aspettava fiero di dare agli uomini le sue mele. Ma il ramo era troppo in alto anche per le lunghe scale dei raccoglitori che con i loro lunghi bastoni da raccolta non riuscivano a raggiungere le sue mele. Così mentre tutti gli altri rami dell’albero vennero liberati dal loro peso di frutti, solo il ramo più alto attese invano e vide andarsene i raccoglitori con ancora tutte le sue belle mele.
Le mele già mature cominciarono a divenire molto pesanti e in breve caddero a terra e lì marcirono. Il ramo piangeva in silenzio, perché orgoglioso com’era non voleva farsi scoprire a piangere ancora una volta dal vecchio melo. Così si addormentò per l’inverno in preda al più grande sconforto ritenendosi inutile e maledicendo la sua posizione di ramo più in alto.
A primavera però dal terreno spuntò una piccola piantina, che guardando in alto lo chiamò e gli disse: “Ciao, papà”. Era un piccolo melo che nasceva da un seme di una delle mele del ramo cadute a terra l’autunno precedente. Il ramo si commosse e pieno di gioia fiorì come mai nessun ramo di melo era fiorito prima.

domenica 1 aprile 2012

IL CARBURANTE MAGICO


Ci sarà un giorno, fra tanti millenni, una nonna che, su un pianeta lontano, alla luce multicolore di sette lune, racconterà una fiaba ai suoi nipotini:
C’era una volta un uomo, che aveva delle serre sull’asteroide Protobio e una volta alla settimana, con la sua piccola astronave, portava le verdure e i frutti sui pianeti vicini per venderli al mercato.
L’uomo si chiamava Obatzda.
Un giorno un vecchio robot si fermò su Protobio per alcune riparazioni e Obatzda lo accolse nella sua fattoria e gli diede tutti gli attrezzi e i materiali di cui aveva bisogno.
Non volle nemmeno farsi pagare, perché – disse - era contento di aiutare gli astronauti in difficoltà, uomini, androidi o robot che fossero e non gli dispiaceva di avere ogni tanto un po’ di compagnia. Obatzda era infatti l’unico abitante di Protobio.
Il robot allora, confessò ad Obatzda di essere un mago alchimista e di aver realizzato il carburante eterno. Spiegò anche ad Obatzda, che non aveva divulgato la sua scoperta, perché poteva creare grossi problemi, ma ne regalava qualche pezzo solo a persone fidate.
Fu così che Obatzda ebbe il cristallo magico, che messo nel motore dell’astronave, forniva energia senza mai consumarsi.
Il mago robot raccomandò poi ad Obatzda di non rompere mai il cristallo e se ne andò.
Non avendo più problemi di rifornimenti Obatzda cominciò a fare dei viaggi nello spazio per puro divertimento.
Un giorno mentre visitava un lontano ammasso stellare, captò un segnale di emergenza. Proveniva da un’astronave che era stata risucchiata da un buco nero e, grazie all’abilità del pilota, era riuscita a mettersi in orbita appena al di qua dell’orizzonte degli eventi. Passato quel punto l’astronave sarebbe stata inghiottita dal buco nero e ridotta in poltiglia.
L’astronave però non aveva più carburante sufficiente per allontanarsi dal buco nero che la attraeva a sé.
Nell’astronave c’erano tre intere famiglie di coloni in viaggio verso Moebius V.
Obatzda ci pensò su bene e decise che non poteva lasciarli lì a morire di vecchiaia girando attorno ad un buco nero e ignorando il pericolo, raggiunse l’astronave.
Poiché la piccola astronave di Obatzda non poteva trasportare tutti i coloni e Obatzda non poteva certo abbandonare lì la sua astronave, prese il cristallo magico e lo ruppe in due pensando di dividerlo tra la sua astronave e l’altra.
Ma il cristallo frantumato cominciò a reagire in modo molto brutto e, poiché stava per esplodere, Obatzda fu costretto a gettarlo fuori dall’astronave.
Il cristallo esplose, ma quell’esplosione magica, fu attirata nel buco nero e lo dissolse.
Così le due astronavi furono entrambe libere.
Il carburante dell’astronave dei coloni, una volta eliminata l’energia gravitazionale del buco nero, bastò anche per quella di Obatzda per arrivare fino al primo distributore spaziale.
Il pilota dell’astronave, che era una bellissima donna, dopo aver portato a destinazione i coloni, andò su Protobio, sposò Obatzda, che avendo trovato compagnia non rimpianse certo di non poter più andare in giro gratis per l’Universo”.