domenica 25 dicembre 2011

L'ULTIMO SORRISO


Il Papa stava spegnendosi.
Il suo respiro era lento e pesante. Nonostante un velo di sofferenza il suo sguardo era dolce. Non aveva più la forza di parlare, ma i suoi occhi dicevano ancora molte cose. Raccontavano di una vita intensa e di una speranza incrollabile. Intanto una preghiera incessante saliva al cielo da tutta la Chiesa e non solo. In tutto il mondo uomini di ogni credo, che amavano e ammiravano il Papa pregavano per lui i loro dei e seguivano con apprensione e tristezza le notizie sulla sua malattia.
Solo il giovane prete accanto al suo letto non pregava. Aveva pregato anche lui e tanto, nelle settimane precedenti, quando il Papa aveva sofferto molto e aveva pregato negli ultimi giorni per ringraziare il Signore per il diminuire del dolore, rassegnato al parallelo declino, col dolore, della forza vitale del Papa.
Ora però non pregava più.
Non pregava per il Papa, perché lo sapeva Santo ed era persino contento pensando alla gioia che avrebbe avuto il Papa nel veder Dio e questo pensiero era quasi più forte, della tristezza di perdere la sua compagnia.
Non pregava per sé stesso, perché quegli anni accanto al Papa erano stati anni di grazia che lo avevano fatto crescere e fortificare spiritualmente, gli bastava Cristo per non essere mai solo.
Non pregava per la Chiesa, che era più che mai nelle mani di Dio e più che mai santa, grazie anche all’opera del Papa.
Non pregava soprattutto perché era totalmente impegnato a guardare il Papa. Erano le ultime ore in cui poteva farlo. Lo guardava con l’amore di un figlio e di un fratello e cercava nei suoi sguardi stanchi gli ultimi insegnamenti.
Guardava gli occhi neri e tondi. La mascella forte e larga. La fronte spaziosa. I folti riccioli bianchi. Le guance asciutte. Il naso corto e largo. Le labbra carnose. I denti grandi e bianchissimi. Guardava la pelle del colore del mogano. Guardava attraverso le coperte la sua figura lunga e magra e le sue braccia sottili e le mani nodose appoggiate fuori lunghi i fianchi.
Accanto al giovane attendente del Papa, su un’altra sedia, posta contro il muro a un metro e mezzo dal letto sedeva un Cardinale.
Delle 5 lauree che aveva era quella in medicina che l’aveva portato a fianco del Papa, come suo medico, all’insorgere della malattia.
Il Cardinale ormai era conscio che come medico non poteva fare più nulla, ripensava invece alle loro splendide conversazioni.
Le parole del Papa erano sempre così semplice, così chiare, dirette. Vi si leggeva chiaramente la sua vita, perché il Papa non aveva conformato la vita ai suoi ideali, ma viceversa con la sua vita al servizio dell’amore, della verità e della ragione aveva costruito un pensiero di una lucidità, coerenza e completezza che di rado altri grandi uomini, filosofi, teologi o politologi avevano raggiunto.
L’opera del Papa era stata enorme. Aveva portato con la sua sapiente mediazione la pace nelle ultime zone tormentate del mondo e aveva guidato le istituzioni internazionali ad una vera democrazia mondiale, che pian piano stava irradiandosi verso il basso, verso gli ultimi regimi liberticidi ancora esistenti.
La Chiesa poi era uscita trasfigurata dal Concilio Vaticano Terzo che il Papa aveva voluto e portato a compimento.
Era tornata unita, poiché quasi tutte le Chiese Protestanti e Ortodosse si erano riunite con la Chiesa Cattolica, anche se alcune diocesi tradizionaliste, soprattutto in Europa, avevano dato vita ad un nuovo scisma. In realtà ciò che più aveva spinto verso questa divisione era stato l’attaccamento ai beni materiali, di cui la Chiesa Cattolica si era del tutto spogliata. In effetti gli scismatici avevano mantenuto le loro ricchezze,ma avevano perso rapidamente quasi tutti i fedeli e con grande disappunto con essi anche una buona fetta di entrate. Il Vaticano era divenuto un nuovo modello di democrazia e nonostante il sovra popolamento era divenuto uno dei luoghi più piacevoli del pianeta. Ma più rilevanti ancora erano state le modifiche nella struttura ecclesiastica e nella dottrina. Il celibato dei preti era divenuto sconsigliato e si caldeggiava invece o il matrimonio o la vita monastica. Le donne erano state ammesse al sacerdozio ed era stato istituito anche il sacerdozio temporaneo. Così ad esempio molte donne lasciavano il sacerdozio per crescere i figli e poi lo riprendevano quando questi erano grandi. Erano stati aboliti tutti i titoli tranne quello di Vescovo, che però veniva assunto a rotazione, e quello di Cardinale, che pur restando a vita era divenuto elettivo. Il diritto canonico era stato abolito, in quanto l’unica legge valida era stata dichiarata quella della carità, alla luce della quale il Vangelo era sufficiente a dirimere ogni questione. La confessione era sta abolita in quanto il perdono di Dio è garantito a tutti, anche senza intercessione umana. Tutti i dogmi erano stati aboliti, poiché chi crede in Gesù Cristo Dio e nel suo amore e si sforza sinceramente di vivere nella sequela di Cristo è nella comunione dei Santi.
Da queste e da molte altre innovazioni era nata una grande conversione in tutti i cristiani e il mondo, grazie a loro, stava finalmente cambiando veramente.
Il Cardinale ripensava all’emozione del Papa mentre spiegava:
Nell’Eucarestia non viene trasformato il pane, né chi lo mangia, ma l’insieme dei fedeli che partecipa al sacrificio di Cristo e ne diviene il corpo, mistico, ma anche fisico, benché collettivo. Questo è un prodigio ben più grande. E se lo capissimo non potremmo che amarci l’un altro come egli ci ama.”
Improvvisamente il Papa ebbe un rantolo, aprì gli occhi, sorrise e il suo respiro si fermò.
Subito capirono che era morto e il giovane prete esclamò: ha visto Dio.
Il Cardinale constatò il decesso e chiusi gli occhi al Pontefice uscì per dare l’annuncio al mondo. Il giovane prete guardò ancora un attimo il Papa gli strinse le mani, gli accarezzò il volto, gli disse addio. Poi sorridendogli per l’ultima volta lasciò solo il guscio ormai vuoto in cui era stato il suo Papa.
Anche il Papa guardava con occhi nuovi tutta la scena insieme a Dio e sorrideva al giovane prete, al cardinale medico e a sua moglie che dopo pochi giorni gli sarebbe succeduta, come prima donna, alla guida della Chiesa.

domenica 18 dicembre 2011

LA MINIERA DELLA RICCHEZZA


Un uomo seduto per terra, con la schiena appoggiata ad un albero, piangeva piano e grosse lacrime calde gli rigavano il viso. Quell’uomo si chiamava Pog.
Gänfihel, un elfo dei boschi, che passava di lì, ebbe compassione di lui e si fermò. “Perché piangi così?” gli chiese. “Perché sono povero, ho sempre avuto sfortuna nella vita e dopo aver faticato per nulla, ora conduco un’esistenza misera.” “Non mi pari affamato, né infreddolito, né malato” ribatté l’elfo. “No certo – rispose l’uomo – questa valle è così ricca di frutti e di erbe che basta girare per i boschi e per i prati per avere di che vivere, il clima è mite e io so cucirmi i vestiti. Il problema è che tutti in questa valle hanno una bella casa di legno e almeno un carro trainato da cavalli, mentre io vivo in una capanna di paglia e giro sempre a piedi”. “Mi rendo conto – rispose Gänfihel – che voi uomini avete di queste strane esigenze e sento che sei una persona buona e sincera e anche volonterosa, perciò ti voglio aiutare. Ti svelerò un segreto. Se scaverai proprio qui di fronte nel fianco della montagna, troverai una grande ricchezza. Attento però, non sarà un’impresa facile, ma dovrai scavare e scavare e scavare ancora e ancora. Solo dopo un enorme lavoro e un’immane fatica, se avrai la costanza di continuare a scavare, potrai avere la ricchezza di cui ti parlo.
Pog tutto contento ringraziò Gänfihel, corse a prendere pala e piccone e iniziò subito a scavare. Scavò tutto il giorno e il giorno seguente e quello dopo ancora. Poi iniziò a scavare anche di notte, perché la miniera era diventata così profonda che non giungeva più nel suo fondo la luce del sole. Pog si fermava a dormire solo quando era stremato e usciva dalla miniera solo per raccogliere il cibo che poi portava nella miniera per sostentarsi durante gli scavi.
Passarono le settimane, settimane di grande lavoro. E un giorno trovò una vena di ferro. Tutto contento l’uomo pensò al bel carro e agli splendidi cavalli, che avrebbe potuto acquistare vendendo il ferro. Dopo un po’ però gli tornarono in mente le parole dell’elfo. Aveva parlato di “una grande ricchezza” e aveva anche raccomandato di “continuare a scavare”. Forse non era proprio quella la grande ricchezza di cui aveva parlato l‘elfo. E Pog riprese a scavare.
La roccia ferrosa era più dura e scavare diventò ancora più faticoso, l’uomo procedeva più lentamente, ma continuava a scavare. Dovette costruire una grande gerla per portare le provviste di acqua e di cibo, perché la miniera era ormai molto profonda e il viaggio verso l’esterno era lungo.
Passarono i mesi e un giorno Pog trovò una vena di rame. Tutto contento pensò alla lussuosa casa di legno che avrebbe potuto comprare con i proventi della vendita del rame. Ma poi, passato il primo entusiasmo, di nuovo si chiese se quella vena di rame fosse una ricchezza così grande come aveva promesso Gänfihel. E così riprese a scavare.
Si spinse tanto profondamente nel cuore della montagna che dovette costruire un carretto per riuscire a trasportare tutte le scorte che gli servivano per vivere nella miniera per periodi sempre più lunghi.
Passarono le stagioni e un giorno Pog trovò una vena d’argento. L’argento è un metallo prezioso e l’uomo vide la sua casa più grande e ricca e circondata da un bellissimo giardino con mille alberi da frutto e fiori esotici. Ma ormai la fatica sopportata era tale che non gli sembrò più sufficiente nemmeno questo premio. La ricchezza non gli apparve ancora abbastanza grande e proseguì.
Un giorno, mentre nelle ormai sempre più rare uscite all’aperto raccoglieva cibo nel bosco, vide un asinello caduto in una fossa. Lo liberò e lo curò. L’asinello così divenne il suo compagno e tirava per lui il carretto con le provviste.
Passarono gli anni, ma l’uomo non si avviliva né si stancava e continuava a scavare nella montagna alla ricerca della grande ricchezza. E un giorno trovò una vena d’oro. Con un metallo così prezioso, avrebbe potuto comprare intere campagne e assumere dei braccianti che lavorassero per lui e servitori per la sua casi e autisti per le sue carrozze e avrebbe potuto passare il resto della sua vita riposando negli agi.
Ma così a lungo e così tanto aveva faticato, che pensò il resto della sua vita non gli sarebbe bastato per riposare. A cos’erano dunque serviti tutti quegli anni di fatiche e di sacrifici? Gli elfi sono saggi e sinceri: no non poteva essere neppure quella la grande ricchezza promessa da Gänfihel. E Pog riprese a scavare con ancora maggior vigore.
L’asino aveva imparato a raccogliere il cibo e a riempire il carretto, così l’uomo smise del tutto di uscire dalla miniera.
Passarono i decenni. E Pog scavava e scavava. E un giorno la roccia si fece tenera e quindi all’improvviso franò davanti a lui. E Pog si ritrovò all’aperto. Aveva infatti perforato l’intera montagna ed era giunto sul versante opposto.
L’aria era profumata e i pendii coperti di larici e di abeti, mille ruscelli scendevano spumeggianti nella valle e i canti degli uccelli si rincorrevano con il vento nel cielo azzurro. Dopo tanti anni al buio a scavare nella roccia tutto apparve meraviglioso a Pog: i fiori e le montagne, gli insetti e le nuvole, il sole e l’erba.
Commosso l’uomo pensò: questa è la grande ricchezza promessa da Gänfihel, cosa può esserci di più meraviglioso di tutto ciò? Insieme al suo asino Pog scese nella valle.
Lì vide un uomo che sprangava la sua casa mentre la moglie e i figli l’aspettavano già sul carro con tutti i loro averi. “Come mai partite, lasciando una valle così bella?” chiese sorpreso Pog. E il giovane gli rispose: “La valle è bella, è vero e il legno è buono, ma oltre al legno e ai funghi non v’è altro in questa valle e i pascoli sono magri, invece abbiamo saputo che al di là della montagna esiste una valle in cui abbondano gli alberi da frutto e i cespugli di bacche mangerecce, le erbe e i tuberi commestibili, patate e tartufi, asparagi e radicchi ed erba pregiata per il bestiame. Così andiamo lì a cercare la fortuna. Ma voi sembrate così stanco. Vi prego prima di proseguire il vostro viaggio, che deve essere ben lungo e spossante, fermatevi nella nostra casa a riposare se come dite vi piace questa valle”.
Il giovane partì e Pog molto confuso e stupito della generosità del giovane si stabilì nella sua casa. Guardandosi allo specchio si accorse di essere ormai vecchio. Che strano – pensò - ho passato la vita a faticare per raggiungere una ricchezza che avevo a portata di mano eppure non mi dispiace: in fondo dalla disperazione in cui ero prima di iniziare a scavare la miniera ho poi trascorso la mia vita sempre con la speranza e l’entusiasmo come compagni.
Così finalmente soddisfatto con il suo asino tornò nella miniera, riempì il carro di oro e tornò nella sua valle. Ritrovò il giovane con la sua famiglia, divise con loro la sua ricchezza e visse insieme a loro una lunga serena e agiata vecchiaia e Gänfihel di tanto in tanto passava a trovarlo come un vecchio amico

domenica 11 dicembre 2011

L’ULTIMA MAGIA


In una immensa pianura, sulle sponde di un grande fiume sorgeva un tranquillo villaggio. Poco fuori dal villaggio in un boschetto di tigli e di querce viveva un vecchio mago scontroso.
Tutti al villaggio lo conoscevano come il mago Balthus, ma in realtà pochi credevano fosse veramente un mago, perché, a memoria d’uomo, nessuno ricordava una sua magia. Di tanto in tanto però dei viaggiatori giungevano da paesi lontani chiedendo di lui e raccontavano che, moltissimi anni prima, nei loro paesi, il mago Balthus aveva operato grandi prodigi.
Il vecchio mago dal canto suo rimandava sempre via in malo modo tali viaggiatori e si teneva alla larga anche dagli abitanti del villaggio.
Solo i bambini andavano spesso e volentieri a trovarlo. Infatti anche se era un po’ burbero, il mago giocava pazientemente con loro e aveva mille cose strane, bizzarre e divertenti, che facevano la felicità dei bambini.
Su tutta la grande pianura venne un anno sfortunato che portò con sé una grande siccità. Le piogge d’autunno infatti non si videro, né la neve d’inverno e a primavera ancora il cielo rimase senza una nube. Così quando giunse l’estate il grande fiume era completamente asciutto, le riserve d’acqua nei campi erano esaurite, le piante rinsecchivano e gli animali erano stremati. Gli uomini non potevano nemmeno lavarsi, anzi già cominciavano a soffrire essi stessi la sete perché non v’era più nulla da bere e poco ormai anche da mangiare.
Tutti erano disperati e non sapendo più cosa fare andarono dal mago Balthus a supplicarlo di aiutarli.
Il mago Balthus da principio cercò di mandarli via, ma quando i bimbi vennero piangendo a tirarlo per le brache non seppe resistere. E accettò di parlare con la gente del villaggio.
Spiegò loro di aver giurato di non esercitare più la magia perché in gioventù ad ogni suo sortilegio, fatto per il bene delle persone, erano seguite direttamente o indirettamente delle sventure ancora più grandi che egli non aveva saputo controbattere con le sue arti magiche.
La gente del villaggio lo supplicò di nuovo:
Se tu non fai nulla, noi moriremo tutti di sete, cosa può succedere di peggio? Se ci farai sopravvivere alla siccità non ti faremo nessuna colpa di tutto ciò che potrà accadere dopo e risolveremo qualsiasi problema con le nostre sole forze.”
Così il mago ruppe il suo giuramento e scagliando formule magiche contro il cielo chiamò a raccolta le nubi. Ben presto cominciò a piovere copiosamente.
La gente fece una grande festa, ma Balthus non ne volle sapere e si rintanò nel suo rifugio.
Dopo una settimana di pioggia qualcuno incominciò ad avere qualche dubbio. Dopo due settimane, il villaggio era già allagato e la corrente sempre più forte minacciava di travolgere case, bestie e persone.
La gente nonostante le promesse fatte tornò a rivolgersi al mago. Balthus, dopo averli sgridati per bene, prese una bottiglia e vi buttò dentro alcuni bocconi di cibo: pane, frutta e verdura, semi e fieno. Poi riunì tutti gli abitanti del villaggio e i loro animali al centro della sua casa, sopra un grande tappeto e con una magia li rimpicciolì e li ficcò dentro la bottiglia. Quindi si trasformò in un’anatra e, presa la bottiglia nel becco, si mise a svolazzare e a nuotare sopra il villaggio ormai completamento sommerso.
Dopo un’altra settimana di pioggia il cielo si riaprì, il sole tornò a splendere e le acque a ritirarsi.
Il villaggio era tutto infangato, ma ancora incredibilmente intatto e anche gli alberi erano ancora al loro posto, anche se un po’ patiti.
L’anatra-mago si levò in volo e fece cadere la bottiglia, che arrivata a terra si ruppe e tutti coloro che vi erano dentro ripresero le dimensioni normali.
Balthus, sempre in forma di anatra, starnazzò forte e volò via e nessuno ne seppe più nulla.

domenica 4 dicembre 2011

IL GRANDE OCCHIO


Un mattino di tanti anni fa comparve nel cielo un grande occhio.
Il primo ad accorgersene fu il panettiere, che si prese un bello spavento, quando, come era solito fare, tra un’infornata e l’altra, guardò dalla finestrella della sua bottega per controllare il cielo e capire che tempo avrebbe fatto quel giorno e invece del cielo vide quell’enorme occhio che lo fissava. Poi coraggiosamente si sporse dalla finestra e vide che l’occhio se ne stava lassù, in alto nel cielo.
Subito dopo lo videro i mungitori uscendo dalle stalle dopo aver munto, abbeverato, foraggiato le vacche e dopo aver ripulito le stalle, lo vide poi il postino che inforcava la sua bicicletta per il giro della posta e l’oste che apriva la sua fumosa locanda per i primi caffè.
Le lavandaie e i garzoni, i bambini che andavano a scuola o all’asilo, ben presto tutta la valle se ne stava sbigottita con il naso per aria a fissare quell’enorme occhio che guardava giù in basso.
Poi pian piano gli abitanti della valle cominciarono a guardarsi tra loro e a domandarsi cosa significasse quell’occhio, perché fosse comparso così all’improvviso, cosa guardasse e se presagisse fortune o sciagure.
E i pareri e le reazione della gente si moltiplicarono velocemente. Così dalla chiesa cominciarono ad uscire processioni di supplicanti che annunciavano che l’occhio di Dio era puntato su di loro a causa dei loro peccati ed era necessario convertirsi e agire rettamente per evitare il castigo divino. Ma dall’altra porta della chiesa uscivano altre processioni che ringraziavano Dio per aver volto il proprio occhio sulla valle in segno di benevolenza e annunciavano la fine di ogni male e la necessità di lodare Dio per tale privilegio.
Gruppi di persone pensando che l’occhio fosse giunto a spiarli da un lontano pianeta per conto di un popolo di extraterrestri pronti ad invadere la terra cominciarono ad armarsi e ad esercitarsi nel combattimento e a sfilare in minacciose parate per intimorire l’occhio e gli invasori spaziali, ma altri invece organizzavano feste di benvenuto ai visitatori delle stelle che pensavano sarebbe scesi in amicizia portando un enorme progresso se l’occhio avesse riportato loro le intenzioni pacifiche dei terrestri.
I filosofi costruirono dotte teorie ontologiche, gnoseologiche ed epistemologiche sull’occhio, mentre gli scienziati analizzavano ogni cosa per verificare eventuali influssi dell’occhio sul clima, sulle piante, sugli animali e sulle persone e i più arditi provarono con specchi e fumi a infastidire l’occhio per vederne le reazioni, ma senza ottenere alcun risultato.
Alcuni si chiesero se l’occhio apparisse solo nella loro valle o anche altrove e andarono a verificare, scoprendo che solo nella loro valle l’occhio era visibile. Così pensarono di sfruttare l’occhio per fini turistici e pensavano già di ribattezzare la valle: “Valle del grande occhio”. Ma quando andarono nelle altri valli ad invitare la gente ad andare ad ammirare il grande occhio nel cielo, tutti li presero per pazzi o per dei truffatori e anche chi mostrò di credere all’esistenza dell’occhio nel cielo, accampò motivi di affari o di salute e se ne restò a casa propria.
Alcuni anche nella valle rifiutavano l’esistenza dell’occhio e dicevano: “E’ solo un miraggio”.
Le mamme cominciarono a dire ai bambini: “Stai attento a fare il bravo, perché l’occhio ti vede” e la gente dava la colpa o il merito all’occhio di ogni cosa insolita o anche no che accadeva: “Grazie all’occhio il raccolto è stato buono” o “Che tempaccio ci mandi maledetto occhio”.
Tutto questo fermento però pian piano si spense, tutti si abituarono all’occhio e incominciarono a guardarlo di rado, distrattamente. Lo guardavano meno ancora delle nuvole, perché, pur essendo diventato normale come quelle, però a differenza delle nubi non cambiava mai e tutte le cose nella valle procedevano come al solito.
Passarono gli anni e una bimbetta, nata già dopo l’apparizione del grande occhio, ne restò affascinata. Lo guardava spesso e gli parlottava strizzandogli l’occhio, finché l’occhio iniziò a rispondergli con delle enormi strizzate, ma solo quando nessun altro lo guardava.
La bimba crebbe, divenne una bellissima ragazza che civettava con l’occhio sbattendo veloce le palpebre e quello rispondeva roteando la pupilla e facendo l’occhiolino.
Un giorno la ragazza conobbe un viaggiatore, se ne innamorò e partì con lui verso paesi lontani. L’occhio seguì la ragazza sparendo per sempre dalla valle.
La gente si accorse che l’occhio era sparito, ma nessuno vi fece molto caso. “Com’è venuto se n’è andato”, “Non ci ha portato nulla né di buono né di male e nulla né di buono né di male ci lascerà andandosene” si dissero. Così come nessuno aveva mai capito perché era venuto, nessuno capì mai perché se ne fosse andato.