domenica 30 dicembre 2012

FRENESIA

Annuso nell’aria
l’odore umido
della follia
baloccandomi
con l’amore
e il sorriso astuto
del mio vicino
mentre macino
ineluttabile
frenetiche screziature
e vertiginosi voti.

domenica 23 dicembre 2012

METAMORFOSI


Quando Kuti si svegliò quel mattino, dapprima non si accorse di nulla. L'aria era fresca e profumata. I suoni familiari del bosco facevano da sottofondo al rumore della macina che preparava la farina di koga. Poi però sentì qualcosa. Si toccò. Il cuore sobbalzò, si chiuse la gola. Corse a guardarsi.
Ecco era arrivato. Il momento a cui si stava preparando fin da quando poteva ricordare qualcosa era ormai prossimo. Un pembe stava spuntando sulla fronte.
Kuti sapeva che entro un paio di giorni il pembe sarebbe uscito. Poi nel giro di 3 o 4 settimane ne sarebbero spuntati altri 3.
Sapeva che tra il momento della fuoriuscita del primo pembe e quello della fuoriuscita dell'ultimo doveva entrare nell'Amsha.
Sapeva che se non lo avesse fatto sarebbe iniziato il processo di retrocrescita: il ringiovanimento allo stesso ritmo della crescita vissuta fino ad allora. Avrebbe perso via via tutte le sue capacità fisiche e mentali fino a ridursi ad un feto. A quel punto il feto sarebbe stato deposto in una incubatrice: Lì sarebbe rimasto a ridursi fino a scomparire del tutto.
Kuti sapeva anche che non tutti quelli che entravano nell'Amsha ne uscivano. Nessuno sapeva che cosa ne era di loro.
Sapeva che l'Amsha risultava assolutamente diverso per ciascuno e in questo stava la difficoltà nel prepararsi ad affrontarlo. Era impossibile prevedere cosa avrebbe richiesto l'Amsha ad ognuno.
Per alcuni risultava molto semplice attraversarlo, per altri un rompicapo. Ad alcuni si presentava come uno spazio immateriale da attraversare solo con il pensiero, ad altri richiedeva sforzi fisici enormi. Nessuno sapeva se la mutevolezza dell'Amsha dipendesse dall'Amsha stesso o fosse determinata, involontariamente, da chi vi entrava.
Kuti conosceva però la propria determinazione ad entrare nell'Amsha e ad uscirvi.
La vita che l'aspettava fuori dall'Amsha durava 4 – 5 volte di più del periodo di retrocrescita, ma non era tanto questo. Kuti voleva diventare un adulto o un'adulta, giacchè come tutti i giovani della sua specie Kuti era assessuato, e fare di coneguenza tutte le esperienze che solo gli adulti potevano fare.
Kuti non voleva aspettare a lungo. Stava bene e il suo fisico non poteva certo rafforzarsi ulteriormente nel giro di pochi giorni. Aveva solo bisogno di guardarsi dentro per trovare la serenità insieme alla determinazione che già sapeva di avere.
Così appena spuntato il secondo pembe salutò i familiari e gli amici e senza esitazioni entrò.
Era buio. Allungò le braccia tutt'intorno senza riuscire a toccare nulla. Fece un respiro profondo e si mosse molto lentamente, facendo strisciare i piedi in avanti uno dopo l'altro con un braccio in avanti alla ricerca di ostacoli. Incominciò a vedere una leggera luminescenza davanti a sé. La studiò un attimo poi si incamminò sempre con circospezione, ma senza più strascicare i piedi. Nemmeno il braccio serviva più. Dopo un po' incominciò a vedere delle pareti. Era in una specie di grossa caverna sulle cui pareti vide aprirsi cunicoli innumerevoli che si spostavano in continuazione muovendosi in modo disordinato. L'ingresso era sparito, non c'era modo di tornare indietro. Non c'era modo di uscire se non attraverso i cunicoli. Non c'era differenza tra l'uno e l'altro, anche perché non solo la loro posizione ma anche le loro forme variavano in continuazione.
Doveva affidarsi al caso e tentare la sorte? Il dilemma non era da poco. Non sapeva nemmeno se quell'ambiente fosse stabile o se sarebbe poi mutato del tutto, né sapeva che autonomia si poteva avere in quel posto, senza cibo, né bevanda. La paura di fare la mossa sbagliata rischiava di risultare paralizzante, ma nemmeno agire a caso poteva essere una scelta conveniente in un momento così importante. Cosa fare? Chi poteva correre in suo aiuto? Questa era una domanda interessante. Nell'Amsha niente poteva essere dato per scontato, nemmeno di essere soli e senza aiuto. Kuti provò a chiedere:
- C'è qualcuno qui che può aiutarmi, c'è qualcuno che vuole aiutarmi?
Riprovò:
- Se ci sei ti prego, rispondimi, aiutami!
Un leggero bagliore fece tremare l'aria davanti a Kuti e si materializzò come per magia una fata. Una piccola fata come quelle che aveva visto nei suoi libri d'infanzia. Esile e luminosa con 2 alucce trasparenti che battevano rapidissime.
Kuti era dubbioso: esisteva veramente o era solo un'illusione, un inganno dell'Amsha per catturarlo per sempre?
- Mi guiderai fuori? - Chiese.
- Lo farò. - Rispose la fata.
La voce era dolce e l'espressione sorridente.
- Perché?
Perché me l'hai chiesto. E poi non ho altro da fare. Sarà bello stare per un po' in tua compagnia.
Sei simpatica. Io sono Kuti. Tu come ti chiami?
Mi chiamo Duara. Andiamo?
Kuti la seguì verso un cunicolo, questo si aprì, era molto luminoso, poi la luce crebbe ancora, divenne abbagliante, accecante. Allungò le mani e disse alla fata:
aiutami ancora, non riesco più a vederti, dammi la mano.
Sentì la stretta di una piccola mano calda. Si incamminò stringendola delicatamente. Camminava con sicurezza concentrandosi solo sulla mano che tirava quasi impercettibilmente. La luce progressivamente si abbassò. C'era una fitta nebbia.
Kuti sentì un torpore avvolgente, una sensazione di calore, continuava a muoversi, ma con difficoltà. Non era però una difficoltà fastidiosa, ma come un rallentamento naturale a cui si adeguava tranquillamente. Anche la sua mente si placava. I pensieri evaporavano. Kuti rimase sospeso in uno stato indescrivibile. Ad un certo punto si ridestò e si accorse di non sentire più la mano della fata. Fu preso dal terrore:
ti ho persa, dove sei Duara? cosa succede? Urlò.
Duara rispose con voce placida:
tranquilla mia cara, è già successo tutto stai per uscire
Mia cara! Dunque era una femmina.
Fece qualche passo in avanti.
La nebbia d'improvvisò si diradò. E vide dei volti familiari che la fissavano. Sentì le loro urla di gioia e fu travolta dagli abbracci.
Era curiosa di vedersi. Ma dagli sguardi dei maschi che la guardavano capì subito di essere diventata una kimanzi. Dunque non aveva che da scegliere, chi prendersi come compagno.
Era un ottimo inizio.

domenica 16 dicembre 2012

CINQUE PAIA DI SCARPE DI FERRO


Un giorno in un villaggio ai confini del regno in casa del fabbro nacque un bambino bello e vispo. Qualche anno dopo nello stesso villaggio in casa del calzolaio nacque una bimba bella e vispa. Entrambi crebbero ed il ragazzo divenne un giovane prestante e di rara intelligenza e furbizia, mente la bimba fiorì in una ragazza intelligente, ma soprattutto incredibilmente bella. Lei stessa guardando la sua immagine riflessa nel bacile, nel lavatoio, nelle fontane, nel lago e in ogni altro specchio naturale non poteva che constatare di essere splendidamente affascinante. Ascoltando i discorsi delle comari finì col persuadersi che, data la sua bellezza, solo un principe era degno di averla in sposa. Andò dunque dal capo villaggio ad informarsi se e come la cosa fosse possibile.
“Oh la cosa è ben regolamentata dalla legge” le rispose e consultando il grosso libro delle leggi del regno le spiegò che le ragazze che volevano ambire alla mano del principe dovevano procurarsi 5 paia di scarpe di ferro e mettersi in cammino con il primo paio ai piedi verso la prima sede ducale e lì seguire le istruzioni per il lungo viaggio attraverso il quale, consumando le 5 paia di scarpe di ferro e superando 5 prove, sarebbe giunta al cospetto del principe che avrebbe deciso se prenderla in moglie.
La ragazza non si spaventò, ma corse subito dal padre chiedendogli di confezionarle le scarpe. Ma il padre rispose: “Figlia mia, sarei ben lieto che tu potessi diventare una principessa, ma io lavoro il cuoio, non il ferro, devi andare dal fabbro e chiedere a lui di prepararti simile scarpe”. La ragazza corse dal fabbro, che acconsentì di prepararle le scarpe e le chiese solo in cambio di ricordarsi del suo villaggio natale quando sarebbe stata alla reggia, perché il terreno era generoso e la gente era laboriosa, ma le tasse reali erano così esose che portavano via quasi tutto lasciando gli abitanti sulla soglia dell'indigenza. Del resto i guerrieri del regno vicino spesso sconfinavano e senza l'aiuto delle truppe reali non c'era modo di difendersi. Il fabbro quindi istruì il figlio su come costruire le scarpe e lasciò a lui il lavoro. Il ragazzo mise moltissimo tempo a misurare i piedi della ragazza e a provare vari stampi. La ragazza si rese conto che il giovane fabbro la stava tirando un po' per le lunghe, ma pensando a quanta strada doveva fare giudicò che non sarebbe stato male avere delle scarpe che le calzavano bene, inoltre il giovane era simpatico ed era piacevole chiacchierare con lui e nemmeno le dispiaceva fermarsi ancora un po' a casa prima di abbandonarla per sempre. Infine dopo qualche mese le scarpe furono pronte. Nel consegnarle il ragazzo le diede anche un minuscolo sacchettino di sabbia rossa pregandola di portarlo con sé come porta fortuna. Ora bisogna sapere che il giovane per aiutare la ragazza di cui si era segretamente innamorato, come del resto tutti i giovani del paese, le aveva messo nel quinto paio di scarpe della sabbia rossa perché le suole si consumassero più velocemente.
Con una veste lunga ed un cappuccio che le copriva i capelli e le nascondeva il volto ed una bisaccia in spalla con il primo paio di scarpe ai piedi, salutò i genitori e partì.
La ragazza si incamminò, uscì dal villaggio, dalla marca e sempre camminando e facendo vari lavori nei villaggi che attraversava per guadagnarsi un po' di vitto e di alloggio si avviò in direzione del capoluogo del primo ducato.
Lì si presentò ai funzionari, che, dopo aver apprezzato la sua bellezza, consultarono i loro regolamenti, controllarono i 5 paia di scarpe, le raccomandarono di tenere con sé i resti di ogni paio di cui avesse consumato le suole e poi le diedero una mappa con il tracciato del suo viaggio fino alla capitale del regno.
La ragazza partì e attraversò il ducato, poi una contea e un'altra ancora. Giunse ai piedi del monte Santo sulla cui cime si ergeva un santuario che la ragazza doveva raggiungere. Una lunghissima scalinata si inerpicava a perdita d'occhio sulla ripida montagna. La ragazza era ormai allenata a camminare, ma quella scalinata era veramente ripida e sembrava senza fine. Quando però si accorse che il primo paio di scarpe si era ormai consumato scoprì nuove energie che la fecero giungere in cima quasi senza fatica. Lì ebbe dai sacerdoti la reliquia che nelle carte avute dai funzionari le veniva richiesto di portare nella capitale.
Scesa dal monte camminò ancora per tantissimo tempo fino a giungere sulle sponde di un grande lago. Il secondo paio di scarpe era ormai consumato. Si presentò all'ufficio dei funzionari che le indicarono un'isolotto, Doveva raggiungerlo a nuoto, raccogliere un raro fiore che solo lì fioriva e ritornare a prendere il suo sacco e le sue scarpe prima di proseguire il viaggio. L'acqua era molto fredda e la corrente era forte, ma la ragazza riuscì a portare a termine anche questa prova.
Camminò,camminò e camminò ancora. Il terzo paio di scarpe si consumò e giunse nel capoluogo indicato dalla mappa. Lì i funzionari reali la condussero sul bordo di una palude e le dissero di attraversarla. Dall'altra parte avrebbe trovato degli altri funzionari ad attenderla.
La ragazza non era affatto contenta perché per camminare nella palude dovette togliersi le scarpe, così quel cammino non risultava utile per consumarle. Nella palude incontrò serpenti e sanguisughe, zanzare e pantegane, tratti in cui affondava nel fango fino alle ginocchia e tratti di vegetazione così fitta che dovette farsi largo menando fendenti con le scarpe di ferro.
Dormiva tra i rovi per non essere attaccata dalle fiere notturne e con bastoni appuntiti catturava i pesci che mangiava crudi, perché in quell'ambiente non c'era nessuna possibilità di accendere un fuoco, giacché tutto era intriso d'acqua, Alla fine arrivò al cospetto dei funzionari sull'altro lato dell'immensa palude.
Quelli le consegnarono un pesantissimo zaino e la invitarono a proseguire dopo averle spiegato come ricavare acqua dai cactus. Infatti dopo non molti giorni la steppa si tramutò in un vero e proprio deserto sassoso. Per fortuna non era un deserto caldo, ma attraversarlo con quell'enorme peso sulla schiena e avendo come cibo e come bevanda solo il cuore dei cactus fu un'impresa veramente spossante.
Ma alla fine anche quella prova giunse alla fine. Il lato positivo era che le scarpe si erano consumate più velocemente del solito.
Giunta alla città segnata sulla sua mappa si presentò ai funzionari locali.
Questi la portarono dal duca che l'ospitò nel suo palazzo offrendole sontuosi banchetti e facendola dormire in un letto morbidissimo. Fece bagni profumati e passeggiò in giardini incantevoli. Tutta la servitù del duca la seguiva e non le faceva mancare nulla. Si riposò così per 5 giorni. Poi dovette posare per un dipinto che fu subito inviato alla corte.
Infine fu sottoposta ad un'accurata visita medica e fu invitata a proseguire il viaggio.
Dopo 7 giorni di cammino il 4 paio di scarpe finì di consumarsi rimanendo come i precedenti senza suole. Tutta allegra la ragazza calzò il 5 paio di scarpe e ripartì. La strada era ancora lunga e attraversava 7 contee e 2 ducati prima di giungere nella capitale. Ma dopo 3 giorni di cammino, la sera nel togliersi le scarpe la ragazza si accorse che la suola era già quasi completamente consumata. Come era possibile? La mattina dopo con il favore della luce del sole, era uno splendido giorno di primavera, esaminò con attenzione le suole. Si accorse allora che il metallo aveva uno strano riflesso rossiccio. Guardò ancora e vide dei minuscoli puntini rossi. Dopo un attimo, prese il sacchettino portafortuna e lo aprì. La sabbia rossa era sottilissima e aveva l'identico colore dei granelli nella scarpa. Capì allora che il giovane fabbro aveva escogitato quel trucco per risparmiarle la fatica dell'ultimo tratto di strada. Grata si rimise in cammino. Dopo altri tre giorni le suole erano completamente consumate e la ragazza mise nella saccoccia il resto delle scarpe insieme agli altri 4 paia e si avviò a piedi nudi. Dopo tutto quel camminare nelle scarpe di ferro i suoi piedi erano divenuti più duri del cuoio. Passati altre 3 giorni vide passare sulla strada una strana pattuglia di cavalieri. Dei 4 cavalieri infatti 2 portavano le divise del regno, ma 2 quelle del regno nemico che ben conosceva perché stava oltre il suo villaggio natale. Dopo un po' vide arrivare molti soldati, davanti c'erano alcuni soldati del regno, ma dietro solo soldati nemici. Poi passò una grande e ricchissima carrozza con le insegne del nemico e poi ancora soldati. Poi arrivarono diversi carri. Sul fondo dell'ultimo carro 2 paggi dondolavano le gambe dal bordo. “Vuoi un passaggio?” gridò uno dei 2. In un lampo la ragazza comprese che un simile corteo poteva andare solo alla capitale e questo le avrebbe risparmiato molti giorni di cammino e dato che le scarpe erano già consumate poteva fare almeno una giornata di viaggio comodamente seduta . Così allungò la mano e si fece issare sul carro. Quando la videro da vicino i paggi restarono estasiati per la bellezza del suo volto.
Erano dei servi del re del regno nemico che andava in visita al re del regno.
Strinsero presto amicizia e le fecero indossare dei vesti da paggio, ma le fasciaronola testa perché non si vedesse il volto e dissero che il loro amico si era scottato con l'acqua bollente. Così la ragazza potè continuare tutto il viaggio con la comitiva reale, aveva infatti pensato che una volta nella capitale avrebbe aspettato fingendosi un paggio per tutto il tempo necessario ad arrivare a piedi e sarebbe così comparsa al momento giusto a corte.
Ma i suoi nuovi amici quando conobbero la sua storia la misero in guardia dalla cattiveria dei nobili e dei regnanti e si domandavano sospettosi perché fosse necessaria tutta quella fatica per poter sposare un principe ad una ragazza così bella che anche per l'imperatore dell'universo, se mai fosse esistito, sarebbe stato una gioia averla in sposa.
Così una volta a corte la ragazza si intrufolò di nascosto nella residenza del principe per poterlo vedere. Se l'avessero scoperta avrebbe detto di essersi persa e con un calcio l'avrebbero rispedita tra i paggi del re straniero.
Ma tutto andò bene. Vide il principe e ne restò molto delusa: era piccolo grasso e antipatico. Lo seguì senza farsi notare fino alla stanza del trono dove ascoltò un dialogo tra lui e i suoi genitori, il re e la regina che gli fece passare completamente la voglia di divenire principessa.
I sovrani spiegarono infatti al figlio, riluttante a sposare una popolana, ma soprattutto una donna, che compiendo quell'incredibile viaggio e superando le prove aveva dimostrato di essere molto forte, che non aveva nulla da temere. La ragazza era bellissima, oltre ogni normale speranza, ed era assolutamente fortissima e sana e di questo sangue buono aveva bisogno la loro casata, infiacchita da matrimonio tra nobili per ritemprarsi e generare una progenie in grado di mantenere il potere.
Per questo esisteva la legge delle 5 paia di scarpe di ferro. Ad ogni modo la popolana non sapeva nulla dell'etichetta e della vita di corte e sarebbe stata facile sottometterla educandola alle buone maniere e all'obbedienza al suo sposo. Infine una volta generati i discendenti il suo ruolo si sarebbe esaurito e se al principe fosse piaciuto avrebbe potuto farla recludere in una torre e prendersi come compagne tutte le cortigiane che voleva.
Il principe se ne andò soddisfatto, mentre la ragazza impietrita restò nel suo nascondiglio.
Ebbe così modo di assistere anche all'incontro tra i 2 sovrani. I 2 re erano chiaramente amici e il re nemico raccontò che il suo popolo era sempre più irrequieto e per non dover diminuire le tasse l'unica soluzione era combattere una bella guerra. Il re della ragazza promise di radunare subito il suo esercito e di attaccarlo, avrebbe distrutto un po' di villaggi e poi si sarebbe ritirato come al solito.
La ragazza era furiosa, andò dai suoi amici paggi e si fece dare un'armatura leggera ed un cavallo veloce e insieme ai 2 amici anch'essi armati e a cavallo, precedette l'esercito del re parlando a tutti i capi dei villaggi sulla strada fino alla frontiera.
Così lungo tutta la lunghissima strada da ogni villaggio squadre di uomini e di giovani si univano come volontari all'esercito. I generali erano perplessi, ma se i villici volevano morire al posto dei loro soldati andava benissimo. Quando arrivarono nel territorio nemico l'esercito era immenso. La ragazza e i suoi amici parlarono ancora ai capi dei villaggi e il popolo si sollevò a appoggiò l'esercito nemico. I generali confusi dagli eventi cedettero alle insistenze delle truppe e marcarono fino alla capitale ribaltando il regno. Poi tornarono in patria e con un esercito composto da molti cittadini dei 2 regni deposero anche i propri regnanti.
La ragazza tornò al suo villaggio sposò il giovane fabbro e insieme andarono nella capitale dove lei fu eletta presidente della nuova repubblica unita mentre il marito e i 2 amici ex paggi divennero ministri del governo. E vissero felici e contenti insieme a tutto il popolo.

domenica 9 dicembre 2012

OMBRAVELOCE


Melcheb il terremoto. Melcheb il ciclone. Melcheb l’inesauribile. Così fin da piccolo avevano chiamato Melcheb, un bimbo dalla rara vivacià ed energia.
Poi un giorno, il nonno, vedendolo giocare a rincorrere la sua ombra aveva esclamato: “Persino la sua ombra fatica a stargli dietro”. E da lì era nato il soprannome che aveva rapidamente sbaragliato tutti gli altri: Ombraveloce.
In realtà l’ombra di Melcheb, come tutte le ombre era molto solidale con il suo padrone e non se ne separava mai. Per quanto Obraveloce tenesse fede al nome, la sua ombra era sempre lì pronta a saltare, tuffarsi, correre e ruzzolare dietro o davanti o magari in fianco a lui.
Melcheb Ombraveloce, sempre con l’argento vivo addosso, crebbe e divenne un ragazzetto forte e sano e pieno di idee.
Allegro, vivace e sempre impegnato in mille attività, Ombraveloce divenne presto molto popolare e di fatto era il capo di tutta la folta schiera di ragazzetti del quartiere. Combinavano certo qualche marachella, ma erano ben voluti da tutti.
Un giorno però Ombraveloce conobbe dei ragazzi più grandi che lo convinsero a provare certe pillole colorate. Mangiata la pillola Melcheb si sentì privo di forze, ma immagine strane e buffissime, musiche incredibili, colori iridescenti, sensazioni bizzarre e fantastiche, mai provate prima, si affollarono nella sua mente.
Melcheb Ombraveloce, provata la droga, ne divenne presto avido. Dopo la prima però, nessuno era più disposto a regalargli altre pillole, ma esigeva soldi, soldi, tanti soldi.
Così Melcheb, abbandonò i vecchi amici e con il favore delle tenebre cominciò a rubare nei magazzini per racimolare i soldi per la droga.
Una notte la sua ombra proiettata da un lampione fu vista da un vigilantes ed Ombraveloce dovette ricorrere a tutta la sua velocità e agilità per eclissarsi nei vicoli, sfuggendo alla cattura.
Maledisse allora la sua ombra, per il rischio che gli aveva fatto correre. E questa senza pensarci su due volte prese e se ne andò. Melcheb rimase di sasso, ma non pensò a rincorrerla, come faceva da bambino: “Meglio così – pensò – senza ombra correrò meno rischi”.
Ma quando il giorno dopo passeggiando per la strada la gente si accorse che il suo corpo non proiettava nessuna ombra, fu scambiato per un fantasma. E tutti fuggirono atterriti.
Così Melcheb si ridusse a vivere da solo, muovendosi solo la notte, dove le tenebre erano più fitte.
Dopo un po’ però si sentì triste, incominciò a stufarsi delle visioni della droga e a rimpiangere le mille attività e i giochi che era solito fare di giorno con i suoi vecchi compagni.
Melcheb tornò allora dove l’ombra l’aveva abbandonato e piangendo la supplicò di tornare. E così fu.
Melcheb ritornò ad essere di nuovo l’Ombraveloce che tutti conoscevano e anzi divenne un paladino dei deboli sempre pronto ad aiutare, a fare del bene e a mettere in guardia i ragazzi dal pericolo della droga.

domenica 2 dicembre 2012

IL FORMICAIO

-->
C’era una volta un brav’uomo che aveva una casetta, una stalla, dei campi e molti amici.
Una sera uno di questi volle fargli uno scherzo e, indossata una maschera, girò quatto quatto dietro la stalla.
L’uomo però lo sentì e gridò: “Chi è là?” L’amico non rispose. Allora l'uomo si acquattò dietro la porta con un bastone in mano e aspettò.
D’improvviso l’amico mascherato entrò urlando nella stalla. L’uomo spaventatissimo sferrò una bastonata e lo colpì in piena testa. L’amico stramazzò a terra. L’uomo lo guardò e vide che l’orribile volto era soltanto una maschera. Tutto preoccupato tolse la maschera e scoprì il suo amico con la testa rotta.
Disperato l’uomo, chiamò aiuto. Purtroppo però l’amico era già morto. Tutti dissero che l’uomo non aveva nessuna colpa per quell’incidente e cercavano di consolarlo. Ma l’uomo non sapeva rassegnarsi.
Abbandonò tutto e fuggì sul monte. Trovò una grotta in cui rifugiarsi e decise di mangiare solo frutta, bacche, erbe e funghi. Giurò a sé stesso che mai più avrebbe ucciso neppure un animale.
Così cominciò a condurre una dura vita da eremita, senza più uccidere né un’animale né una pianta, perché anche di quelle raccoglieva solo alcune parti, soprattutto i frutti, badando bene di non danneggiare né la pianta né i semi.
Un giorno mentre dormiva delle formiche fecero il nido nel suo cappello. L’uomo per non rovinare il formicaio decise di non togliersi più il cappello. E così fece.
L’uomo conduceva la sua misera vita e intanto il formicaio cresceva sulla sua testa. Le formiche andavano e venivano sul suo corpo in lunghe file. L’uomo poi stava ben attento quando camminava di non schiacciare i piccoli insetti che si muovevano tutt’intorno a lui.
Ad un certo punto il formicaio divenne così grosso e pesante che l’uomo cominciò a far fatica a muoversi. Il suo collo e la sua schiena erano piegate dal peso del formicaio, ma l’uomo per tener fede al suo giuramento, non toccò il formicaio.
Infine l’uomo, visto il peso che aveva sulla testa, rinunciò del tutto a muoversi e resto fermò nella sua grotta schiacciato dal formicaio.
Già malnutrito che era in breve tempo cominciò a indebolirsi e stava per morire. Allora le formiche abbandonarono il nido, lo smantellarono e lo ricostruirono per terra nella grotta, poi andarono a raccogliere dei frutti e imboccarono l’uomo finché si riprese.
L’uomo visto ciò che le formiche avevano fatto per lui si sentì amato e perdonato anche per il suo involontario crimine di molti anni prima.
Ringraziò le formiche e ridiscese al paese. Lì fu accolto come un vecchio amico e presto per la sua saggezza e bontà divenne un punto di riferimento per tutti.

domenica 25 novembre 2012

DOPO LA PIOGGIA

Per giorni e ore
e attimi inconfessabili
infinite gocce
hanno rigato il cielo
e il monte e il bosco
hanno rigato i miei occhi
e i sogni di fanciullo
e non vi era gioia
nella pace sospirata.
Contrappasso di luce
e di calore fradicio
acconto della Geenna
infarcito di energia
di pollini assassini
e di follia latente
brivido leggero
tantalica stasi.
Non resta traccia
nel cielo
delle ferite della pioggia
ma nella mia anima.
E l’ululato del vento
come dono inaspettato
e mai ricevuto.

domenica 18 novembre 2012

SEGRETI


Il segreto della vita
è il tempo
il segreto del tempo
è la morte
il segreto della morte
è nella mano di Dio
il segreto di Dio
è nel cuore dell’uomo
il segreto dell’uomo
è nella vita.

Il mio segreto
è in questa sconfitta
che fiorisce
di vento e di pioggia.

domenica 11 novembre 2012

RADICI

Tetanicamente avvinghiato
a questa veglia sterile
percorro le terre ruvide
dove si dilaniano
a un vento gelido
i conati flaccidi
e lo strazio senza amore.

domenica 4 novembre 2012

SCHLAFLOS

S’è insinuata
in me
riempendo di freddo
le mie ossa
di oscurità
il mio cuore
ha imposto il silenzio
nei rumori della strada
ha sparso il ricordo
della pioggia
sui sonni agitati
questa notte
ha chiesto
altro tempo
alla mia vita.

domenica 28 ottobre 2012

SCOLARI

Illude dell’estate
la caciara dei bimbi
assorbita pian piano
dalla voce convulsa
e astiosa della strada
il sole d’ottobre
disegna stigmate ardenti
nel ronzio della stanza
il dolore tasta prudente
ossa e viscere
brividi leggeri
tra ricordi d’incenso
e il sorriso interiore.

domenica 21 ottobre 2012

SCREPOLATURA

Questo dolore morbido
e così totale
m’ha disseccato gli occhi
fino alle più profonde viscere
ha raschiato le parole
dal midollo dell’anima
lasciandomi
il sospiro amaro
dell’imbrunire.

domenica 14 ottobre 2012

NESSUN AIUTO

Sono solo
con il tuo dolore
muto come l’universo
nel suo rumore di fondo
impotente come la morte
sulla pietra inanimata
la tua voce riecheggia
dal labirinto del giorno
il frullare della paura
ai miei occhi freddi
la mente avvizzisce
cercando lacrime
da donarti
ma è secco il mio cuore
come la sabbia
nel deserto della mia voce.

domenica 7 ottobre 2012

LA SOLITA STORIA

“Ecco, anche oggi la solita storia” pensò Ginko mentre la pendola del soggiorno batteva il terzo quarto delle sette e, come di consueto, sua sorella Rosa si attardava in bagno.
I genitori di Ginko e Rosa infatti partivano molto presto per andare al lavoro e così era Rosa ad accompagnare con il suo motorino Ginko a scuola. Le lezioni alla scuola di Rosa però iniziavano mezz’ora dopo rispetto a quelle della scuola di Ginko, così Rosa se la prendeva comoda e finiva per far arrivare Ginko tardi a lezione.
“La solita storia, arriverò in ritardo e le mie maestre, rimprovereranno me, mica Rosa”. Ma in realtà era ormai rassegnato e non sprecò nemmeno il fiato ad implorare sua sorella di sbrigarsi. Finalmente, dopo cinque minuti buoni, Rosa uscì dal bagno e furono pronti a partire. “La solita storia” ripeteva ancora tra sé e sé Ginko sconsolato.
Quando arrivò a scuola si accorse però subito che qualcosa non era proprio come al solito. Per prima cosa, al posto del vecchio olmo c’era un albero più piccolo e molto molto strano, si sarebbe detto “grassottello”: mai visto un albero così! Poi una grossa voliera stava di fianco al portone piena di tantissimi uccelli, per lo più piccoli, ma alcuni anche grossi e tutti diversi tra loro. Gli uccelli sembravano molto agitati e quando Ginko si avvicinò si ammassarono verso di lui schiamazzando. Ginko però andava di corsa e si ripromise di ritornare durante l’intervallo a dare un’occhiata.
Entrò rapidissimo nell’edificio ed ecco un’altra cosa strana: non c’era Pino, il bidello con il suo solito: “Corri, corri Ginko che la campanella è già suonata da due minuti” oppure da tre o quattro o cinque, secondo i comodi di Rosa.
Ginko comunque corse alla porta della sua classe, trasse un profondo respiro, bussò ed entrò. E questa fu la sorpresa più grande. Tre strani bambini lo guardavano imbambolati e due altrettanto strane maestre stavano ferme dietro la cattedra. “Dove sono tutti i miei compagni e le mie maestre, e voi chi siete?” chiese Ginko sbigottito. “Non ci sono più” rispose con voce metallica una delle maestre, ora ci siamo noi, coraggio, siediti al tuo posto”. Ma guarda caso uno di quei tre bambini inebetiti sedeva proprio al suo posto. “Perché non ci sono i miei compagni” insisteva Ginko, ma intanto si avvicinò al suo banco e fece per prendere il bambino che lo occupava per la manica. Nel momento in cui lo toccò però il bambino si sbriciolò. Gli altri bambini e una maestra continuavano a fissarlo con il loro sorriso stupido, mentre la maestra che aveva già parlato ripeteva: “Su coraggio siediti”.
Ginko aprì la cartella e cominciò a lanciare libri e quaderni contro i bambini e le maestre. Tutti si sbriciolarono lasciando per terra solo un po’ di segatura. Ginko corse fuori e provò a entrare nelle altre classi: tutte vuote.
Stava per uscire, quando una brutta caricatura del direttore, più grossa e deforme gli si parò dinanzi. Ginko gli sferrò un calcio, pensando si sbriciolasse invece, l’omone lo afferrò e cominciò a trascinarlo verso la direzione. Ginko allora gli sputò negli occhi e approfittando dell’allentamento della presa, perché con una mano il finto direttore si stava ripulendo gli occhi, sgusciò via e corse fuori, inseguito goffamente dal mostro.
Appena fuori, tutti gli uccelli cominciarono a gridare e Ginko, si fermò, si girò e aprì la gabbia per liberarli: appena fuori gli uccelli si trasformarono, nei suoi compagni, nelle maestre e nei bidelli della scuola.
L’omone, che era ormai sopraggiunto, lanciò un urlo. Ginko scagliò la gabbia a terra rompendola e il mostro incominciò a irrigidirsi, mentre lo strano nuovo albero lentamente riprendeva le sembianze del direttore.
L’olmo ritornò al suo posto e al suo aspetto. Inutile dire che quel giorno Ginko fu festeggiato con grandi onori da tutti e non fu sgridato per il ritardo ma ottenne anzi un permesso permanente di arrivare in ritardo.

venerdì 28 settembre 2012

LE NOCI MAGICHE

Un giovane ebbe in eredità dal padre il mestiere di seggiolaio, una piccola casa, con un piccolo prato e un grande noce, che faceva ogni anno moltissime noci.
Il giovane girava per i paesi e le città vicine e siccome era molto bravo, sia a riparare gambe e schienali sia ad impagliare, gli affari gli andavano a gonfie vele. Tanto che riuscì a comprarsi un asino per aiutarlo a trasportare gli attrezzi e il materiale da lavoro.
Un giorno conobbe una fanciulla, che era sola al mondo, essendo cresciuta in un orfanotrofio. I due si innamorarono e si sposarono. Ebbero presto una bimba e dopo poco anche un bimbo.
Un giorno il giovane fu aggredito dai briganti che per rubargli l’asino e il ricavo della giornata lo colpirono sulla testa con un bastone uccidendolo.
Per la giovane moglie nel frattempo era quasi giunto il momento del terzo parto. Dopo pochi mesi infatti nacquero due gemelli.
La povera donna, non poteva certo lavorare, con due bambini ancora piccoli e due neonati da accudire, né voleva separarsene avendo provato di persona la tristezza di dover crescere senza avere una famiglia.
Decise quindi di vivere dei beni lasciategli dal marito per un po’ di tempo per potersi dedicare interamente ai propri bambini, prima di incominciare a lavorare per mantenerli.
Ma dopo poco neanche un anno dalla morte del marito i soldi erano già finiti e i bambini erano ancora piccoli e impegnavo la madre dalla mattina alla sera.
Per fortuna era la stagione delle noci e la donna con i bimbi più grandi le raccolse, le essiccò e mentre i gemellini ancora allattavano lei e i figli più grandicelli incominciarono a nutrirsi di noci.
Dopo qualche giorno passò un viandante, che chiese di poter mangiare qualcosa. La donna spiegò la loro triste situazione e si scusò con il viandante di potergli offrire solo noci.
Il viandante sorrise e con il suo bastone percosse il tronco dell’albero. Caddero alcune noci. “Provate ad aprirle” disse il viandante. Così fecero e dentro trovarono al posto delle noci dei pezzetti di carne arrostita.
Il viandante era infatti uno stregone che fu festeggiatissimo dalla famigliola e quindi proseguì il suo viaggio.
Da quel giorno in tutte le noci cominciarono a trovare carne, pesce, pasta, verdure, frutta e ogni sorta di cibo.
Ma un giorno giunsero gli esattori del re per raccogliere le tasse e trovando solo una ricca provvista di ne vollero assaggiare. Quando si accorsero che le noci erano magiche riempirono un grosso sacco di noce per portarle al re.
Quando però furono al castello tutte le noci erano piene di muffa. Il re derise il capo degli esattori, che fu molto contrariato della cosa. Tornò dalla povera famigliola e controllò le noci: erano tutte sanissime e piene di cibi prelibati. Provò ad allontanarsi dalla casa, ma appena usciva dall'ombra del noce vide che i cibi si tramutavano in muffa.
Tutto contento della scoperta riuscì a convincere il re ad andare di persona sul posto. L’albero magico piacque molto al re che lo volle per sé e gettando un sacchetto di monete d’oro alla famiglia ne prese possesso e tornò al castello.
Il capo degli esattori, però disse:
Questo sacchetto d’oro serve a pagare le tasse” e cacciò la famiglia senza darle nulla.
La famigliola si allontanò disperata. La bimba però aveva tenuto in tasca alcune noci, che anche quando furono molto lontani dal vecchio noce restarono buone.
Trovarono una capanna abbandonata sul margine del bosco per passarvi la notte e i bimbi nascosero l’ultima noce seppellendola per terra fuori dalla capanna.
Il mattino dopo il re tornò al grande noce e lo trovò rinsecchito e si arrabbiò molto con il suo capo esattore.
Invece la famigliola uscendo dalla capanna vide che nella notte era cresciuto, dalla noce seppellita, un intero albero di noce, da cui già cadevano delle bellissime noci magiche.

domenica 23 settembre 2012

LA VALLE DELL'INVIDIA

Nelle terre al di là del mare, dopo un’ampia pianura e dolci catene di colline sorge una valle amena. Molto tempo fa gli abitanti della valle vivevano serenamente finché un giorno un demone vecchio e stanco che passava di lì non decise di stabilirsi nella valle a godersi la pensione.
Il demone aveva trascorso la vita tormentando gli uomini con mille calamità, così lui stesso aveva sempre vissuto in zone disastrate. Pensò perciò di meritarsi finalmente una casa più comoda.
Cominciò a rendere la valle più confortevole, facendo franare gli speroni di roccia che toglievano il sole d’inverno e facendo crescere alti alberi per ombreggiare d’estate, regolando i corsi dei ruscelli e livellando le strade. Bloccava i venti troppo impetuosi e le nubi temporalesche. Di giorno splendeva sempre il sole, ma spesso la notte pioveva, abbeverando piante e animali.
Sotto le cure del demone, la valle era diventata un paradiso. Il demone però non si accontentava di un bel clima, voleva anche un passatempo.
Così aprì ben bene i suoi pori e lasciò sprizzare fuori tutta la sua invidia per gli uomini, che avevano sempre dimostrato così grande forza e pazienza nel sopportare i suoi malefici.
Gli abitanti della valle furono subito pieni di invidia. Incominciarono a invidiare le valli del nord perché avevano più freddo e più neve d’inverno, quelle dell’est perché avevano più pioggia in autunno, quelle dell’ovest perché avevano più vento in primavera e quelle del sud perché avevano più caldo d’estate. Invidiavano gli abitanti della pianura perché non avevano strade in salita e quelli delle montagne perché avevano delle strade in discesa, gli abitanti della costa perché avevano il mare e quelli del deserto perché non avevano umidità.
Tra di loro poi si invidiavano ogni cosa: campi, case, attrezzi, animali, parenti. L’invidia impregnava tutta la loro vita, le amicizie morivano, le famiglie si sgretolavano, ciascuno si isolava e incattivito, passava il tempo a guardare tutto il bene degli altri augurandosi che venisse meno.
Così la vita nella valle seppure facile perché i campi erano fertili e gli animali pingui e fecondi divenne tristissima.
Finché i lamenti dei viaggiatori che passavano per la valle e venivano maltrattati dagli invidiosi abitanti giunsero in cielo e un angelo scese a controllare la situazione.
Visto come stavano le cose, l’angelo prese le nubi dall’oceano e dalle montagne, dalle colline e dalle pianure e le convogliò sopra la valle.
Inutilmente il demone cercava di scacciarle: si accumulavano sempre più nere e più spesse. Infine si scatenò una tempesta che durò sette giorni e sette notti.
Fiumi d’acqua scesero dal cielo trascinando fango e alberi dalle montagne, distruggendo campi e boschi, disperdendo le mandrie e le greggi e travolgendo le case dei paesi di fondovalle. Gli scampati al disastro fuggirono nei paesi più in alto, anch’essi duramente provati, e là furono ospitati.
La valle era sconvolta la ricchezza perduta, ma gli abitanti si ritrovarono e unirono le loro forze per rimediare ai disastri. I più fortunati, che avevano perso meno, compatirono e aiutarono i più sfortunati che da parte loro riconobbero la fortuna dei primi come un beneficio per loro stessi, grazie all’aiuto che ne ricevettero.
Il demone vedendo che gli uomini avevano riacquistato la loro serenità si rimangiò tutta l’invidia e fuggì via e la valle tornò ad essere una valle normale, imperfetta, ma serena.

sabato 15 settembre 2012

SOPRADIGA E SOTTODIGA

Nel paese di Mittemor c’erano due villaggi vicini, uno tra le colline e uno appena sotto. Tutti e due stavano sulla sponda del fiume Porpor, ma tra i due villaggi vi era una diga.
Il villaggio di Sopradiga era abitato da allevatori che usavano l’acqua del lago artificiale formato dalla diga come riserva d’acqua per il bestiame. Il villaggio di Sottodiga invece era abitato da agricoltore che utilizzavano l’acqua del fiume per irrigare i campi.
La diga stava esattamente a metà strada tra i due villaggi e ne segnava il confine. Spesso tra i due villaggi durante la stagione secca vi erano grosse discussioni per regolare il livello del lago e del fiume, poiché la stessa acqua serviva sia sopra sia sotto la diga.
Un giorno però mentre il lago era già al livello più alto, vennero del tutto fuori stagioni delle pioggie forti e insistenti.
Gli abitanti di Sottodiga corsero alla diga per rinforzarla, mentre gli abitanti di Sopradiga costruivano degli argini perché il lago crescendo non sommergesse il loro villaggio.
Le piogge continuavano senza sosta e gli abitanti dei due villaggi, non sapevano più cosa fare. Gli abitanti di Sottodiga si rifugiarono a Sopradiga, per paura di essere travolti dall’acqua del lago se la diga avesse ceduto e aiutarono a rinforzare gli argini.
Il vecchio della montagna che abitava alle sorgenti del fiume, compiaciuto per l’aiuto che i due villaggi si stavano reciprocamente dando e sapendo che la diga non avrebbe retto andò a svegliare il vecchio drago Molech e lo condusse come un cagnolino fino al lago. Qui usando il drago come un lancia fiamme costruì un canale che prendendo le acque dal lago le riportava nel fiume a valle di Sottodiga. Così i due villaggi furono salvi.
Quando la burrasca cessò, gli abitanti dei due villaggi salirono sulla montagna per ringraziare il vecchio e il drago, ma il vecchio disse loro che il miglior ringraziamento era quello di lasciar dormire in pace lui e il drago. Fu così che gli abitanti dei due villaggi costruirono una casa vicino alla diga per poter discutere sulla regolazione delle acque senza più disturbare con le loro grida il vecchio e il drago.

domenica 9 settembre 2012

JENNY E PENNY


Un uomo di nome Shon, percorrendo la via che va da Sud a Nord e vedendo quanto essa fosse lunga e faticosa decise di costruire una locanda a metà della strada, ai piedi delle montagne.
Così fece e lì si stabilì con la moglie Tara. Un bel giorno la coppia ebbe due bambine, due gemelle davvero identiche. Gli stessi capelli rossi, gli stessi occhi azzurri, le stesse labbra sottile, lo stesso naso all’insù. Le due gemelline però tanto erano uguali nell’aspetto, tanto erano differenti nel carattere. Una era infatti estremamente vivace, l’altra invece molto tranquilla.
Crescendo le due gemelle cominciarono entrambe ad aiutare i genitori alla locanda, ma mentre Jenny non si stancava mai di muoversi avanti e indietro lavorando o chiacchierando con i clienti, la gemella Penny appena poteva si sedeva in riva al fiume a guardare il cielo.
Penny amava soprattutto guardare il volo degli uccelli. Anche Jenny amava vedere volare gli uccelli, ma preferiva correre dietro alle loro ombre sui prati. Questa passione per il volo accomunava le due gemelle, che spesso ne parlavano tra loro.
Un giorno un elfo dei boschi, che ascoltava la loro conversazione, si fece avanti e rivelò loro che in mezzo alle montagne vi era un lago. La fata del lago, per un antico giuramento, realizzava i desideri di chi si fosse bagnato nel lago la sera del giorno del solstizio d’estate a patto che il comportamento di quella persona fosse stato irreprensibile nel corso dell’ultimo anno.
La fata sapeva leggere la vita delle persone dai loro occhi ed era davvero esigente e per questo dopo molte delusioni gli uomini si erano stufati di andare da lei e si erano dimenticati di lei e del lago. Solo gli elfi, che essendo immortali ricordano cose antichissime conservavano ancora questo segreto.
Le due ragazze erano così eccitate alla notizia che il loro desiderio di volare poteva essere esaudito, che non prestarono molto peso alle spiegazioni dell’elfo. Poiché però erano delle buone e brave ragazze continuarono a comportarsi bene secondo la loro natura.
Il giorno del solstizio, con il cuore in gola salirono al lago e al tramonto scesero nelle sue acque. Subito apparve la fata del lago. “Bene, bene” disse “C’è dunque ancora qualcuno che si ricorda di me. Dunque voi vorreste volare?” “Sì, sì” urlarono le ragazze. “In effetti non vi siete comportate male” disse la fata “Però tu Jenny pur avendo fatte tante cose buone, lo hai fatto per te stessa, per la tua smania di attività, più che per gli altri e perciò sei rimasta distante dal cuore delle persone che hai incontrato e tu Penny pur avendo fatte tante cose buone ne hai tralasciate molte altre per la tua indolenza. Perciò, anche se effettivamente io posso darvi il dono del volo non lo farò, ma farò invece volare questi due rospi.” Detto ciò due grossi rospi che stavano in riva al lago si trasformarono in due splendidi cigni e volarono via.
Le ragazze piansero dalla delusione, ma la fata le consolò “L’anno prossimo io sarò ancora qui e se voi tornerete, forse le cose andranno diversamente, comportatevi bene!”
Le ragazze tornarono a casa meditando le parole della fata.
Fu così che Jenny smise di correre sempre indaffarata e cominciò invece a passare molto tempo a pettinarsi e a curarsi le unghie per essere più carina con i viaggiatori di passaggio alla locanda. Penny invece si diede un gran da fare e pensò solo a lavorare.
Così passò un anno e le due ragazze tornarono al lago. La fata quando le vide scosse la testa e due coniglietti si trasformarono in due meravigliose aquile e volarono via. Le due ragazze capirono subito di aver fallito ancora e cominciarono a riflettere sul racconto dell’elfo, forse davvero non era possibile accontentare la fata. “Non scoraggiatevi ancora” disse però la fata “avete toccato i due estremi adesso potete trovare l’equilibrio”.
Le due ragazze sconsolate tornarono a casa e decisero di controllarsi e limitarsi a vicenda. Così lavorando e riposando insieme e occupandosi dei viaggiatori senza foga, ma con compartecipazione acquisirono grande fama presso tutti i viandanti del paese.
Al solstizio successivo la fata le accolse sorridendo “Questa volta sì, avete meritato il premio!” Felicissime le gemelle aspettavano di essere trasformate in qualche uccello, ma dopo un po’ vedendosi sempre uguali, un po’ dubbiose guardarono la fata. Questa rise e le prese per mano e volò con loro: “A voi ho dato il potere delle fate, perciò potrete volare con il vostro corpo e fare molte altre cose”.
Le due gemelle felicissime divennero così due fate, impararono molte magie dalla fata del lago e volarono per tutta la terra per aiutare la gente meritevole che ne aveva bisogno.

domenica 2 settembre 2012

LE BALESTRE MAGICHE


Un pastore di nome Silo pascolava le sue pecore vicino alla Grande Foresta dove nessun altro osava portarle, perché i lupi uscivano talvolta dal bosco mangiandosi pecore e pastori. Ma Silo aveva una balestra che non sbagliava mai un colpo, tanto che tutti la consideravano magica e con questa riusciva a difendersi dalle incursioni dei lupi.
Venne però un inverno molto freddo e i lupi si fecero più numerosi e aggressivi e Silo era in difficoltà. Chiese agli altri pastori di aiutarlo, ma nessuno ne volle sapere niente. Le loro pecore erano al sicuro e non volevano certo rischiare la vita per le pecore di Silo. Allora Silo costruì una seconda balestra identica alla prima e andò al villaggio.
Dopo un po’ trovò un giovane di nome Roan che accettò dietro compenso di andare con la balestra a cacciare i lupi. E così fece, e grazie alle balestre di Silo ben presto i lupi furono tenuti a bada e a primavera tornarono nella foresta, lasciando in pace le pecore di Silo.
Roan il cacciatore però vedendo sfumare il suo guadagno prese a cacciare le pecore di Silo. Questi se ne accorse e lo pregò di smetterla. Ma Roan fece finta di niente. Così Silo decise di affrontarlo. Prese la balestra e andò da lui. Questi si nascose dietro al fratellino e scagliò un dardo contro Silo. Silo fu ferito ma riuscì a lanciare la sua freccia che trapassò i due giovani uccidendoli entrambi.
I genitori di Roan corsero urlando contro Silo per ucciderlo e Silo non volendo fare altre vittime fuggì. Tutto il villaggio ed i pastori si riunirono e sentenziarono la colpa di Silo e lo condannarono all’esilio, pena per la verità leggera per un omicidio, ma nessuno aveva il coraggio di affrontarlo.
Silo amareggiato per la condanna ricevuta prese le sue pecore e si inoltrò nella foresta.
Venne di nuovo l’inverno e fu peggiore del precedente e di nuovo i lupi giunsero in massa. I pastori mandarono i genitori di Roan a fronteggiarli, ma essi furono uccisi.
Tutti si chiusero nelle case e i lupi fecero strage delle pecore e infine irruppero nel villaggio e entrarono nelle case e mangiarono tutti i suoi abitanti diventando i padroni del villaggio.
Silo intanto che vagava tra le radure della foresta, conobbe una tribù di cacciatori che lo aiutò a salvare le sue pecore. Con i cacciatori della foresta tornò al villaggio e lo liberò dai lupi e tornò a vivere tranquillo insieme al nuovo popolo che lo aveva accolto nella foresta e che ora si era stabilito nel villaggio e nessun lupo osò mai più entrarvi.

domenica 26 agosto 2012

LA PRINCIPESSA PALLIDA


Il re del Paese dei Salici aveva una figlia di nome Giada. Tutti i dignitari del regno e tutti i sudditi, consideravano Giada non solo la più bella ragazza del regno, ma di tutta la Terra, non potendo immaginare una bellezza più grande.
Giada aveva un carattere dolce e socievole, tanto che, appena riusciva ad eludere la sorveglianza della guardia reale, usciva dal castello per andare a passeggiare tra la gente e spesso si fermava a giocare con i bambini o a chiacchierare con giovani, adulti e anziani.
Tutti le volevano molto bene e per questo il re, anche se sgridava bonariamente la figlia per le sue frequenti uscite solitarie, non ordinava mai alle sue guardie di sorvegliarla più strettamente per impedirgli davvero di lasciare il castello.
Un giorno però, mentre sostava presso una fontana per rinfrescarsi, la principessa incontrò una donna vestita di nero, che mai prima di allora aveva visto. Era la strega Barbogia, cattiva e invidiosa. Infatti appena vide la bellissima fanciulla fu rosa dalla gelosia e congegnò uno dei suoi perfidi malefici.
Si avvicinò alla principessa e appoggiandole una mano sulla schiena le disse: “O povera fanciulla, stai molto male? Coraggio, coraggio, sono qui per aiutarti!”. Giada rise stupita: “Ma no, vi sbagliate, non sto affatto male”. “Davvero” rispose la strega, fingendosi stupita “eppure sei così pallida, che sembra tu stia per morire”.
La pelle della principessa era in verità molto chiara, ma quel candore si abbinava perfettamente ai suoi capelli, ai suoi occhi e ai suoi lineamenti, conferendole maggiore bellezza. Giada guardò la propria immagine riflessa nella fontana e non vide un colore anormale, ma per la prima volta in vita sua si accorse del candore della propria pelle.
La strega non perse tempo e prima di dare tempo alla fanciulla di riflettere aggiunse: “Devi stare più tempo all’aria aperta, prendere un po’ di sole”. Giada rispose sempre più incerta: “Ma io sto quasi sempre all’aperto”. “Oh ma davvero” disse Barbogia fingendosi affranta “allora è proprio la tua pelle ad essere così, che peccato però, saresti una così bella ragazza, se non fosse per questo pallore spettrale”.
Giada, che era da sempre abituata a ricevere solo complimenti, si turbò moltissimo sentendo le parole della donna e si guardava sconsolata la pelle. Allora la strega mise a frutto il suo astuto piano: “Non essere triste, ho io la soluzione al tua problema” e svelta, svelta estrasse dalla borsa una boccetta: “In questa fiala c’è un unguento che ha il potere di abbronzare anche la pelle più pallida, persino la neve diviene del colore del mogano se bagnata da questo olio, spalmati per bene con quest’olio, subito questa sera e già domani avrai una splendida abbronzatura”.
Giada ringraziò la donna, tornò al castello e la sera si unse con il magico unguento. La mattina dopo appena sveglia corse allo specchio ed effettivamente si vide perfettamente abbronzata.
Tutta contenta andò dalla sua damigella pensando di farsi rimirare, ma essa sembrò non badare al colore della sua pelle, ma tappandosi il naso le disse “Misericordia principessa, che orribile odore”. “Che puzza disgustosa” dissero le guardie, “Che olezzo ributtante” disse la cameriera, “Che tanfo ripugnante” disse la governante, “Che fetore vomitevole” disse il giullare, “Che lezzo raccapricciante” disse il ciambellano. E così via.
Ogni persona che incontrava si turava il naso e si allontanava da lei inorridito e in preda ai conati. In breve Giada capì che la pozione aveva reso la sua pelle non solo scura, ma anche orribilmente puzzolente.
Il tanfo che emanava dalla sua pelle era davvero terribile e solo la povera Giada non l’avvertiva. Provò a lavarsi, a profumarsi a purificarsi con saune, bagni turchi, incensi e fumi aromatici, diete vegetali, ma non c’era niente da fare, il fetore ripugnante non diminuiva per nulla.
La vita della principessa fu sconvolta: così ributtante era il suo odore che nessuna persona o animale riusciva ad avvicinarla e persino le piante deperivano alla puzza che emanava la sua vicinanza.
Giada fu costretta a ritirarsi tutta sola in una torre del castello e a passeggiare in un angolo del giardino reale che ben presto divenne spoglio come un deserto. Guardava da lontano le piante, gli animali e le persone e piangeva.
Finché un giorno, dalle lontane terre del Nord giunse un cavaliere di splendido e nobile aspetto, forte e triste. Era il principe Modrum che cercava moglie, non avendo trovato né nel suo paese né in quelli vicini una donna di cui riuscisse ad innamorarsi, ed era pronto a ricompensare il padre della sposa con cento carri pieni di gemme preziose.
Proprio mentre il principe arrivava nel paese, i salici cominciarono a fiorire e la lanugine copriva come neve il paese. Il principe, che non conosceva i salici restò meravigliato, ma cominciò anche a starnutire e a tossire, gli occhi gli lacrimavano, la testa gli girava e si sentiva le febbre alta. Era allergico al polline dei salici!
Decise perciò in cuor suo di attraversare più velocemente possibile quel paese e continuare più oltre la sua ricerca.
Quando però il re seppe dell’arrivo del principe nel Paese dei Salici e della sua ricerca, ordinò che il cavaliere del Nord fosse portato subito alla sua presenza. Le guardie del re lo raggiunsero e gli ordinarono di presentarsi al re del paese.
Il principe, che rispettava le leggi, seppur di malavoglia seguì le guardie e si presentò al castello. Starnutendo e soffiandosi il naso, il cavaliere chiese al re di lasciarlo proseguire velocemente, perché il polline dei salici lo tormentava. Ma il re gli disse: “Prima di proseguire vorrei presentarti mia figlia”.
Dopo aver dato ordini severi a tutti i cortigiani e aver costretto anche la figlia a promettere il silenzio, introdusse il principe nella stanza di Giada.
Modrum fu subito colpito dalla principessa e a causa del fortissimo raffreddore non né sentì la puzza. Giada, fu contenta di poter parlare finalmente con qualcuno, che non scappasse via dopo pochi secondi in preda ai conati di vomito.
A sera i due giovani stavano ancora chiacchierando, ma già si erano innamorati. Modrum propose subito a Giada di sposarlo e Giada, lo mise in guardia, dicendogli, che non poteva rompere il giuramento del silenzio, ma una stregoneria era su di lei e lui non avrebbe dovuto sposarla, anche se lei stessa ne sarebbe stata molto felice.
Modrum restò perplesso, ma scrollò le spalle, troppo innamorato per vedere problemi anche in quella pur strana situazione e andò dal re a chiedere la mano della principessa.
Il re acconsentì, ma pose la condizione che le nozze dovevano svolgersi il giorno seguente al castello. Modrum acconsentì e la mattina seguente, alla presenza di pochi testimoni, con il naso turato dalla cera e i visi coperti dai veli sposò la principessa.
Poiché grande era la gioia per avere trovato la sposa che sempre aveva sognato si meravigliò solo un poco dello strano abbigliamento dei presenti alle nozze: “Questa è l’usanza del nostro paese” gli spiegò astutamente il re.
La mattina seguente si mise in viaggio per tornare nel regno di suo padre, con la sua bellisima sposa. Quando però uscirono dal Paese dei Salici, e la lanugine sparì anche il raffreddore allergico cessò e Modrum incomincio e sentire come tutti la puzza della pelle di Giada.
La poverina, che aveva pensato che almeno Modrum non avrebbe mai sentito il suo odore, piangeva disperata e propose a Modrum di abbandonarla nel deserto, dove desiderava morire. Modrum però, che ormai amava Giada, si riempì il naso di fango e portò Giada al suo paese.
Il padre di Modrum si indignò per il raggiro che il re del Paese dei Salici aveva ordito ai danni di suo figlio, ma per non contrariarlo accettò Giada e le diede la torre più alta del castello per rifugiarsi lontana dalle narici delle gente.
Tutti i medici, i guaritori e i maghi del paese furono convocati, ma nessuna soluzione fu trovata. Finché una ragazza di nome Sheena, che passava tutto il suo tempo libero a prendere il sole, convinse Giada ad andare con lei sul ghiacciaio che scendeva al mare in cima al grande fiordo in cui sorgeva la capitale del regno del Nord.
Qui fece sdraiare Giada su una coperta in una giornata di sole. Il riflesso dei ghiacci e il sole di montagna, presto scottarono la pelle della principessa, che si seccò e cadde. Sotto riapparve la vecchia pelle candida e profumata.
Il principe allora prese Giada, Sheena, cento carri di gemme preziose e mille guerrieri e tornò nel Paese dei Salici. Il padre di Giada fu contentissimo di riabbracciare la figlia liberata dal sortilegio e lodò le lealtà del principe, che nonostante il raggiro gli consegnava le gemme pattuite.
Così i guerrieri del Nord non dovettero sguainare le spade perché il re accettasse il pegno impostogli da Modrum per farsi perdonare e donò a Sheena un lungo tratto di spiaggia, dove la ragazza fondò una bellissima stazione balneare che divenne famosa per i suoi bagni di sole.
Modrum e Giada tornarono nel paese del Nord dove divennero gli amatissimi regnanti e vissero felici e contenti per lunghissimi anni ed ebbero molti figli e figlie belli, buoni, forti e profumati come i loro genitori.

domenica 19 agosto 2012

LA STANZA DEL RICCO


C’era un uomo molto ricco, che abitava in una casa costruita sulla roccia e passava tutto il tempo in una grande sala dove riceveva i suoi amministratori, i mezzadri e i mercanti. La sala aveva una sola uscita verso l’esterno e una più larga, verso la sala del tesoro.
Il ricco signore passava tutto il tempo lì dentro a curare i suoi affari, mangiava e beveva lautamente e dormiva dietro un separé vicino all’ingresso della stanza del tesoro. L’attività dell’uomo era frenetica, tanto che per anni dimenticò di uscire dalla stanza e a causa del poco moto e delle abbondanti libagioni divenne molto, molto grasso.
Un giorno finalmente guardando dalla finestra della stanza la città con i suoi giardini e i boschi sui monti e la campagna con i torrenti e i laghi e gli uccelli che volavano nel cielo, ebbe voglia di lasciare per un po’ i suoi affari e di uscire.
Subito però si accorse di essere divenuto troppo grasso per passare dalla porta. Chiese di allargarla, ma gli fu detto che ciò non poteva essere fatto senza far crollare tutta la casa e lo stesso valeva per il tetto e la finestra, poiché la casa era stata costruita come una fortezza per difenderla dai ladri.
L’uomo chiese allora di scavare un tunnel, ma la roccia era così dura da spezzare le punte dei picconi. Convocò allora i medici per una cura dimagrante, ma scoprì che occorrevano molti mesi per perdere tutti i chili necessari a passare di nuovo dalla porta e inoltre si richiedeva una dieta ferrea e molto moto. Ma chiuso in quella stanza l’uomo non poteva fare molto moto, né aveva altri passatempi se non quello di mangiare. Come fare allora?
Il ricco mercante si sentì in trappola e divenne sempre più nevrotico. Dopo poche settimane stava già per impazzire, quando si presentò un vecchietto magro magro con un grosso gatto, una cornamusa e un sacco. “Se mi donerai tutti i tuoi averi ti farò uscire dalla stanza in meno di un’ora”. L’uomo che era ormai disperato accettò.
Allora il vecchietto gli ordinò di stendersi per terra e gli mise un piede sopra, poi gli insegnò una canzone dalle parole misteriose, estrasse dal sacco un furetto digrignante e lo tenne ferme al suolo con l’altro piede. A quel punto iniziò a suonare la cornamusa.
L’uomo come gli era stato ordinato cominciò a cantare: “Carumma com curum, carumma com curum, carumma com curum, …”. Dopo un po’ l’uomo cominciò a digrignare i denti e il furetto ad emettere strani versi: “Cam com cum”.
L’uomo e il furetto si erano infatti scambiati il corpo. Il vecchio subito capì che lo scambio era avvenuto e lasciò libero il corpo dell’uomo posseduto ora dal furetto.
Il gatto gli si avventò contro, e il furetto, che non sapeva di possedere un corpo da uomo, incominciò a fuggire disperato per la stanza. Mosso dal furetto il corpo dell’uomo incominciò a sudare e sudare e in poco più di tre quarti d’ora aveva perso più di cento chili di peso.
Allora il vecchio posò la cornamusa e recitò delle parole magiche. “Carumma com curum” riprese a cantare l’uomo, che era di nuovo nel suo corpo. Nel suo corpo dimagrito.
Il vecchio rimise il furetto nel sacco. L’uomo lo ringraziò e se ne andò povero e felice a godersi i prati, i boschi i laghi e i ruscelli. Il vecchio fece demolire la casa e donò tutte le ricchezze agli amministratori, ai mezzadri, ai servi e ai poveri della città. Quindi andò nel bosco liberò il furetto e seguito dal suo grosso gatto se ne andò per la sua strada.

martedì 14 agosto 2012

IL CASTELLO SENZA PORTA


Nella notte dei tempi i guerrieri del castello di Nodor uscirono per una grande guerra in terre lontane lasciando il castello incustodito. Il castello infatti possedeva una porta incantata, che si apriva pronunciando una formula magica e poi si richiudeva senza lasciare traccia di sé, cosicché il castello pareva del tutto senza porte. Le mura del castello erano perfettamente lisce, altissime e talmente dure da non poter essere scalfite nemmeno dal diamante né erano intaccate dal fuoco.
I guerrieri di Nodor combatterono con molti altri eserciti una grandissima battaglia contro le forze del male, che furono sconfitte, ma prima di soccombere annientarono interi eserciti di valorosi combattenti delle schiere del bene. Anche i guerrieri di Nodor offrirono le loro vite e nessuno di loro fece ritorno a casa.
Il castello restò così abbandonato e inaccessibile.
Molto tempo dopo una tribù di pastori giunse nella valle, piantò le tende all’ombra del castello e condusse le bestie nei verdi pascoli della valle.
Si stupirono molto di quello strano e altissimo castello senza porta e dalle mura altissime e durissime e naturalmente non poterono entrarvi e un po’ alla volta si abituarono alla sua presenza, come fosse una roccia qualsiasi.
Solo un ragazzo di nome Rod guardava sempre con interesse il castello meditando di potervi entrare. Infatti Rod aveva trovato un grosso pulcino che pigolava tra le rocce. Dopo aver atteso invano il ritorno della madre, il ragazzo si era preso cura del pulcino allevandolo.
Il pulcino era cresciuto ed era diventato una grande e forte aquila, che era poi ritornata a fare il nido tra le rocce più alte, ma era rimasta amica del ragazzo.
Spesso l’aquila andava a trovare Rod portandogli in dono anche qualche coniglio, qualche topo e qualche serpente appena catturato. Rod sognava così di poter volare con l’aquila fino al castello, ma da un lato aveva paura, dall’altro l’aquila non sembrava molto disposta a fare da cavallo volante.
La vita trascorreva tranquilla, quando un giorno giunse la notizia di un crudele esercito che stava avanzando saccheggiando e devastando tutte le terre in cui passava e sarebbe certamente arrivato fino a Nodor.
I pastori riflettevano già se abbandonare la valle per fuggire verso terre ignote, sempre però con il timore di essere raggiunti dai nemici.
Rod allora prese il coraggio tra le mani, spiegò all’aquila il grande pericolo per la sua gente e la convinse a portarlo sulla schiena, così in volo, cavalcando l’aquila, entrò nel castello.
Il cuore gli batteva forte quando l’aquila lo depose in cima alle mura. Guardando in giù vedeva tutta la valle e le persone e le bestie sembravano piccole formiche che giravano qua e là.
Dopo aver fatto il giro delle mura Rod iniziò a esplorare il castello. Attraverso scale di marmo e d’oro entrò nelle torri e nei palazzi scoprendo grandi sale coperte di arazzi e con i soffitti affrescati, mobili intarsiati e porta lampade tempestati di gemme, stanze piene di armi scintillanti o di scaffali con mille pergamene e cucine piene di ogni stoviglia e camere con letti di legno e materassi di piuma d’oca e ancora nelle cantine orci e giare, che contenevano cibi e bevande ancora ben conservati. Nei cortili interni vi erano stalle e pozzi con acqua pura.
Infine nella mura trovò una grande incavatura, un atrio che dava su una porta. “Evviva” pensò Rod “dunque esiste una porta da cui fare entrare la mia gente con le nostre bestie e ripararsi dai nemici”. Ma non vi era nessuna serratura, nessuna leva, nessun meccanismo per aprire la porta. Ispezionò tutto il muro, ma trovò solo una piccola targa con delle scritte in una lingua sconosciuta.
“Questa deve essere la chiave” pensò Rod e presa la targa tornò sulle mura. L’aquila che volteggiava sopra il castello vide i segnali del ragazzo e scese a prenderlo e lo riportò all’accampamento.
Gli anziani si riunirono, ascoltarono Rod e analizzarono la targa. Decisero che solo i monaci della valle dei templi potevano conoscere il segreto di quella scrittura misteriosa. Ma ahimè, la valle dei templi era distante molti mesi di cammino e non era possibile raggiungerla e tornare prima dell’arrivo degli invasori.
Rod chiese allora di nuovo aiuto all’aquila che radunò le aquile più forti e veloci e sfrecciarono nel cielo portando a turno sulla schiena Rod con la sua preziosa targa.
Giunsero così alla valle dei templi, mostrarono la targa e furono condotti dal più dotto dei monaci, che consultando alcune antiche pergamene riuscì a decifrare le scritte. E la scritta spiegava proprio la parola da usare per aprire la porta.
Subito le aquile e il ragazzo tornarono a Nodor e mentre già i guerrieri galoppavano verso gli atterriti pastori, Rod fece aprire la porta e uomini e bestiame si rifugiarono nel castello, mentre gli invasori sbatterono le teste contro la porta che s’era appena richiusa.
Invano strinsero l’assedio alla fortezza e subirono molte perdite perché dall’alto i pastori con gli archi le frecce e le catapulte trovate nel castello li bersagliavano. Così gli invasori sconfitti si ritirarono e non tornarono mai più nella valle di Nodor.
I pastori stabilirono la loro casa nel castello e donarono le antiche pergamene e molti altri oggetti di valore ai monaci della valle dei templi per ringraziarli del loro aiuto. Alle aquile fu concesso di fare i loro nidi sulle torri del castello e aquile e pastori rimasero per sempre amici e alleati, anche se né Rod né nessun altro cavalcò mai più un aquila.

martedì 7 agosto 2012

BOBBY FARTER E IL DRAGO


Tra le montagne Colorate vi è una valle arida, aspra, avara di frutti. E’ la valle di Bohnenwinde la cui terra è generosa solo con i fagioli. Infatti mentre tutte le piante crescono stentatamente le piante di fagioli fioriscono rigogliose e producono quantità straordinarie di bacelli pieni di grossi e saporiti fagioli.
Inutile dire che la dieta degli abitanti di Bohnenwinde è ricchissima di fagioli. Nelle famiglie più povere poi si mangiano soltanto fagioli.
La famiglia di Bobby Farter era una famiglia numerosa e possedeva un solo campo, naturalmente di fagioli.
Mangiando sempre e solo fagioli le scoregge erano all’ordine del giorno, ma Bobby aveva un problema. I suoi peti erano infatti talmente fetidi da dare il voltastomaco a uomini, animali e piante nel raggio di 300 metri.
Così Bobby veniva spesso cacciato in malo modo dai suoi stessi familiari, che pur gli volevano bene, figurarsi dagli altri.
Un giorno stufo di questa situazione Bobby mise i suoi quattro stracci in un fagotto insieme alla sua razione settimanale di fagioli e lasciò la valle.
Dopo aver camminato per giorni e giorni tra le montagne un mattino, dopo aver fatto colazione con la solita scodella di fagioli fritti, girato un costone di roccia si trovò all’imbocco di una bellissima valle.
Si incamminò pieno di speranza lungo il sentiero che si inoltrava nella valle, quando dal bosco sbucarono fuori due guardie con i capelli piumati, le armature lucenti e delle lunghe lance.
“Benvenuto nella valle di Apfelduft, straniero” dissero le guardie.
“Grazie” rispose Bobby, già contento del saluto.
“Stai ben attento però, che la valle è tormentata da un orribile drago, che ha fatto la sua tana nel bosco, e fa strage di ogni creatura che gli capiti sotto tiro e distrugge inoltre case, stalle, frutteti e piantagioni”.
La guardia aveva appena finito di parlare quando si udì un rumore di ali e un forte soffio, il cielo si oscurò e il drago piombò su di loro.
Il drago era veramente terrificante, pieno di creste appuntite e di protuberanze molliccie, con gli occhi di fuoco e le narici fumanti. Nell’enorme bocca aveva quattro file di denti acuminati e una bava disgustosa colava all’intorno.
Bobby si spaventò come mai in vita sua e gli scappò una grande scoreggia. I miasmi del peto di Bobby tramortirono immediatamente il drago che piombò al suolo in preda alle convulsioni. Le guardie caddero a loro volta al suolo prive di sensi.
Bobby capì al volo la situazione, raccolse le lancie delle guardie e le conficcò in mezzo agli occhi del drago, uccidendolo.
Poi con una grossa foglia arieggiò attorno alle guardie che rinvennero e videro il drago morto.
Bobby fu portato al paese e festeggiato come un eroe.
Fu imbandito un grande banchetto e Bobby mangiò avidamente mele, miele, riso, carote e patate e bevve del buon vino rosso e l’acqua della sorgente Vollgesund.
Per la prima volta in vita sua il pasto non gli gonfiò la pancia e Bobby digerì senza problemi.
Gli abitanti di Apfelduft pregarono Bobby di fermrsi da loro. Bobby accettò volentieri, ma disse che l’unica cosa che sapeva fare era coltivare fagioli.
“E questo farai” gli risposero “ma i fagioli serviranno come scorta nel caso arrivi qualche altro mostro nella valle, al tuo cibo penseremo noi, perché non vorremmo fare anche noi la fine del drago”. Tutti risero di gusto.
Bobby da quel giorno coltiva il suo campo di fagioli nella valle di Apfelduft e mangia di tutto, tranne i fagioli.

domenica 5 agosto 2012

IL PASTORE DI NUVOLE


Il pastore di nuvole aveva dei grossi scarponi sempre ben ingrassati, calzoni e giacca di pelle e un cappellaccio impermeabile. Questi vestiti infatti sono i più adatti per chi vive sempre sotto il brutto tempo.
Il pastore di nuvole camminava sotto una coltre fitta di nubi battendo ritmicamente un grosso tamburo che portava a tracolla. Le nuvole seguivano quel suono e così il pastore riusciva a portarle dove voleva.
Quando voleva far piovere il pastore prendeva un secondo tamburo un po’ più piccolo, che teneva appeso sulla schiena, e suonava dei ritmi che solo lui conosceva. Le nuvole obbedivano riversando, più o meno, la quantità che il pastore chiedeva loro.
Come aiutanti il pastore aveva quattro falchetti, che volavano sopra le nubi e avvertivano il loro padrone se qualche indisciplinata stesse separandosi dalla coltre.
Il pastore conosceva anche dei ritmi particolari per calmare le nuvole imbizzarrite che scaricavano invece della pioggia la grandine
Il pastore sapeva bene quando la pioggia serviva alle campagne o per riempire gli abbeveratoi e i pozzi ed era sempre ben accolto nei posti in cui si recava con il suo strano gregge.
Il pastore non era avido, ma solo un po’ goloso, così si accontentava di poco come compenso per il suo lavoro, ma non disdegnava i lauti banchetti di festeggiamento che gli venivano offerti.
Non poteva però fermarsi molti giorni in uno stesso posto, perché le nuvole devono essere tenute sempre in movimento. Devono passare sopra il mare e i laghi per riempirsi di umidità e passare veloci sopra la terra per restituire l’acqua senza causare alluvioni, perché per stare bene hanno bisogno di liberarsi spesso dell’acqua.
Girando così velocemente da un posto all’altro, i pastori di nuvole faticavano a trovare moglie anche perché poi vivere con un pastore di nubi significa veder il sole solo di lontano e questo difficilmente può piacere a un donna.
Il nostro era così l’ultimo pastore di nuvole ed incominciava ormai ad essere avanti negli anni. Decise perciò di sacrificare una parte del suo gregge andando a cercare moglie nel deserto. Lì infatti poteva lasciare fermo il suo gregge ad arrabbiarsi e consumarsi con tempeste di acqua e di grandine senza causare guai.
Il pastore si fermò vicino ad un’oasi ed affidato il gregge di nubi ai falchetti andò a cercare moglie.
Il capo dell’oasi, vedendo che il pastore era in grado di portare la pioggia e la tempesta, lo accolse con gioia e gli promise subito in sposa la figlia.
“Con calma - disse il pastore - dobbiamo prima conoscerci e vedere se ci piacciamo, poi tua figlia deve essere disposta a passare da questo paese pieno di sole ad una vita sotto le nuvole.”
Ma il capo, che era una persona ambiziosa e violenta svelò il suo piano al pastore: voleva trattenere le nuvole lì per sempre per irrigare il deserto e per combattere le altre tribù con la forza della tempesta. Il pastore spiegò che ciò non era possibile, perché se le nuvole non possono correre per il cielo, si ammalano e muoiono.
Il capo dell’oasi allora disse che lui stesso avrebbe accompagnato il pastore e il suo gregge fino al mare tutte le volte che ciò era necessario, ma poi sarebbero tornati lì nella sua oasi. Il pastore rispose: “va bene andiamo è ora di partire”.
Il capo dell’oasi scelse i suoi uomini più fedeli e valorosi per fare da guardia al pastore e partirono con lui.
Quando fu notte il pastore fece scendere alcune nuvole fino a terra e nella nebbia si sottrasse alla vista delle sue guardie, poi con il suo tamburo e l’aiuto dei falchetti, mandò una tempesta verso est. Mentre lui silenziosamente con il resto del gregge fuggì velocemente verso ovest.
Le guardie e il loro capo malvagio, confusi dalla nebbia e assordati dal rumore della tempesta partirono all’inseguimento di questa.
Così il pastore riuscì a fuggire e abbandonò l’idea di prendere moglie e fu perciò l’ultimo pastori di nubi.
Per questo da quel giorno le nuvole sono tornate tutte selvatiche e corrono libere per il cielo lasciando cadere pioggia, grandine e neve a loro piacimento e senza troppa considerazione per i desideri degli uomini e degli animali.